Un’ipotesi urbanistica per Torino: dalla Città della rendita alla Città dialogante e solidale

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di Claudio Malacrino[1]

1. Vulnerabilità e povertà

Attenti analisti e recenti studi invitano a riflettere sul fatto che viviamo in un contesto sempre più contraddistinto da un diffuso senso di vulnerabilità in relazione alla incombente povertà.

Un’esperienza – quella della povertà – percorsa già da generazioni recenti di cinquantenni e che, oggi, investe i 40/45enni e i giovani.

Una vulnerabilità vissuta su più versanti: personale (entro la famiglia – con effetti devastanti nei rapporti con il coniuge o verso i figli – o in solitudine), sociale (con l’accrescersi del divario tra “garantiti” e non garantiti), politico, internazionale.

La Caritas Diocesana di Torino, ad esempio, riferisce fin dal 2010 che[2]:

  1. circa 8.000.000 di italiani sono invischiati in varie forme di povertà (circa il 14% della popolazione)
  2. in Piemonte tale tasso sarebbe compreso intorno all’8%, grazie all’apporto positivo della provincia di Cuneo e di altre aree ad alta densità produttiva del sud ed est regione, in cui l’effetto della crisi è ancora attutito
  3. Torino è attestata intorno all’11% con la tendenza a un leggero incremento; in ascesa negativa sarebbero il Canavese, il Biellese, l’Alessandrino e parte del Pinerolese; sacche di povertà si stanno aprendo a Cuneo città, in Val Susa e nelle valli tra il Vercellese e il Verbano.

Se, poi, analizziamo i dati riferiti agli immigrati (4 milioni in Italia, il 7% della popolazione, ma il 12% a Torino e 350.000/400.000 in Piemonte con una crescita di circa 60.000 unità all’anno) scopriamo che, da un lato, quasi tutti vivono una condizione di esclusione sociale e politica e, dall’altro, il 10% di essi, oltre 40.000, fa molta fatica.

Il restante 90% conduce una vita sobria per necessità, con il rischio di scivolamento nella fascia della cosiddetta povertà nera. La povertà degli stranieri è molto più pesante di quella degli italiani.

 

2. La Città dolente

L’osservazione di questi dati ci fa, intanto, rilevare che il Piemonte e Torino, dunque, stanno seduti su una polveriera sociale: 200/300mila poveri in Piemonte, circa 100 mila a Torino, cui si aggiungono: 400.000 immigrati in condizione di esclusione sociale e politica, di cui 40 mila immigrati poveri, e un coacervo di categorie esposte alla tendenza all’impoverimento: giovani, anziani soli e non autosufficienti, famiglie monoparentali con genitore donna, precari, lavoratori a termine, lavoratori ultra 40enni, portatori di disabilità di grado medio, persone dipendenti da sostanze (droghe, alcol, gioco)[3]. A questa Città dolente si dovrebbe riferire una politica attiva locale.

 

3. Il lavoro (precario), la questione delle abitazioni ed il cambio generazionale

La presenza sempre più accentuata, in ogni famiglia, del lavoro precario per larghe fasce della popolazione (anche quelle protette e/o quelle dei ceti medio-alti), sia ad inizio carriera che durante il suo decorso, costituisce un ulteriore elemento di allarme sociale: è esso stesso cartina di tornasole, boa segnalatrice di quel diffuso senso di vulnerabilità di cui si è già detto.

Il lavoro precario, secondo quanto rivelano i formatori, genera sia problemi a livello del cammino di formazione e di inserimento, che a livello di insufficienza di reddito disponibile (la famosa crisi della quarta settimana viene dagli studiosi ritenuta attribuibile a questo scarto tra reddito disponibile e necessità di consumi).

Questo precariato che interessa sia la fascia giovanile della popolazione sia gli over 40, usciti dal circuito lavorativo o espulsi da esso, si accompagna sempre più con la questione della abitazione in tutti suoi risvolti sociali ed economici, in primo luogo, ma, da non trascurare anche psicologici: uomini senza domicilio sulla carta di identità quasi non hanno cittadinanza.

Si osserva in Torino, ad esempio, l’emergere di un cambio generazionale (ed etnico) che sta investendo diversi comparti del territorio della città (con preminenza per Barriera di Milano, Mirafiori Sud e l’asse della metropolitana a ovest).

Questo fatto porterebbe a rivedere, a ripensare le relazioni territoriali, a ridisegnare quelle che gli esperti chiamano le mappe umane presenti in città con un approccio multiculturale.

 

4. La Città della rendita

La Provincia di Torino affidò ad Augusto Cagnardi il compito di studiare una ipotesi di disegno a scala urbana relativa all’ambito del cosiddetto “Corso Marche” di Torino.

Si tratta di un ambito urbanistico che connette il quadrante settentrionale – intorno alla prima cintura e al complesso della Reggia di Venaria Reale – ed il quadrante meridionale – intorno alle aree FIAT ed alla Reggia di Stupinigi – dell’area metropolitana torinese, arroccata a cavallo del cosiddetto sistema autostradale tangenziale torinese (SATT).

Questo progetto/studio di Cagnardi[4], in realtà, ipotizza la realizzazione dell’autostrada urbana nord/sud ed, ad un livello inferiore all’autostrada medesima (a sua volta collocata al di sotto di un viale urbano), del tratto della linea ad alta capacità (o alta velocità che dir si voglia) in attraversamento di Torino; sfruttando questo telaio infrastrutturale il progetto propone, come meglio si dirà più oltre, una elevata densificazione delle aree circostanti il viale urbano con architetture avulse dallo sky line torinese.

 

5. Il rito ambrosiano dell’urbanistica

Nell’ottobre del 2007, nell’ambito di un’inchiesta sull’urbanistica di rito ambrosiano[5], Oreste Pivetta puntualizzava, con riferimento a Milano, che “la città cambia senza una regia, un disegno organico e coerente: prevale la necessità di avere la bella firma, l’architetto famoso, il progetto ambizioso per attirare investimenti, clienti e banche”.

Intervistata, a tal proposito, la Consigliera Comunale Milly Moratti affermava: “manca il rispetto per la storia e manca la strategia per il presente”.

Le trasformazione che subirà Torino (e i Comuni contermini di Grugliasco e Collegno) per effetto del progetto di Corso Marche – così come prefigurato nelle ipotesi di Cagnardi – si inscrivono entro questa cornice.

 

6. Corso Marche a Torino

In origine, quando fu ipotizzato, e fino al 2008 con gli approfondimenti del Piano Territoriale e di altri Piani Strategici della Provincia di Torino datati, corso Marche avrebbe dovuto assolvere sia alla funzione di corda autostradale nord/sud, sottesa alla tangenziale autostradale di Torino ed affiancata da un itinerario ciclopedonale di taglia europea, sia all’altra funzione essenziale di connettere un contesto metropolitano di alto valore architettonico, paesistico ed ambientale.

Un contesto pianificato da oltre 300 anni, dalla reggia e parco di Stupinigi alla reggia di Venaria Reale e Parco della Mandria, al parco collinare.

Entro tale cornice Corso Marche era a servizio del recupero della “natura dentro la città” (connettendo 3 corridoi fluviali intercomunali est/ovest al Po), della connessione di grandi dorsali verdi ciclopedonali, dell’integrazione del sistema del grande verde torinese con le aree ad ovest del corso Marche medesimo, a sud di Grugliasco (il Parco del Gerbido), fino alla collina di Rivoli/ Rivalta (parco della collina morenica e parco agrario).

Il progetto Cagnardi, viceversa, ha annichilito questa progettualità urbanistica a scala metropolitana, per ricondurre il progetto alla mera veste edilizia.

 

7. Il rito savoiardo dell’urbanistica

Il 6 aprile 2009 Cagnardi, in occasione della presentazione del suo progetto, rilasciava una significativa intervista[6] dal titolo “Milano studi il modello Torino” e dal sottotitolo ancor più eloquente: “Cagnardi: Sotto la Mole non si sono mai sprecate le occasioni urbanistiche”. In quell’intervista Cagnardi affermava che “quell’ambito[7] diventerà il nuovo baricentro dell’area metropolitana”.

Come ampiamente hanno dimostrato con le loro relazioni Raffaele Radicioni[8], Piergiorgio Lucco Borlera[9] e Angelo Tartaglia[10], le ipotesi su Corso Marche di Cagnardi, in verità, sono ancora tutte rivolte all’interno del nucleo cittadino.

In realtà questa ipotesi era già stata anticipata nel giugno 2008 dall’Assessorato all’Urbanistica del Comune di Torino: “Corso Marche si pone come nuovo baricentro dell’area metropolitana assunta pienamente come ambito territoriale di riferimento per ogni attività pianificatoria”[11].

Questo si affermava, salvo, poi, riproporre ancora una visione del PRG ristretta al limite dei confini amministrativi della Città con un modello di crescita urbanistica ancora una volta – e sempre – appiattito sul prototipo delle spine urbane: aree di trasformazione per la totale appropriazione privata delle valorizzazioni pubbliche, aree dense connotate da un modello formale estraneo alla storia della Città e al contesto urbano torinese.

Modello di crescita urbanistica (il rito savoiardo) imperniato su due ingredienti:

  1. sul versante delle politiche urbane: il “fuori scala” appiattito sul prototipo delle spine urbane: aree di trasformazione per la totale appropriazione privata delle valorizzazioni pubbliche, aree dense connotate da un modello formale estraneo alla storia della Città e al contesto urbano torinese
  2. sul versante del blocco sociale di riferimento: un’alleanza con una parte di quel ceto autoreferenziale ben individuato dalla ricerca “Classe dirigente ed élites di governo a Torino. Origini, risorse, reti di radicamento” della Fondazione CRT e del dipartimento di Studi politici dell’Università di Torino[12].

 

8. Ancora sul rito savoiardo dell’urbanistica: la Spina 3 e la Variante 200

Quanto, poi, fosse vera la natura eminentemente edilizia del documento dell’Assessorato all’Urbanistica del Comune di Torino del 2008, in perfetta continuità con la politica urbanistica torinese dell’ultimo quindicennio, viene disvelato anche con la Variante n. 200 al PRG di Torino.

Nelle pagine di “Piemonte Economia” de La Repubblica[13], infatti, a proposito di quanto auspicato da questo infausto documento e da quanto previsto dalla variante n. 200, si afferma entusiasticamente: “I progetti legati alla variante 200 presentati a Cannes al più importante salone internazionale dell’immobiliare. Oggi la città è cresciuta molto nella percezione degli operatori: la si vede come un’opportunità di investimento”.

Certamente è un fatto che la percezione da parte degli investitori immobiliari, in questi ultimi 20 anni, è stata alta. La percezione, viceversa, dei cittadini (che con l’investimento dei loro tributi creano, non del tutto consapevoli, il presupposto economico per la valorizzazione immobiliare) è stata assai limitata in termini di quantità e qualità di servizi offerti e di qualità urbana: significativo è il caso della cosiddetta “Spina 3”: 12.000 abitanti insediati (una città come Avigliana) e nemmeno una nuova scuola prevista.

 

9. Torino invisibile

Nel loro illuminante libro “Torino Invisibile[14] Lucco e Radicioni spiegano come il Piano Regolatore Generale (PRG) di Torino elaborato da Gregotti e Cagnardi sia il punto di approdo e il prodotto di una cultura divenuta egemone nel campo economico, culturale e sociale, in grado, quindi, di governare i processi di trasformazione urbana per un certo tempo.

Tutto ciò, però, regge fin tanto che sommovimenti culturali profondi non concorrano a formulare orientamenti in grado di soppiantare quelli precedenti, per produrre altri programmi di governo urbano, caratterizzati in primo luogo “da una stabilità culturale di medio/lungo periodo”.

 

10. Torino visibile

Il gruppo torinese di lavoro dell’Unione Culturale Franco Antonicelli[15] ha individuato proprio nel PRG di Torino ed in corso Marche due dei temi prioritari per apportare un contributo critico al dibattito in corso sul futuro di Torino, a partire dalla constatazione che la grande trasformazione urbana ed architettonica di Torino, sullo sfondo della crisi della città-fabbrica, è stata impostata principalmente sulla valorizzazione delle rendite urbane, con “aree industriali trasformate in quartieri privi di qualità”.

Il disvelamento dei reali caratteri dell’operazione “corso Marche” consiste, da parte dell’urbanistica dialogante, in[16]:

  1. rivelare il reale impatto di questo progetto sul territorio, anche con riferimento al tema delle infrastrutture di trasporto; si tratta della proposta del cosiddetto “wafer”: al livello suolo un corso automobilistico con striminzite aiuole rettilinee con alberi e arbusti, più sotto il tracciato autostradale nord/sud quale corda sottesa alla tangenziale di Torino, più sotto ancora, a 20 metri sotto terra, l’alta velocità ferroviaria;
  2. denunciarne il pervicace ruolo centripeto su Torino Centro a dispetto dei proclami metropolitani
  3. esplicitare la sua continuità con il programma urbanistico (meglio sarebbe dire “edilizio”) del PRG degli anni ’90: il PRG delle cosiddette Spine.

 

11. Una lettura alternativa

Radicioni e Lucco, nel ricostruire la genesi di Corso Marche nato quale asse di riequilibrio dell’area metropolitana torinese incardinato entro il sistema del “grande verde” da nord a sud (Parco della Mandria e Venaria Reale, Parco Agrario Rivoli/Rivalta, Parco del Gerbido di Grugliasco, Parco e Reggia di Stupinigi) e da est a ovest (Parco della Collina e del Po e Parchi della Dora e del Sangone), disvelandone poi, come detto, il ruolo – assegnatogli dal progetto Cagnardi – di luogo dell’appropriazione delle valorizzazioni pubbliche, tuttavia, non si sottraggono al tentativo (titanico) di produrre anche un’ipotesi diversa e di sottoporla a soggetti culturali, associazioni e politici.

Tartaglia, dal suo punto di osservazione, rivela la “illogicità” alla base delle previsioni infrastrutturali (si parla, oggi, di una ferrovia ad Alta Capacità a 80 metri sottoterra: cioè un’infrastruttura che non sarà mai realizzata, ma che servirà, proprio perché irrealizzabile, a “velocizzare” la fattibilità dell’autostrada sotto il viale edilizio di corso Marche) insieme con il perenne carattere gigantesco e fuori scala delle opere pubbliche connesse.

Questa attività improba di disvelamento va nella direzione di costruire un pensiero divergente, per il perseguimento di un nuovo equilibrio culturale stabile, generatore di una nuova stagione urbanistica ed amministrativa.

 

12. Città delle relazioni, della conoscenza e della laboriosa produzione

In questa direzione, per Torino, non si è ancora compiuta la sfida che, nel 1991, nel pieno dipanarsi del dibattito culturale e politico sul nuovo PRG, allora in corso di approvazione, e affidato allo studio Gregotti/Cagnardi, il sociologo Arnaldo Bagnasco lanciava agli architetti e urbanisti della città[17].

Bagnasco, parafrasando una delle più interessanti “Lezioni Americane” di Italo Calvino[18], aveva individuato che per andare oltre la città dell’industria – in crisi – gli architetti e gli urbanisti, innanzitutto, avrebbero dovuto provvedere, mettendo in tensione le ragioni di Mercurio (la città delle relazioni e della conoscenza) e quelle di Vulcano (la città della laboriosa produzione), a creare le condizioni per “… fare crescere una cultura dell’interazione e della comunicazione in una nuova città industriale … “.

Occorre, in tale direzione, cominciare subito a orientare per progetti e per programmi (auspicabilmente e prioritariamente tanti e diffusi) il futuro della Città (intesa come luogo della società). Per riorientare positivamente tale politica occorre lavorare per produrre altri programmi di governo urbano ad una scala democraticamente più controllabile: dal punto di vista delle quantità fisiche e dal punto di vista delle quantità economiche.

Programmi di governo urbano caratterizzati, in primo luogo, da una stabilità culturale di medio/lungo periodo: l’occasione di ripensare su un arco decennale le proprie politiche, comprese le alleanze ed il nuovo patto sociale e generazionale, è unica.

Il futuro prefigurato dal modello dell’urbanistica di rito savoiardo per Torino è costituito esclusivamente da spazi da riempire, da intasare con sistematica pervicacia.

Un modello che si è nutrito del mito della crescita inarrestabile, in cui ogni progetto, connotato spesso da un modello formale estraneo alla storia della Città e del contesto urbano torinese, è “fuori scala” ai limiti dell’incommensurabile: sottratto, cioè, al controllo democratico della quantità e affidato all’alea della “scommessa” e dell’azzardo, i cui immensi, incommensurabili appunto, costi sono sostenuti sulle spalle inconsapevoli dei posteri.

Uscire dal modello imperante, potrebbe voler dire, invece, lavorare per:

– progetti contro la vulnerabilità sociale presente e potenziale (diritto alla sicurezza, alla casa ed al lavoro);

– programmi di inclusione sociale e politica dei cittadini immigrati (diritto alla casa e diritto al lavoro), per governare il cambio generazionale ed etnico in atto;

– l’ascolto della Città dolente;

– la rivisitazione delle politiche urbane almeno alla scala metropolitana (la Città di Torino dove finisce?), dando priorità tra tutte a quelle della casa sociale (a basso costo, a basso impatto, integrata nei servizi), promuovendo piani e programmi costruttivi che diano “fiato” e orizzonte pluriennale alle imprese.

Vuol dire, dal punto di vista delle politiche urbane, affrontare i temi fisici dell’ambiente costruito ad una scala governabile:

  • scala fisica integrata con quella storica della nostra città: questo bene collettivo prezioso che, insieme ad altri, sta alla base del nuovo interesse turistico per Torino
  • programmi sociali e progetti di opere materiali non “pochi e grandi”, ma “tanti e medi o medio piccoli” diffusi sul territorio ed aperti alla partecipazione attiva.

 

Occorre che la politica e l’urbanistica ritornino ad occuparsi di sobria e buona amministrazione.

Amministrazione del bene comune, intesa non come sommatoria del “peso” sociale di ciascuno (1+1+1 fa 3, ma anche 2+1+0 fa 3) ma come moltiplicazione (per cui 1x1x1 fa 1, ma 2x1x0 fa 0), onde non permettere di lasciare indietro nessuna componente, ma promuovendo a nuova dignità tutti gli “zero”, consapevoli che, altrimenti, è il bene comune ad annichilirsi.

 

11

Il Capitol: uno dei “fuori scala” del progetto edilizio di Corso Marche di Cagnardi: un’astronave erettile volgarmente irridente il paesaggio torinese[19]

[1] Urbanista membro effettivo dell’Istituto Nazionale di Urbanistica

[2] Direttore Caritas Diocesana Pierluigi Dovis “Non c’è futuro senza solidarietà” Torino, maggio 2010.

[3] La stessa motivazione relativa al calo dei consumi è certamente di natura economica, ma ormai, per il 50%, tale calo è riferibile alla sensazione diffusa di vulnerabilità (o insicurezza che dir si voglia)

[4] Lo studio di Cagnardi, effettuato per conto della Provincia di Torino, è stato pubblicato in estratto in Monografia de “Il Giornale dell’Architettura n. 72, Aprile 2009” dei suoi contenuti si è discusso presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli di Torino, nell’ambito di un ciclo di 4 conferenze conclusosi il 27/4/2010.

[5] Oreste Pivetta “Gli immobiliaristi di rito ambrosiano” L’Unità 28/10/2007 pag. 16

[6] Emanuela Minucci “Milano studi il modello Torino” LA STAMPA 6/4/2007 Cronaca di Torino pag. 61.

[7] L’asse autostradale/ferroviario/viabilistico nord/sud del Corso Marche, cioè, e le aree a cavallo dello stesso.

[8] Urbanista torinese. E’ stato, tra l’altro, Assessore all’Urbanistica del Comune di Torino dal 1975 al 1985.

[9] Architetto ed Urbanista del Collettivo di Architettura di Torino.

[10] Docente presso la Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino. Fisico ed Ingegnere.

[11] Assessorato all’Urbanistica della Città di Torino “Indirizzi di politica urbanistica” Giugno 2008 pag. 13.

[12] Sugli esiti della ricerca si veda S. Belligni e S. Ravazzi “La politica e la città.” Il Mulino, 2012.

[13] La Repubblica del 23/3/2010 vedere in “Piemonte Economia” l’articolo di Pier Paolo Luciano “La Torino che cambia volto in mostra al Mipim”.

[14] P. Lucco Borlera e R. Radicioni “Torino Invisibile” Alinea Editore, 2009.

[15] Il gruppo di lavoro che ha preparato il ciclo di 4 incontri “Città, Territorio e Cittadini” ha visto la presenza di urbanisti, docenti del Politecnico di Torino, ricercatori dell’IRES Piemonte, sociologi, politologi, rappresentanti di Associazioni Ambientaliste, con il coordinamento di Manfredo Montagnana, matematico, Presidente dell’Unione Culturale.

[16] Si veda C. Malacrino “Il progetto di Corso Marche. Dalla Città al marketing urbano” in http://www.eddyburg.it/article/articleview/15073/0/127/.

[17] Arnaldo Bagnasco “Serendipity a Torino” in “Architettura e Urbanistica a Torino 1945/1990” a cura di Luigi MAZZA e Carlo OLMO, U. Allemandi, Torino, 1991

[18] Si tratta di “Rapidità”. In questa “lezione” Calvino individua in Vulcano la divinità del lavoro che, al chiuso del suo antro forgia utensili ed armi, ed in Mercurio la divinità della comunicazione, in perenne movimento tra gli dei e gli uomini.

[19] L’immagine è di Augusto Cagnardi pubblicata in Monografia de “Il Giornale dell’Architettura”, n. 72, Aprile 2009.