Circoli virtuosi e inclusione politica nel capitalismo democratico. A proposito di “Perché le nazioni falliscono?”

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di Silvano Belligni

 

1. Tra i libri che negli ultimi anni hanno conosciuto un successo globale e che ambiscono a proporsi come strumenti esplicativi irrinunciabili dello stato del mondo attuale, si segnala il volume Why Nations Fail (2012), scritto a quattro mani dall’economista del Mit Daron Acemoglu e dal politologo di Harvard James Robinson (adesso disponibile in traduzione italiana: Perché le nazioni falliscono, Il Saggiatore, 2013). Benché il saggio abbia raccolto una messe imponente di recensioni e abbia collezionato apprezzamenti lusinghieri (ma anche non poche critiche) da molti degli esponenti più accreditati dell’establishment economico e politologico internazionale, vale la pena di tornarci su allo scopo di mettere in evidenza alcuni punti controversi e alcune questioni salienti che interpellano indirettamente la situazione a noi più prossima e le prospettive che si presentano alla politica e all’economia contemporanea. Ciò nella convinzione che tutti – studiosi e politici – possano trarre giovamento dalla conoscenza di una teoria sulle condizioni e sulle modalità dello sviluppo, solo in apparenza astratta, particolarmente in un momento di grande incertezza e disorientamento come quello che viviamo.

La tesi dei due studiosi, esposta con nettezza nelle prime pagine del libro e poi ossessivamente ribadita, è che all’origine del fallimento o del successo delle nazioni vi sono le loro istituzioni. Le odierne disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di sicurezza e di qualità della vita, in sintesi di “prosperità”, che dividono drammaticamente le economie politiche avanzate (grossomodo i paesi dell’area Ue, Usa, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Taiwan, Singapore, Corea del Sud) dai paesi economicamente più arretrati, in via di sviluppo, o senz’altro poveri o poverissimi, sono da attribuirsi alla diversità delle strutture istituzionali che “storicamente” li caratterizzano.

Per istituzioni A&R intendono tutte quelle regole formali, create e applicate dallo stato per indurre gli individui, le organizzazioni, le imprese e i governanti di un paese ad adottare certi comportamenti e ad evitarne altri. Dipende dalla qualità e dalla interazione di questi incentivi istituzionali se le risorse e le capacità umane presenti in un dato ambiente si trasformano in forze positive o negative per il suo sviluppo. Ed è dalla differenza tra le istituzioni dei vari paesi che origina quella “geografia della disuguaglianza” che il libro si propone di documentare in un arco temporale che dalla rivoluzione neolitica giunge sino ai nostri giorni e in uno spazio geografico che abbraccia l’intera umanità. Quella che il lettore ha di fronte, in sostanza, è una macronarrazione che ambisce a svelare le leggi universali dello sviluppo economico, a rivelare le determinanti ultime della ricchezza delle nazioni.

Le fondamenta analitiche che sostengono l’architettura del testo sono date dall’incrocio di due dicotomie: quella tra istituzioni economiche e istituzioni politiche (che, a nostro avviso colpevolmente, trascura le istituzioni culturali); e quella – meno convenzionale (ma non del tutto inedita) – tra istituzioni “estrattive” e istituzioni “inclusive”. Proprio estrazione e inclusione sono i “meccanismi principali” che, a giudizio degli autori, spiegano le traiettorie differenziali della crescita e buona parte della varianza delle economie politiche contemporanee. L’attuale, drammatico divario tra Nogales Sonora e Nogales Arizona citato nel testo mette emblematicamente in luce quanto la prevalenza dell’uno o dell’altro meccanismo possa condizionare lo sviluppo economico e civile anche di territori geograficamente contigui.

I regimi istituzionali estrattivi, economici e politici, sono il caso di gran lunga più frequente, – potremmo dire di default – nella storia del mondo. In essi i governanti – si tratti di ristrette coalizioni di élites predatorie o di dittature individuali – agiscono unicamente o principalmente in vista del loro vantaggio personale o di gruppo, adottando politiche rivolte all’appropriazione del surplus collettivo. Per perseguire i loro obiettivi di arricchimento e di sfruttamento dei sudditi, le élites estrattive si oppongono deliberatamente alla competizione e all’innovazione al fine di mantenere inalterati i rapporti di potere e i privilegi sedimentati che lo sviluppo, suscitando energie nuove e crescenti domande di cittadinanza e di redistribuzione, tenderebbe inevitabilmente a mettere in discussione. Perché una pratica di espropriazione possa funzionare durevolmente, infatti, si deve impedire alla maggioranza della popolazione ogni accesso alle decisioni collettive e alla partecipazione al sistema politico. Le conseguenze tipiche delle politiche e delle economie estrattive, e della “legge ferrea delle oligarchie” che le governa, sono perciò di deprimere gli spiriti vitali presenti nella società provocando, dove più dove meno, nell’immediato o nel lungo andare, l’arretratezza e la povertà dei paesi in cui esercitano il loro dominio. Le élites estrattive, insomma, si arricchiscono impoverendo la società. Gli esempi portati a sostegno da A&R sono innumerevoli e spaziano dall’antichità ai giorni nostri: dalla Roma imperiale ai dispotismi asiatici, dagli imperi amerindiani e coloniali del passato alla odierna Corea del Nord, dalle dittature africane al socialismo reale, dall’America schiavista ai sistemi populisti e ai regimi militari latino-americani. Da questa messe di evidenze empiriche trae alimento, secondo i due autori, la legge bronzea che governa l’evoluzione delle economie politiche: “la ragione più comune per cui oggi le nazioni falliscono è che hanno istituzioni estrattive” (380).

A quelle “cattive istituzioni” che sono le istituzioni estrattive si contrappongono le “buone istituzioni” che sono le istituzioni inclusive, economiche e politiche, che hanno cominciato a diffondersi nella modernità a partire dall’Occidente fino alle recenti ondate democratiche.

In campo economico sono inclusive le regole istituzionali che incentivano gli scambi e l’innovazione, motivando gli individui – emancipati dalla schiavitù coloniale e da servitù involontarie – a sviluppare la propria creatività e intraprendenza, a investire nei propri talenti, a rischiare in proprio per arricchirsi, a sperimentare e adottare nuove tecnologie, nuovi skills e più efficienti modalità organizzative. Presupposto fondamentale dell’inclusione economica è che i diritti di proprietà vengano adeguatamente protetti, i contratti fatti rispettare, le opportunità di investimento assicurate e i guadagni ottenuti salvaguardati dalle espropriazioni e dai saccheggi. Creando occasioni e protezione per tutti, i meccanismi istituzionali inclusivi promuovono uno sforzo collettivo i cui benefici si estendono dagli individui alle nazioni e le fanno fiorire.

Ad istituzioni economiche inclusive corrispondono istituzioni politiche anch’esse inclusive: “inclusive” qui significa “pluraliste”, dove cioè il potere di decidere è esercitato non da ristrette élites o da una sola persona, ma è diffuso tra gruppi e coalizioni estese di cittadini che possono controllare e rimuovere dalle cariche i governanti sgraditi. Esse “danno potere a una fetta ampia e trasversale di società” (469).

Tuttavia, per promuovere e mantenere lo sviluppo non basta che l’assetto delle istituzioni politiche sia aperto e pluralista; la politica deve anche essere forte e sufficientemente centralizzata. Come scrivono gli autori: “Definiremo inclusivi i sistemi istituzionali sufficientemente centralizzati e al contempo pluralisti. Quando una di queste due condizioni viene meno, parleremo invece di sistemi istituzionali estrattivi” (92). Di per sé, infatti, la crescita economica non garantisce miglioramenti paretiani, ma produce political winners e political losers, e perciò genera opposizioni da parte di coloro che temono di perdere il loro status o i loro privilegi. Perciò, senza un livello sufficiente di accentramento del potere statale – il weberiano monopolio della forza – in grado di scongiurare il caos assicurando legalità e ordine, l’economia non decolla o non funziona, i diritti di proprietà e la libertà di intraprendere non possono mantenersi stabilmente. Tuttavia, sebbene un certo tasso di accentramento politico sia una condizione necessaria del successo economico, non è però una condizione sufficiente. E’ vero che, in talune circostanze, regimi assolutisti fortemente accentrati sono stati in grado di sostenere cicli di crescita economica intensa e prolungata (gli esempi sono quelli dell’Unione Sovietica dei piani quinquennali e, soprattutto, della Cina dell’ultimo trentennio). Ma si tratta sempre, a giudizio degli autori, di uno sviluppo compresso e intrinsecamente instabile, vuoi per la mancanza di innovazione e di dinamismo che tipicamente lo caratterizza, vuoi per i conflitti che un potere accentrato e autoritario inevitabilmente alimenta negli esclusi, masse popolari o élites concorrenti. In ultima analisi, senza “buone istituzioni” politiche, inclusive e centralizzate, crescita e benessere permanente e diffuso non possono essere garantiti sul lungo periodo.

Nella traiettoria che conduce alla prosperità, inclusione economica e inclusione politica si implicano e si rafforzano reciprocamente tendendo ad instaurare “circoli virtuosi”. Come scrivono gli autori, “esiste una grande sinergia tra istituzioni politiche ed economiche…le istituzioni economiche di tipo inclusivo non rappresentano la condizione adatta a sostenere un regime politico estrattivo e viceversa” (92 e 94). Quando sono inclusive, le istituzioni politiche “generano una forza che contrasta l’allontanamento dai mercati inclusivi. E’ l’azione del circolo virtuoso. Le istituzioni economicamente inclusive generano il terreno fertile su cui possono fiorire istituzioni politiche inclusive, mentre le istituzioni politiche inclusive limitano le deviazioni da istituzioni economiche inclusive” (141). Quando invece sono estrattive e assolutiste, le istituzioni politiche inibiscono le propensioni ad intraprendere e ad innovare: è l’azione del circolo vizioso. Sistemi politici estrattivi generano e rafforzano economie anch’esse estrattive, alimentando spirali degenerative attraverso processi di retroazione positiva. In via ordinaria, insomma, sia i dispositivi inclusivi che quelli predatori, di carattere economico o politico, procedono non solo sinergicamente, ma secondo logiche simbiotiche. Invece, la combinazione di assetti istituzionali inclusivi ed estrattivi non solo è rara ma, come detto, quando pure si stabilisce, è “tendenzialmente precaria”, incapace di autosostenersi durevolmente (94).

A questo proposito va rimarcato che, nel rapporto tra potere e prosperità, la variabile indipendente è quella politica. Sono le istituzioni politiche a determinare, almeno inizialmente, la natura e le performance delle istituzioni economiche. Come scrivono A&R, “è … il processo politico a definire dall’interno di quali istituzioni economiche si svolge la vita dei cittadini, e sono le istituzioni politiche a stabilire come funziona questo processo” (52). Dunque, per quanto il rapporto tra regole economiche e regole politiche sia, nel loro funzionamento a regime, organico, quasi una sorta di meccanismo unico, le prime sono sempre plasmate e riplasmate dall’azione politica dei governi. E’ pertanto nella politica che va ricercato il primum mobile dello sviluppo, la “causa” ultima della ricchezza o della povertà delle nazioni. I paesi sono sviluppati o arretrati in ragione delle scelte compiute da chi detiene il potere. E’ per impulso delle istituzioni politiche, e in relazione al potere detenuto dalle coalizioni di interessi che le controllano, che l’economia può essere modellata in modo tale da assumere quei connotati virtuosi di apertura e di dinamismo che preludono al successo e alla crescita, sottraendosi al controllo oligarchico di circoli ristretti di predatori. Nel corso della storia, è stata l’Inghilterra del XVII secolo, proprio a seguito della sua rivoluzione politica, la prima società “interamente inclusiva”: in seguito, la rivoluzione industriale ne ha costituito il sottoprodotto economico conseguente. Lo sviluppo economico – e i mercati aperti che lo rendono possibile – è dunque, in questa chiave, una costruzione politica. Ne discende che, per comprendere l’ordine economico, occorre, in primo luogo “capire come vengono prese le decisioni, da chi e sulla base di quali fattori. Questo significa studiare la politica e i processi politici” (79).

 

2. Con queste premesse, la parte più interessante e attuale del saggio, ma anche la più controvertibile è, a nostro avviso, quella che affronta la vexata quaestio del cambiamento istituzionale, “il modo in cui la storia ha orientato le traiettorie istituzionali delle nazioni” (440). Da dove vengono e come evolvono le buone istituzioni? Come si passa dal dominio di istituzioni estrattive a quello di istituzioni inclusive? Come mai certi modelli istituzionali sono emersi e si sono consolidati in taluni paesi e non in altri?

I cambiamenti istituzionali, nel quadro delineato dagli autori, “sono spesso l’esito di un acuto conflitto tra l’élite avversa alla crescita economica e al cambiamento politico e coloro che desiderano limitare il suo potere economico e politico” (141). Attraverso il conflitto il dinamismo dell’agency può avere la meglio sulla inerzia della struttura. Il mondo libero e sviluppato dei nostri giorni è figlio di rivoluzioni politiche vittoriose: il prototipo, o la matrice, di ogni modello istituzionale inclusivo è la “gloriosa rivoluzione” inglese del 1688, seguita a distanza di un secolo dalle rivoluzioni americana e francese. Sono pochi i sommovimenti epocali che sono riusciti a spezzare per forza propria il circolo vizioso del sottosviluppo economico e della predazione politica, interrompendo la path dependence, promuovendo inversioni di tendenza nel corso storico e aprendo traiettorie di prosperità permanenti e espansive. Questo perché l’esito del conflitto politico non è mai deterministicamente precostituito, bensì sempre contingente: in molti casi, i movimenti rivoluzionari non sono riusciti – quando pure l’hanno tentato – a promuovere e a mantenere strutture istituzionali pluralistiche e a ridistribuire equamente ricchezza e potere alla società. La Rivoluzione d’Ottobre e quella messicana d’inizio Novecento, quella cinese del dopoguerra, per non parlare delle numerose rivoluzioni africane seguite al processo di decolonizzazione, sono altrettanti esempi di cambiamento istituzionale che riproduce, e in molti casi amplifica, i precedenti rapporti di dominio estrattivo e la connessa stagnazione economica.

Nell’analizzare le condizioni e i fattori del cambiamento istituzionale l’interpretazione di A&R si avvale di ulteriori strumenti analitici che sviluppano e arricchiscono il modello di base, pur ponendo ulteriori dilemmi teorici. A questo proposito, tre concetti complementari essenziali sono quelli di “congiuntura critica”, di “piccole differenze iniziali” e di “distruzione creatrice”, alla cui modulazione vengono attribuiti il successo o l’insuccesso della transizione da un regime istituzionale all’altro.

“I grandi cambiamenti istituzionali che sono il requisito dei grandi cambiamenti economici, scrivono A&R, sono l’esito della interazione fra istituzioni esistenti e congiunture critiche” (442). Con “congiuntura critica” si intende l’insorgere inatteso di eventi e processi di tipo non incrementale, in grado di sfidare gli equilibri costituiti e di segnare un punto di svolta imprevedibile che interrompe drammaticamente la continuità storica. Il risultato di questi momenti, distruttivi e formativi ad un tempo, può essere sia un institutional drift che apre la strada a innovazioni profonde, sia la restaurazione del vecchio ordine politico-economico. Nel primo caso si apre un processo di “distruzione creatrice”, ossia una fase di cambiamento tecnologico, accompagnata perlopiù da una intensa mobilitazione sociale e professionale, che segna la transizione da un assetto economico ad un altro; nel corso di questa parentesi il vecchio viene distrutto o emarginato e si aprono nuovi sentieri evolutivi e prospettive di sviluppo inedite. Ciò avviene perché la distruzione creatrice, scompaginando l’ordine economico precedente e generando conflitti istituzionali, promuove nuovi vincitori nella economia e nello stato, indebolendo politicamente classi, ceti e categorie legate all’antico regime e promuovendone di nuovi. Esempi di congiunture critiche epocali sono la peste nera del Trecento, le scoperte geografiche e l’apertura di nuove rotte commerciali nel Cinquecento, la Glorious Revolution che alla fine del Seicento apre la strada alla Rivoluzione industriale; ma può trattarsi anche di eventi più puntuali come la morte di un leader carismatico (Mao Zedong).

Senza distruzione creatrice un cambiamento istituzionale progressivo non si instaura durevolmente: anche se duramente sfidato, il vecchio regime politico e economico finisce per riprendere il sopravvento. La forza del passato riassorbe la crisi e le istituzioni sono ricondotte sotto la logica escludente del vecchio ordine istituzionale predatorio, comunque rinominato. La rivoluzione sovietica, quella messicana, il maoismo cinese sono altrettanti esempi negativi sulla strada del cambiamento economico e del progresso politico. Giacché non vi è nulla di predeterminato nell’esito, progressivo o regressivo, di una congiuntura critica. Se è vero che le nazioni possono cambiare la loro traiettoria economica cambiando le proprie istituzioni, è altrettanto vero che è difficile se non impossibile programmare la prosperità uscendo da un regime estrattivo. Alla base del successo o del fallimento, vi sono sempre fattori casuali e contingenti come le scelte idiosincratiche degli attori, la loro abilità nell’imporsi e nel formare ampie coalizioni; ma il fattore che decide la sorte e la natura del cambiamento va cercato spesso in piccole differenze iniziali, “lievi discrepanze nell’architettura istituzionale” pregressa – come per esempio il diverso rapporto tra nobiltà e corona in Inghilterra, Francia e Spagna – che, interagendo con le congiunture critiche, si amplificano nel corso del tempo dando luogo a divergenze istituzionali significative e a esiti economici divaricati (187).

 

  1. A dispetto della sua smisurata ambizione, il libro di A&R è bello e stimolante e merita di essere letto e meditato. Ma inevitabilmente si presta, per il suo carattere ecumenico e per il livello di astrazione a cui si pone, a diversi tipi di obiezioni. Più che aggiungersi al coro delle critiche o dei consensi di quanti sono intervenuti su di esso con rilievi di carattere storico e metodologico, qui è forse il caso di focalizzarsi sul nostro tempo chiedendosi fino a che punto il modello inclusione-estrazione e la “legge” della sinergia istituzionale siano in grado di dar conto, non solo del successo di paesi governati da autocrazie o da “democrazie ibride”, ma anche dell’attuale involuzione economico-sociale di molti sistemi democratici e dei dilemmi che oggi questi hanno di fronte.

È sempre più evidente, infatti, che le tendenze negative alla stasi o al declino – spesso nascoste dietro l’apparenza di una “falsa prosperità” (Stiglitz) – non sono una prerogativa dei regimi politici estrattivi, ma tendono ad allungare la loro ombra sul mondo democratico sviluppato, dove l’ideale del circolo virtuoso dell’inclusione sembrava aver trovato, se non la sua incarnazione paradigmatica e definitiva, quantomeno una soddisfacente e stabile approssimazione. Qui, invece, dopo i primi trent’anni del dopoguerra, in cui una forte crescita economica è andata di concerto con una “distribuzione più equa delle risorse”, la parabola dello sviluppo ha assunto una inclinazione discendente e sempre più socialmente squilibrata, fino agli anni recenti di crisi conclamata. Rallentamento del Pil, sottoconsumo, alto indebitamento pubblico e privato, calo della produttività, deflazione dei prezzi, stagnazione dei redditi medio-bassi, diffondersi di nuove povertà, disoccupazione di massa e cronica precarietà del lavoro, approfondirsi delle disuguaglianze di classe sono altrettanti aspetti di una sindrome etichettata ora come “grande recessione”, ora addirittura come “stagnazione secolare” di cui non si intravvede la fine. Come si accordano gli attuali risultati, a dir poco deludenti, del capitalismo democratico e il futuro incerto che prefigurano con la teoria di A&R?

Le risposte – ricodificate nella terminologia proposta nel libro – puntano inevitabilmente il dito sul fallimento della “grande sinergia” e sull’interruzione del circolo virtuoso dell’inclusione (che, secondo i nostri autori, non è “né inevitabile né irreversibile”) posto dalla loro teoria a fondamento dello sviluppo. Di questa mancata consonanza è responsabile, secondo alcuni, il peculiare modello di democrazia sociale instauratosi in Occidente a partire dal secondo dopoguerra; altri ritengono invece che la causa dell’attuale impasse del capitalismo democratico vada ricercata proprio nella decadenza di quel modello democratico, nella sua metamorfosi (neo)-liberale, formalistica ed elitaria e nella sua crescente dipendenza dall’economia.

Da sempre – ma con crescente incisività a partire dagli anni settanta – i politici e gli intellettuali conservatori hanno enfatizzato gli “eccessi” della democrazia di massa e la sua conseguente incapacità di mantenere l’ordine e “incrementare i mercati”. Ingovernabilità, corporativismo e populismo sono, in questa chiave, gli effetti perversi di una ipertrofia democratica che oppone ostacoli insormontabili a quella promozione di mercati liberi ed efficienti che è la condizione basilare della crescita e della prosperità.

Su questa linea interpretativa, la diagnosi di “crisi di governabilità delle democrazie”, formulata alla metà degli anni settanta dagli intellettuali della Trilateral Commission, mette l’accento sul deficit di centralizzazione delle democrazie mature, dichiarate incapaci di contenere l’eccesso di rivendicazioni redistributive provenienti da una società bulimica e sovramobilitata. In un siffatto scenario, l’espansione dell’intervento del governo e il contestuale ridimensionamento della sua autorità a seguito dell’ondata partecipativa degli anni sessanta e dell’impegno popolare crescente su valori egualitari, sono visti come la causa di un grave “squilibrio democratico, dove è “la forza della democrazia” a porre problemi alla sua stessa governabilità. Le condizioni per un riequilibrio richiedono un deciso contenimento della politicizzazione rivendicativa della società e la riduzione dell’ambito e dell’intensità di esercizio dei diritti di partecipazione.

Da posizioni differenti ma complementari, altri critici mettono soprattutto l’accento sulla deriva iperpluralistica della democrazia, e la sua propensione a favorire “coalizioni distributive”, portatrici di interessi particolaristici, a scapito degli interessi di gruppi onnicomprensivi meno organizzati. Come scrive Mancur Olson: “E’ l’ampiezza e il carattere dell’azione collettiva esistenti in una data società ad avere… una più stretta relazione con le variazioni dei risultati economici” (43). Le pressioni degli interessi speciali sul governo, e le rendite politiche che questi lucrano saccheggiando il bilancio statale, impediscono allo stato democratico di produrre i beni pubblici necessari alla fioritura dei mercati, minando in tal modo il fondamento della prosperità. Dal lato dell’offerta democratica, il cerchio si chiude con il prevalere ai vertici dello stato di élites egoistiche e irresponsabili, che alimentano il proprio potere con politiche costose ma ben protette, favorendo gruppi che hanno un incentivo alla redistribuzione piuttosto che alla produzione del reddito. Tradotto nelle categorie di A&E, tutto ciò equivale a sostenere che, entro la cornice delle democrazie stabilizzate, alle logiche istituzionali inclusive sono andate progressivamente sostituendosi logiche “estrattive” che hanno innescato un “circolo vizioso graduale” avverso alla crescita e al benessere della maggioranza dei cittadini.

Come è noto, l’idea che la dissonanza tra istituzioni di mercato e istituzioni pubbliche sia da attribuirsi alla torsione corporativa e distributiva subita da queste ultime incontra, a partire dagli anni ottanta un crescente consenso. Questa narrazione egemonica concorre ad alimentare, in America e in Europa, il ciclo politico-ideologico neo-liberale che si apre con le vittorie di Thatcher e Reagan e prosegue con le politiche dei governi di centro-destra e di centro-sinistra fino ai nostri giorni, con l’intento proclamato (altra cosa sono le politiche effettivamente realizzate) di ricomporre la frattura nel segno del libero mercato.

Dal versante progressista latamente inteso, si tende invece a mettere in relazione l’involuzione economica e la degenerazione classista del capitalismo con la mutazione istituzionale della democrazia intervenuta a partire dagli anni settanta. Anche in questo caso si denuncia una perdita progressiva di inclusività della democrazia, ma si tratta di una diagnosi che ha caratteristiche e conseguenze opposte a quelle segnalate dai conservatori. Con tutti i suoi limiti, il modello di capitalismo democratico instauratosi negli anni del dopoguerra ha rappresentato la miglior approssimazione al circolo virtuoso dell’inclusione e della prosperità mai realizzatasi nella storia. Malgrado tensioni e conflitti, e al netto delle differenze tra i paesi, il modello democratico prevalente nei primi decenni del dopoguerra, imperniato sull’equilibrio dialettico tra elezioni, partiti di massa, organizzazioni padronali e sindacati, si è dimostrato capace di imporre al capitalismo un certo grado di regolamentazione e una maggiore eguaglianza sociale, imbrigliandone almeno in parte le intrinseche propensioni anarchiche e predatorie ma consentendogli in pari tempo di realizzare tassi di crescita mai raggiunti. La “congiuntura critica” degli anni settanta, e il processo di “distruzione creatrice” che ne è seguito, segnano un punto di svolta radicale in questa evoluzione. Il declino del fordismo e la conseguente riconversione industriale, destrutturando il vecchio ordine di classe, indeboliscono socialmente e politicamente lo schieramento progressista ridefinendo i rapporti di forza su cui si imperniava il compromesso istituzionale tra democrazia e capitalismo. La disgregazione del postwar settlement democratico dà inizio a una nuova fase in cui la politica economica viene progressivamente immunizzata dalle pressioni popolari. Il modello democratico progressista, ispirato alla giustizia sociale e basato sull’inclusione e sull’empowerment dei cittadini organizzati, ne esce radicalmente indebolito nelle sue capacità di condizionamento e di controllo del mercato. Le organizzazioni della “lotta di classe democratica” che ne avevano costituito il nerbo – partiti e sindacati di massa – subiscono un processo di delegittimazione, di declino organizzativo e di svuotamento etico-politico che culmina nel riallineamento dei loro gruppi dirigenti sull’opposto fronte ideologico. Nel processo di sostituzione surrettizia del capitalismo democratico col capitalismo liberale, democrazia e mercato si ricompongono in un meccanismo unico che opera in base logiche estrattive e predatorie, dove sono le istituzioni economiche che rimodellano le istituzioni politiche secondo gli interessi immediati di ristrette cerchie di possidenti e di speculatori, appoggiandosi al potere delle élites in carica o promuovendone di nuove (336).

 

  1. In definitiva, la tesi che la fortuna economica delle nazioni sia (in buona parte?) il sottoprodotto della qualità delle loro istituzioni è suggestiva e accattivante, ma difficile da testare per il suo eccessivo livello di astrazione. Lo si vede, in specifico, nella storia del capitalismo democratico postbellico, in cui i concetti di inclusione, circolo virtuoso, grande sinergia ecc. sembrano in gran parte girare a vuoto. Quando un sistema di istituzioni democratiche può dirsi propriamente inclusivo, tenuto conto che, come avvertono i nostri autori, democrazia “non equivale a istituzioni inclusive”? Quando – come pretendono i conservatori – la democrazia rinuncia a qualsiasi controllo sull’economia e rifugge dalle pressioni redistributive, partiti e sindacati sono allineati e gli elettori non incidono sulle politiche; oppure quando – come vorrebbero i progressisti – esso fa leva sull’azione collettiva per condizionare e orientare l’economia e far prevalere la giustizia sociale sulla giustizia del mercato (tenuto conto che “se lasciati indisturbati i mercati possono smettere di essere inclusivi, subendo sempre più il dominio degli attori economicamente e politicamente potenti”)? Il concetto di inclusione, in altre parole, appare sotto-teorizzato, esposto a interpretazioni e ad accentuazioni antitetiche; da cui non si evince con sufficiente chiarezza se la democrazia che serve al progresso economico e al benessere collettivo sia la democrazia liberale o quella sociale e quali siano i dispositivi istituzionali concreti che meglio la promuovono.