Libertà sindacale e solitudine del lavoratore

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di Alessandra Algostino

 

C’erano una volta sindacati che agivano nel conflitto sociale nella prospettiva, per dirlo con Mortati, di conferire «ai lavoratori un’efficienza capace di contrapporre efficacemente la loro forza a quella che deriva dal possesso dei beni»; così come, per inciso, esistevano partiti in grado di veicolare istanze e bisogni dalla società alle istituzioni, strutturando in forma collettiva rivendicazioni e progetti. Ora, al partito personale e liquido, appiattito sulle istituzioni, si accompagna il sindacato aziendale e morbido, strutturalmente inserito nella logica dell’impresa.

Il conflitto è negato, assorbito, sedato, ridotto al silenzio: sindacati e “padroni” «assumono la prevenzione del conflitto come un reciproco impegno su cui il sistema partecipativo si fonda» (sic l’Accordo di Mirafiori del 23 dicembre 2010). E nel conflitto fantasma i lavoratori sono sempre più soli, frammentati e deboli, di fronte ad un potere sempre più pervasivo ed arrogante.

La contrattazione collettiva nazionale scompare sostituita da una contrattazione aziendale dotata del potere di derogare anche alla legge, quando non tout court da una contrattazione individuale.

La ratio riequilibratice che consente, attraverso la mediazione di sindacati, di organizzare la forza del numero contro quella del possesso dei mezzi di produzione è cancellata dalla fictio di contraenti in condizioni di parità e accomunati dal medesimo obiettivo. Libertà contrattuale e lavoro autonomo occultano condizioni sempre più servili del lavoro dipendente; dietro la libertà della partita Iva si nasconde la solitudine del lavoratore.

I sindacati vengono sussunti nel governo delle relazioni industriali, previa opportuna frammentazione a livello aziendale e esclusione dei sindacati più riottosi ad accettare il ruolo di negazione/assorbimento del conflitto. I sindacati divengono aziendalizzati, non solo nel senso che sono sempre più strutturati a livello di azienda, ma anche nel senso che sono sempre più parte della logica aziendale, nel nome della competitività. Ad esserne colpito è il ruolo dell’organizzazione sindacale, la sua autonomia e il pluralismo sindacale, costituzionalmente garantiti e promossi dall’art. 39 della Costituzione.

 

La recente vicenda del Testo unico sulla rappresentanza siglato il 10 gennaio 2014 fra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil ben si inserisce in questo quadro rappresentando un tassello della liquidazione dei sindacati dal loro ruolo di mediatori nel conflitto sociale, lasciando il lavoratore sempre più solo nel “libero” gioco del mercato.

Il Testo unico sulla rappresentanza non è, a sua volta, che l’ultimo atto di un trittico, ideale e normativo, di cui fanno parte anche l’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e il Protocollo di Intesa del 31 maggio 2013, non a caso più volte richiamati nel primo.

È un trittico – come detto – parte di un processo più ampio. Da un lato, si assiste alla  medievalizzazione e privatizzazione delle relazioni industriali, sempre più improntate ai canoni del un biopotere aziendale esercitato sul singolo individuo, mentre il diritto del lavoro e i diritti dei lavoratori sono de-strutturati, resi sempre più flessibili e sostituiti dall’imperitura legge del più forte.

Dall’altro lato, la crisi della mediazione sindacale collettiva è parte di un processo più ampio di individualizzazione del rapporto politico, che è evidente allorquando con facile vulgata populista si accomunano nella stigmatizzazione i partiti, quale forma di espressione politica collettiva (e, quindi, per estensione, la politica tout court) e i sindacati .

Venendo all’accordo, si possono segnalare, in specie, due meta profili critici, che feriscono il ruolo del sindacato e segnano, fra l’altro, una netta distanza rispetto alla sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013.

La prima questione riguarda il pluralismo e la libertà sindacale – la loro negazione-, in particolare nel rapporto maggioranza versus minoranze, che veicola poi il secondo profilo, che si può sintetizzare come anestetizzazione del dissenso e negazione del conflitto.

 

Il Testo unico, come recita il titolo, riguarda la rappresentanza, dunque, si propone di intervenire sul tema controverso dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori.

Ricostruendo, se pur in estrema sintesi, la storia della rappresentanza sindacale e del dibattito intorno all’art. 19 dello Statuto, si può rilevare come la rappresentatività sia declinata secondo una duplice fattispecie.

Da un lato, vi è la constatazione di un fatto, l’emersione di alcune confederazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale, alle quali si riconosce una sorta di presunzione di rappresentatività, necessaria e sufficiente a costituire il titolo di accesso ai diritti specifici delle rappresentanze sindacali aziendali. Non è una categoria chiusa ma è chiaro il riferimento a CGIL, CISL e UIL, le tre confederazioni sindacali storicamente dominanti. Dall’altro lato, la rappresentatività è dedotta dalla capacità del sindacato di apporre la propria firma in calce ad un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva.

Nel primo caso, la tutela privilegiata favorisce i sindacati di maggioranza, con connessa discriminazione delle minoranze, e la conservazione di una dinamica delle relazioni industriali legata, ex parte sindacale, alle scelte di quella che, significativamente, è soprannominata la Trimurti. Nel secondo caso, specie con la possibilità che i contratti siano stipulati a livello di azienda, si palesa il rischio della formazione di sindacati gialli, ovvero di comodo, creati o controllati dal datore di lavoro.

L’art. 19, come è noto, nel 1995 è sottoposto a referendum: la questione è l’esclusione, o potenziale esclusione, di alcuni sindacati dalla possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali e, di conseguenza, accedere alle specifiche tutele previste dal titolo III dello Statuto, con la formazione di due status differenti: sindacati protetti unicamente dalla libertà sindacale e sindacati garantiti ex titolo III.

L’esito del referendum comporta che la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali sia legata alle associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva.

Ciò rende possibile una interpretazione “in eccesso”, che veicola la legittimazione di sindacati privi di una reale rappresentatività, se non tout court di comodo. La disciplina di risulta del referendum del 1995 produce, come è noto, però anche l’effetto di abrogare la presunzione di rappresentatività dei sindacati maggiormente rappresentativi, con la possibilità di interpretare il requisito della firma “in difetto”, ovvero come legittimazione ad escludere dalla costituzione di rappresentanze sindacali aziendali anche sindacati ampiamente rappresentativi (se non maggioritari) ma contrari alla sottoscrizione del contratto.

Questo secondo effetto non crea peraltro problemi sino ad oggi, quando, con il mutare delle relazioni industriali, la prassi degli accordi separati e la spregiudicatezza del Gruppo Fiat, si verifica l’esclusione della Fiom, con l’innescarsi di una dura controversia Fiom-Fiat, che vede alfine l’intervento della Corte costituzionale.

 

Torniamo però ora, chiarito il quadro, al Testo unico sulla rappresentanza e, in particolare, alla prima questione: la negazione del pluralismo e della libertà sindacale e la dittatura della maggioranza.

Innanzitutto si può rilevare un riferimento continuo, finanche ossessivo, alle organizzazioni sindacali firmatarie dei tre accordi interconfederali sulla rappresentanza o a quelle che comunque vi abbiano effettuato adesione formale. Ciò avviene, ad esempio, in relazione alla costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie, per la presentazione delle liste o quando si ragiona di requisiti per la contrattazione collettiva.

Si introduce una netta distinzione fra le sigle firmatarie, o comunque, convergenti nella maggioranza e nel sistema dei tre accordi sulla rappresentanza, e chi sta fuori, destinato ad un progressivo ostracismo.

Emblematica è la parte relativa alla titolarità per la contrattazione collettiva e al riconoscimento delle tutele del titolo III dello Statuto. Nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale vengono riconosciute come «partecipanti alla negoziazione» le organizzazioni sindacali che, oltre ad aver raggiunto il 5% di rappresentanza, «hanno contribuito alla definizione della piattaforma» (quale piattaforma? quella di maggioranza?) e «hanno fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del c..c.n.l.» (di nuovo, in relazione alla piattaforma di maggioranza?). In sintesi: i partecipanti al negoziato sono solo quelli convergenti nella piattaforma di maggioranza? Si escludono (violando la sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013) le minoranze, ma non solo, ad essere estromesso può essere anche il sindacato più rappresentativo. Si pensi al caso in cui la Fiom, che possiede molto spesso ben più del 5% di rappresentanza, non sottoscriva il c.c.n.l. siglato dagli altri sindacati che, in alleanza, raggiungono la maggioranza: può venir considerata non partecipante e perdere tutte le tutele riconosciute alle rappresentanze sindacali aziendali. Facile ragionare di conventio ad excludendum.

Si configura una dittatura della maggioranza, dove contratti sottoscritti con il «50% + 1 della rappresentanza», previa una fantomatica «consultazione certificata» (un voto?), a maggioranza semplice, sono «efficaci ed esigibili» per tutti i lavoratori. Si introduce così fra l’altro una sorta di efficacia erga omnes, che prescinde non solo dal meccanismo di registrazione dei sindacati previsto dall’art. 39 Cost. ma anche da qualsivoglia passaggio legislativo. Un patto fra privati che si autoriconosce l’efficacia erga omnes? La privatizzazione del diritto sotto nuove vesti.

Quanto alla contrattazione aziendale, si ribadisce innanzitutto l’ampia possibilità di deroga del contratto aziendale (che, ex art. 8, c. 2 bis, l. 148 del 2011, riguarda anche la legge), con la conseguente parcellizzazione e liquefazione del diritto del lavoro, e dei lavoratori. Anche a livello aziendale si assiste, inoltre, ad un chiaro favore per la maggioranza: in presenza di contratti approvati dalle RSA costituite nell’ambito delle associazioni sindacali destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali, è previsto il voto solo se richiesto da una delle confederazioni firmatarie o da «almeno il 30% dei lavoratori dell’impresa» (ovvero, non una minoranza).

Si stabilizza e blinda il ruolo egemone nelle relazioni industriali, ex parte lavoratore, della Trimurti.

È così evidente la violazione arrecata al principio di pluralismo sindacale da indurre a ragionare di negazione della libertà sindacale, in palese contrasto con la sentenza – fresca di adozione – della Corte costituzionale n. 231 del 2013, che della necessità del rispetto della libertà sindacale nelle relazioni industriali à la Marchionne fa il cardine del proprio intervento.

Ora, senza eccedere nella fiducia nel ruolo salvifico delle Corti, pare difficile prescindere da una sentenza che riporta la voce della Costituzione nel conflitto sociale.

La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, c. 1, lett. b), Statuto, «nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda».

La Corte si riferisce ad un dato effettivo – la partecipazione alle trattative quale indice di rappresentatività e forza contrattuale – per evitare che una disciplina tesa a garantire maggiore inclusività si trasformi in un meccanismo di esclusione, vanificando l’intento promozionale dello Statuto e la tutela costituzionale della libertà sindacale.

L’obiettivo è individuare un criterio di rappresentatività nella garanzia del rispetto (sostanziale) dell’autonomia e della libertà sindacale: la partecipazione alle trattative viene giudicata congrua ad integrare tale obiettivo e, dunque, “accreditata” come norma selettiva della rappresentanza privilegiata del titolo III dello Statuto.

La volontà di tutelare la libertà sindacale permea profondamente la pronuncia, sino a spingere il giudice costituzionale a considerare anche l’ipotesi che, introdotto il riferimento alla partecipazione alle trattative per impedire un uso surrettizio della firma in chiave escludente, l’estromissione possa perpetrarsi «a monte», impedendo ad un sindacato l’accesso alle trattative. In tale ipotesi – il giudice anticipa – interviene la tutela dell’art. 28 dello Statuto, che sanziona la condotta antisindacale del datore di lavoro.

Una mancanza tuttavia si può cogliere nel percorso della Consulta: cosa succede nell’ipotesi di sindacati che non vogliono partecipare alla trattativa? Se sono estromessi ex parte padrone soccorre l’art. 28 dello Statuto, ma se scelgono per ragioni di politica sindacale di non sedersi – a quelle condizioni, in quel contesto, con quella controparte – al tavolo delle trattative? È razionale la loro esclusione dalla costituzione di rappresentanze sindacali aziendali e dalle prerogative del titolo III dello Statuto? Se si discorre di sindacati rappresentativi, o anche maggiormente rappresentativi – senza dunque nemmeno revocare in dubbio il doppio binario istituito dal legislatore statutario e la sua scelta “maggioritaria” -, non si viola la ratio del titolo III? Rimane discriminato quel dissenso che, a fronte di tavoli negoziali sbilanciati, rifiuta ab origine un procedimento che nasconde, attraverso un uso fittizio delle trattative, l’imposizione di scelte unilaterali.

Questo, anche se – e stupisce positivamente – il giudice costituzionale ragiona di «forma impropria di sanzione del dissenso», che condiziona la libertà del sindacato, riportando l’idea del conflitto e della Costituzione nelle relazioni industriali e rompendo la cortina della retorica dell’obiettivo comune fra lavoratore e datore di lavoro, che appiattisce il sindacato sulla logica imprenditoriale, con buona pace del suo ruolo di organizzazione collettiva dei lavoratori e di negoziatore nel loro interesse.

 

Le osservazioni sul dissenso ci portano al secondo profilo critico, per usare un termine blando, del Testo unico: l’anestetizzazione del dissenso e la negazione del conflitto.

In primo luogo si può citare il riferimento alle “consultazioni”, che molto spesso costituiscono una mistificazione della democrazia – che è partecipazione, non consultazione -, ovvero integrano un’operazione di marketing che consente sia di presentare un volto democratico sia di creare l’illusione di “aver partecipato”, così da evitare o limitare il sorgere di future opposizioni. Le consultazioni, fra l’altro – si noti – presuppongono un rapporto diretto fra i lavoratori e i datori di lavoro, senza “bisogno” della mediazione sindacale.

La parte, tuttavia, che più colpisce per la spregiudicatezza e arroganza è la Parte quarta, che contiene le “Disposizioni relative alle clausole e alle procedure di raffreddamento e alle clausole sulle conseguenze dell’inadempimento”.

L’obiettivo è «definire disposizioni volte a prevenire e a sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali come disciplinati dagli accordi interconfederali vigenti nonché l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi stipulati nel rispetto dei principi e delle procedure contenute nelle intese citate», quindi, «i contratti collettivi nazionali di categoria… dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti con il contratto collettivo nazionale di categoria e a prevenire il conflitto [n.d.r.: sic!]».

Dunque, il conflitto o eventuali opposizioni non devono esistere né durante le negoziazioni né successivamente alla stipula del contratto: non solo dittatura della maggioranza ma negazione di ogni agibilità politica al dissenso.

E si continua: «i medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro dovranno, altresì, determinare le conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità dei contratti collettivi nazionali di categoria stipulati ai sensi della presente intesa». Le sanzioni possono prevedere anche «effetti pecuniari», ovvero comportare «la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa». Non solo negazione di agibilità politica ma vera e propria repressione del dissenso.

Unica “concessione”: le clausole di tregua sindacale e sanzionatorie non hanno effetto vincolante «per i singoli lavoratori». Non ci si spinge sino ad ignorare che la Costituzione garantisce il diritto di sciopero, oltre che la libertà di manifestazione del pensiero, di riunione, etc., ma lo si svuota, privandolo della forza collettiva dell’organizzazione sindacale, riducendolo a debole diritto individuale. Si esautora quella forza del numero che nel disegno costituzionale riequilibra il possesso dei mezzi di produzione e si ragiona nei termini di una mera prospettiva astratta e formale di stampo liberale.

La chiusura del cerchio si ha poi con la previsione, nelle “Clausole transitorie e finali” , di una procedura arbitrale (oggi molto in voga negli accordi di libero scambio internazionali) per i casi di inadempimento, prima affidata ad un «collegio di conciliazione ed arbitrato», che valuta «eventuali comportamenti non conformi agli accordi», e, quindi, ad una «Commissione Interconfederale permanente». Al di là della palese mancanza delle caratteristiche di indipendenza e imparzialità proprie del giudice, colpisce l’attribuzione alla Commissione del potere di dotarsi di proprie regole, non solo sul suo funzionamento ma anche sui propri poteri di intervento.

I sette componenti sono non meglio identificati «esperti in materia di diritto del lavoro e di relazioni industriali» nominati «pariteticamente» da Confindustria e dalle tre confederazioni sindacali più rappresentative, a parte il Presidente scelto da «una apposita lista definita di comune accordo». È abbandonata la logica costituzionale dell’eguaglianza sostanziale: la parità in presenza di diseguali condizioni non può che riprodurre la disuguaglianza, con buona pace di ogni progetto di emancipazione sociale.

Il sindacato è sussunto nella logica aziendale, il lavoratore è solo col suo diritto di sciopero individuale, il conflitto non esiste, per il dissenso ci sono i “tribunali speciali”.