Crediamo ancora nell’istruzione pubblica? Uno studio di caso in Piemonte.

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di Roberto Albano, Marianna Filandri, Tania Parisi 

 

1. Introduzione

Il dibattito degli ultimi anni sui problemi che affliggono il sistema di istruzione in Italia ha spesso focalizzato l’attenzione sugli insegnanti: sulla loro formazione iniziale e i criteri di selezione, sul contratto di lavoro, orari e retribuzioni in particolare, sulla valutazione delle loro attività e altri temi importanti. I problemi della scuola sono però più ampi e strutturali, non riguardano solo il ri-disegno della figura professionale dell’insegnante.

In un programma di ricerche sugli sviluppi dell’economia della conoscenza in Piemonte, realizzato tra il 2009 e il 2014 da un nutrito gruppo di sociologi dell’ex Dipartimento di Scienze Sociali di Torino, poi confluito nell’attuale Dipartimento di Culture, Politica e Società[1], un particolare spazio è stato dedicato alla scuola superiore di II grado: evidentemente uno dei principali sistemi attivi nel campo nella produzione di conoscenza, anche se da tempo percorso da tensioni interne e con l’esterno.

Nelle pagine che seguono sintetizziamo alcuni dei principali risultati delle ricerche empiriche di due équipe, a cui chi scrive ha partecipato[2], che facevano parte del programma più ampio; una ricerca, sui cui si basano i paragrafi 2, 3, 4 (scritti da Filandri e Parisi), è stata svolta tra il 2011 e il 2013[3]; l’altra, sui cui si basano i paragrafi 5, 6, 7, 8, 9 (scritti da Albano) è stata svolta tra il 2010 e il 2011[4]. La sintesi contenuta nelle conclusioni è da attribuire a tutti tre gli autori.

 

2. Orientamento nella scelta della scuola secondaria di II grado

Le diseguaglianze per classe sociale di provenienza delle performance degli studenti (educational achievement), così come sono accertate attraverso la survey PISA o simili, sono relativamente più contenute in Italia che in altri paesi europei. Risultiamo relativamente più iniqui se invece guardiamo al conseguimento dei titoli di studio (educational attainment)[5], sebbene le differenze di classe si siano anche sul nostro territorio progressivamente attenuate nel corso del Novecento[6].  Nonostante che le opportunità di accesso all’istruzione siano ormai formalmente indipendenti da fattori ascritti quali il genere e l’origine sociale, negli strati sociali economicamente meno privilegiati si continua a escludere di più i licei scientifico e classico. La separazione istituzionale tra i percorsi propedeutici alla formazione terziaria e quelli il cui sbocco principale è il mondo del lavoro rappresenta quindi ancora un rischio per chi, provenendo da classi meno agiate, aspira a studi superiori e a occupazioni a maggior contenuto di conoscenze e competenze professionali e con maggiori possibilità di carriera. L’origine sociale interviene due volte nell’influenzare i destini di istruzione degli individui: a monte, condizionando le scelte di percorso, e in progress, ad esempio influenzando il rendimento. Il sistema scolastico italiano è rilevante nella strutturazione delle diseguaglianze sociali già al termine della scuola media inferiore, quando si attua la scelta di frequentare un istituto tecnico o professionale al termine dell’obbligo scolastico, cosa che fanno in maggioranza i figli delle classi basse e medio basse, o un liceo tradizionale, come capita più facilmente per i figli delle classi più agiate.

Gli studenti piemontesi che abbiamo intervistato nel 2011 a un passo dal diploma non fanno eccezione. Coerentemente con le attese, la maggioranza dei figli della classe superiore si è iscritta ai licei mentre istituti tecnici e professionali hanno raccolto la maggioranza dei figli della classe operaia. Nel mezzo della piramide sociale, adottano comportamenti simili alla classe superiore i figli della classe media impiegatizia mentre i figli di commercianti e artigiani sono più simili a quelli della classe operaia. Prevedibilmente, la scelta della scuola superiore avviene anche sulla base del rendimento mostrato alla scuola media inferiore. Anche nel nostro caso, i “più bravi” sono confluiti in maggioranza nei licei, soprattutto classico e scientifico, mentre gli altri hanno optato in misura maggiore per i percorsi tecnici e professionali o altri licei.

Le forti associazioni sia tra classe sociale e riuscita scolastica sia classe sociale e scelta dell’istituto, è un segno della doppia influenza che la famiglia di origine è in grado di esercitare sui destini scolastici dei figli. Vi sono infatti rilevanti differenze per classe sociale nella probabilità di iscriversi ai quattro tipi di scuola superiore a seconda del voto ottenuto all’esame di terza media. Quando il rendimento è basso, i figli delle classi economicamente più svantaggiate hanno maggiori probabilità di iscriversi agli istituti professionali e tecnici e minori di orientarsi verso i licei, soprattutto quelli scientifico e classico.

 

3. Conferma o pentimento della scelta della scuola

Dal rapporto AlmaDiploma 2013, che indaga la condizione occupazionale e formativa dei diplomati di scuola secondaria superiore[7], emerge un dato sconfortante: dopo un anno dal diploma il 40% degli intervistati si dichiara “pentito della scelta”.  Ciò potrebbe essere dovuto alla precocità della scelta della scuola superiore, fatta attorno ai 13/14 anni, anche se in questa scelta intervengono gli adulti, almeno in teoria più lungimiranti. Gli studenti al termine della scuola media possono fare riferimento, per maturare la propria scelta, oltre che alla famiglia, agli insegnanti stessi della scuola dell’obbligo, a eventi di orientamento organizzati da scuole ed enti locali, oltre che, ovviamente, al gruppo dei pari. Ci siamo chiesti perciò in che misura i diversi canali di influenza nella scelta della scuola superiore siano statisticamente legati alla soddisfazione della scelta fatta, rilevata con la domanda “Se potessi tornare indietro ti reiscriveresti allo stesso percorso?”. Un’ipotesi era che le scelte effettuate sulla scia del gruppo dei pari potessero aumentare il rischio di pentimento rispetto a quelle guidate da orientatori e insegnanti. L’analisi dei dati della nostra ricerca ha mostrato che la soddisfazione per il percorso di studi compiuto non è associata a un particolare canale di influenza: chi ha seguito il consiglio dei genitori o dei referenti scolastici dell’orientamento, non è mediamente più soddisfatto di chi ha maturato la scelta entro il gruppo dei pari. I più soddisfatti sembrano invece quelli che potremmo definire più “saggi”: ossia, che non si sono affidati in modo esclusivo a una sola fonte di suggerimento, ma le hanno ascoltate tutte e poi hanno maturato autonomamente una propria decisione.

Gruppi di riferimento a parte, tra i criteri di scelta possono entrare la distanza dalla scuola, la comodità di mezzi di trasporto, il contesto territoriale, l’iscrizione di amici e ex-compagni ecc. A dispetto dell’immagine mass-mediatica di una generazione inconsapevole e un po’ superficiale, i più soddisfatti del percorso intrapreso sono quelli che si sono fatti guidare prevalentemente dall’interesse per le materie insegnate o in vista di un lavoro futuro.

Ovviamente, a comporre la soddisfazione per la scelta intrapresa conta, anche, come alla fine lo studente ha vissuto gli anni nella scuola che ha frequentato, da punto di vista organizzativo e certamente anche rispetto alla professionalità e competenza degli insegnanti che ha trovato. E, in effetti, un bilancio positivo della scuola e dei professori diminuisce la probabilità di essere pentiti della scelta fatta a 14 anni.

 

4. Il rendimento del diploma in termini occupazionali

Nonostante le notevoli difficoltà attuali – i dati, pessimi, sull’occupazione giovanile sono sufficientemente noti per non doverci qui soffermare – alcuni diplomati, riescono ancora a trovare un lavoro in tempi ragionevoli.  Sebbene si sappia che l’istruzione terziaria attira gran parte degli studenti con maggior rendimento nella scuola superiore, è ragionevole pensare che questo conti anche nel trovare un lavoro. Tuttavia i nostri dati mostrano che il voto al diploma è sensibilmente inferiore tra quanti lavorano e basta rispetto agli studenti universitari a tempo pieno.

È lecito quindi porsi almeno tre domande, per valutare (sempre statisticamente si intende) il rendimento in termini lavorativi di un diploma:

–    che lavoro vanno a fare i diplomati: trovano occupazioni di qualità, o incappano nelle trappole dei lavori “poveri” (per reddito e significato)?

–    che cosa utilizzano sul lavoro di quanto hanno appreso a scuola?

–    quale canale hanno usato per trovare lavoro o, il che equivale a chiedersi, che cosa sostituisce le garanzie offerte da un buon rendimento alla scuola superiore come credenziale occupazionale?

Guardando alle occupazioni dei giovani intervistati nel 2013, vediamo che la stragrande maggioranza – 4 su 5 – è impegnata temporaneamente in mini-job, occasionali o stagionali, che non richiedono specifiche conoscenze e competenze (tolte quelle relazionali). In questa categoria si trovano le occupazioni di baby-sitter, cameriere, animatore, hostess, promotore nei supermercati, addetto ai fast-food, allenatore e istruttore nelle palestre, figurante nelle produzioni cinematografiche. I restanti giovani sono impegnati in lavori più definiti in qualità di operai, qualificati e non, impiegati, educatori, programmatori informatici, disegnatori tecnici. Questo dato è in linea con la ridottissima percentuale di persone con contratto a tempo indeterminato, e anche con la bassa percentuale di giovani che dichiarano di usare “in maniera elevata” le competenze apprese a scuola (19,5%). Quest’ultimo dato è in linea con quanto rilevato a livello nazionale da AlmaDiploma; desta comunque preoccupazione, sia perché i “lavoratori” che nel nostro campione dichiarano di ricorrere alle competenze scolastiche “in maniera ridotta” (44%) superano di parecchio gli intervistati da AlmaDiploma, sia perché i nostri studenti vivono in una regione in cui non mancano importanti esperienze di connessione istituzionalizzate tra scuola e lavoro.

Infine, il canale attraverso il quale i giovani delle 4 province piemontesi hanno trovato il lavoro conferma la persistente rilevanza delle reti familiari e amicali, nota caratteristica del mercato del lavoro italiano, sebbene vada anche rilevato come segnale positivo che quasi un giovane su tre dichiara di aver trovato lavoro tramite l’invio del curriculum.

 

5. Rappresentazione generale della scuola e fiducia

Tra gli adulti intervistati, genitori di studenti o già diplomati, si registra un declino della fiducia nell’attuale scuola superiore rispetto al passato. Questa dovrebbe preparare soprattutto, secondo gli intervistati, al mondo del lavoro e all’università e dovrebbe formare dei buoni cittadini; secondari per gli adulti, e così pure per i giovani intervistati, risultano invece i compiti di far apprezzare l’arte e il gusto estetico, o preparare i giovani a condurre una vita in buona salute. Tutti questi obiettivi, comunque, non sono percepiti come realizzati, se non in minima parte. Il voto medio dato alla scuola dal campione di giovani è poco più di 6. Il voto medio dato dai genitori è 5½ alla scuola di oggi, 7+ a quella di ieri.

Seppur in calo rispetto al passato, la fiducia resta comunque elevata: 7 giovani su 10 hanno abbastanza o molta fiducia in essa; assegnano maggiore fiducia agli insegnanti e al personale non docente (oltre che naturalmente ai compagni), meno ai Dirigenti Scolastici ma soprattutto agli organi collegiali.

Un’insoddisfazione diffusa, tra gli adulti come tra i giovani, riguarda poi il livello di informazione su alcune questioni importanti che riguardano la governance della scuola e la sua organizzazione. Si potrebbe pensare che di ciò siano responsabili i mass media principalmente, diffusori di immagini perlopiù di una scuola in difficoltà, se non allo sfascio. Tuttavia, se diamo ascolto agli intervistati, i quali complessivamente dichiarano che delle vicende della scuola si interessano poco e per lo più mediante l’esperienza personale loro o dei loro figli, c’è da inferire una carenza di comunicazione (o perlomeno di sua efficacia) e di coinvolgimento da parte delle scuole.

Tra i testimoni privilegiati si è rilevato invece che il sistema di istruzione piemontese è considerato valido: ha una buona impostazione metodologica che forma alle conoscenze di base, alle capacità relazionali, anche se richiede ancora una razionalizzazione e uno svecchiamento degli indirizzi, dei diplomi e dei certificati rilasciati, ma soprattutto di un più efficace coordinamento tra scuole per i progetti culturali che arricchiscono i POF oltre l’offerta istituzionale. È assolutamente necessario un rinnovamento dei programmi; un punto particolarmente debole concerne poi l’orientamento, sia in entrata sia in uscita. Un’altra debolezza sottolineata è la insufficienza di “passerelle” da un percorso all’altro, pur con i passi in avanti fatti negli ultimi anni; questa incide molto sulla dispersione, soprattutto nel primo biennio delle superiori, e sull’insoddisfazione della scelta fatta a 14 anni (e perlopiù non modificata per questa rigidità).

 

6. Gli insegnanti

La gran maggioranza degli insegnanti è considerata dai giovani intervistati capaci di trattare in modo equo gli studenti; è loro abbastanza riconosciuta anche la competenza e l’aggiornamento nelle materie insegnate; la capacità di suscitare interesse e di motivare gli studenti è invece il punto debole degli insegnanti secondo il punto di vista degli allievi. Gli adulti intervistati pensano invece che in termini di aggiornamento e competenza fossero decisamente migliori gli insegnanti di ieri, mentre la valutazione comparativa si capovolge quando si consideri la capacità di dialogo con gli studenti.

Dalle interviste qualitative agli stakeholder emerge una valutazione di massima positiva: vi sono molti insegnanti validi, motivati e disponibili all’aggiornamento, apprezzati dagli studenti. C’è stata indubbiamente negli ultimi 15-20 anni una perdita di prestigio e di autorevolezza della figura dell’insegnante, dovuta a numerose concause, in parte le stesse che stanno alla base della crisi di fiducia nelle istituzioni. Tra le diverse ragioni di declino dell’autorevolezza, viene fatto osservare che troppi insegnanti mostrano una scarsa dimestichezza con i nuovi media e le ICT e questo fa sì che non possano essere da guida a un uso consapevole delle tecnologie da parte degli studenti. Aggiungiamo noi che l’autorevolezza è anche una questione di coerenza tra ciò che si afferma e ciò che si fa: dalla survey sugli adulti emerge che gli insegnanti di oggi sono percepiti come meno coerenti dei loro colleghi di un tempo.

 

7. Rapporti della scuola con il mondo del lavoro e l’Università

Una critica largamente diffusa riguarda il fatto che la scuola superiore formi poco i giovani per il mondo del lavoro o per l’Università. Non è solo un fatto di “contenuti” formativi: essa sembra aprire pochi canali sul territorio con le organizzazioni di lavoro (stage, visite aziendali, incontri con professionisti, testimonianze aziendali ecc.). Caratteristica tipicamente italiana, da cui il Piemonte si differenzia poco, come già abbiamo ricordato, è il forte ricorso a reti sociali informali come principale canale per trovare lavoro, fatto che provoca asimmetrie informative e distorsioni nella formazione e circolazione del capitale umano. La scuola, suggeriscono i testimoni privilegiati, potrebbe intervenire su tali distorsioni in almeno in due modi.

Prima di tutto, essa dovrebbe essere, molto più di quanto è attualmente, un canale attraverso cui i giovani possano ampliare il loro capitale sociale, ad esempio attraverso i tirocini formativi e gli stage di qualità. In secondo luogo, la scuola dovrebbe essere l’istituzione attraverso la quale rimettere al centro del processo di selezione le competenze possedute dai giovani, piuttosto che solo le “conoscenze giuste”.

Da parte degli stakeholder c’è un giudizio positivo sulla formazione tecnica. Occorre incentivare, ragazzi e ragazze, indipendentemente dalla classe sociale di origine, a una maggior frequenza di percorsi tecnici, compreso il liceo per le scienze applicate, e aumentare l’offerta di ITS. Occorre poi anche potenziare ovunque gli apprendimenti sulle nuove tecnologie digitali e lo studio di una lingua straniera con istruttori madrelingua nelle scuole e finanziamento di soggiorni all’estero.

8. Problemi quotidiani nella scuola

Secondo i giovani intervistati, la demotivazione di molti studenti scaturisce dall’arretratezza e inadeguatezza degli ambienti e delle strumentazioni, soprattutto per quanto concerne le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Una carenza, quest’ultima, evidenziata anche dai testimoni privilegiati: proprio sulla mancanza di strumentazioni adeguate si giocherebbe secondo molti di loro la sfida futura per la legittimazione del sistema di istruzione.

Per i genitori invece, problemi più urgenti e gravi sono il bullismo e la demotivazione degli studenti. E sono molti i problemi ignorati anche secondo i testimoni privilegiati: quello della disabilità ad esempio, con ancora troppi ostacoli all’accesso e alla mobilità interna agli edifici, o la carenza di sostegno adeguato e continuativo; vi è poi il problema della carenza di corsi serali per gli studenti-lavoratori, o quello dei figli di migranti che parlano ancora male l’italiano e che non trovano sufficienti laboratori linguistici e servizi di mediazione culturali); o ancora, il problema di chi presenta fragilità psico-sociali e che non trova adeguati supporti psicologici a scuola o collaborazioni tra mondo dell’istruzione e servizi sociali.

9. Scuola come riproduttore di capitale sociale

Il capitale sociale è fiducia negli altri e nelle istituzioni, è propensione alla vita associativa, nelle sue diverse manifestazioni. Se si riproduce è anche grazie alla scuola che ne è allo stesso tempo beneficiaria. La scuola, pur con i suoi problemi, è vista ancora come cerniera tra le famiglie e la comunità, il territorio, le istituzioni. Complessivamente i nostri dati confermano l’idea, diffusa tra chi conosce il mondo della scuola, che la fiducia che i cittadini nutrono nei confronti delle istituzioni fonda in parte, nel bene e nel male, le proprie radici nelle esperienze scolastiche. Un’esperienza positiva con la scuola favorisce l’ampliamento degli orizzonti in chi l’ha frequentata, l’apertura e la fiducia verso gli altri, stimola la curiosità intellettuale e il senso di responsabilità personale; al contrario, un’esperienza scolastica mal riuscita può lasciare sentimenti di frustrazione e di ingiustizia durevoli nella vita delle persone. Il declino di fiducia ricevuta che caratterizza le gran parte delle istituzioni, a partire da quelle della politica e dai mass media, è costante negli ultimi decenni. Se per la maggior parte delle istituzioni non vi è ancora un livello di sfiducia totale – pensiamo quindi alle amministrazioni locali, quelle che difendono la legalità e tutelano la sicurezza, quelle del mondo del lavoro – lo si deve probabilmente alla scuola, la prima istituzione con cui tutti siamo (stati) chiamati a prendere confidenza per un periodo di tempo significativo.

Una carenza che la scuola dovrebbe invece colmare, secondo alcuni nostri testimoni privilegiati, concerne il rapporto con il mondo dell’associazionismo volontario: incentivare di più gli studenti a frequentare il volontariato e le associazioni, soprattutto quelle orientate alla produzione di beni pubblici e di solidarietà, farebbe bene anche alla scuola stessa, che otterrebbe da quel mondo un appoggio consistente nella ricerca di legittimazione, importante soprattutto per quei giovani che provengono dalle tante famiglie che hanno scarsa fiducia nella scuola e che quindi non possono esse stese insegnare ai figli ad averne. Un modo, tra gli altri, per ricostruire l’incrinata “alleanza tra famiglie e scuole”.

 

10. Conclusioni

Una delle preoccupazioni maggiori di un paese democratico dovrebbe essere quella di mantenere saldo il legame tra cittadini e istituzioni. Come numerose indagini nazionali e internazionali hanno messo in luce, il distacco dei primi, soprattutto di quelli più giovani, è crescente. La crisi delle principali istituzioni è sotto gli occhi di tutti; non solo più quelle strettamente politiche, ma molte altre istituzioni, statali e non, sono oggetto di una progressiva erosione della loro autorevolezza e legittimità. Anche il sistema educativo e formativo non sfugge a questa tendenza, seppur in modo più contenuto rispetto ad altre istituzioni. Nel discorso pubblico si registra diffusamente una crisi di autorità e di autorevolezza degli insegnanti e degli istituti scolastici, una lenta e crescente sfiducia nella capacità del sistema scolastico e di formazione professionale di adempiere efficacemente agli obiettivi che dichiara, così come un lento e crescente scetticismo sul fatto che gli obiettivi dichiarati siano ancora di competenza, oggi, di un sistema scolastico-formativo pubblico.

In questo quadro si è collocata la ricerca di cui abbiamo dato brevemente conto in queste righe. Ci si è proposti di raccogliere dati empirici su come, in un definito ambito territoriale, delimitato ma rilevante per lo sviluppo della società italiana, si creino dinamiche – alcune virtuose altre negative – tra opinione pubblica, sistema dell’istruzione e sviluppo economico. La focalizzazione è andata sui processi e sulle forme di legittimazione della scuola secondaria di secondo grado. Si è cercato di mostrare quali dei principi su cui l’istituzione cerca legittimità e consenso trovano credenze, rappresentazioni, atteggiamenti, valori e preferenze congruenti nella popolazione piemontese più direttamente coinvolta: i giovani diplomandi o da poco diplomati, le loro famiglie, il personale interno e gli stakeholders istituzionali esterni alla scuola.

Il tema della legittimazione (pretesa e accordata) si articola su tre livelli di analisi. A livello micro, ben rappresentato dalla situazione d’aula, vi è ancora una certa dote di fiducia negli insegnanti e nei pari. Dote che diminuisce passando a livello dell’istituto (meso) e ancora più a livello sistemico (macro), soprattutto negli attori che sono responsabili della governance del sistema di istruzione e dei suoi rapporti con le altre istituzione del territorio, in particolare con quelle del mondo del lavoro. La scuola è percepita come comunità, valida soprattutto come agente di socializzazione primaria, ma non è più vista come ascensore sociale.

Si delinea un quadro articolato, attraversato da molte luci e ombre. Ad esempio, i dati quantitativi della ricerca sui giovani e i genitori, tratteggiano l’idea di una scuola in crisi ma che non ha perso del tutto il loro sostegno e la loro fiducia. Gli insegnanti sono ancora un punto di riferimento. Tuttavia, quanto emerge dagli stakeholders non sempre fa pensare che la scuola, anche se ancora dotata di personale motivato, sia complessivamente attrezzata per affrontare molte delle innovazioni tecnico-economiche, sociali e culturali. Non emerge una situazione irrimediabilmente perduta, ma piuttosto sfaccettata con alcune debolezze e altrettanti punti di forza. Ciò che fa ben sperare è che la scuola agisce ancora, o così è percepita, come “catalizzatore e propagatore di fiducia”: vi è cioè un forte legame tra fiducia nella scuola, nelle altre istituzioni e negli altri in generale.

Sulla (ri)legittimazione della scuola, nella fase storica attuale, conta molto sull’efficacia rispetto all’inserimento nel mercato del lavoro: ciò tano nei giudizi dei giovani e dei genitori quanto in quelli degli esperti intervistati. La scuola dovrebbe essere, anche se non soltanto questo, uno dei motori di una modernizzazione economica, di una società della conoscenza che possa contare su lavoratori orientati alla formazione e all’autoformazione continua, specializzati, dotati di buone capacità relazionali e di una certa dose di creatività. Dalla nostra ricerca emerge come diverse scuole del Piemonte occupino questo posto centrale. Quando ciò avviene (come nei casi dell’istituto Vallauri di Fossano, o dell’istituto Avogadro di Torino, per fare un paio di nomi) vi è riconoscimento da parte delle famiglie e dei diversi stakeholders.

Più controversa è la valutazione dell’efficacia della scuola superiore nel fare orientamento professionale e avvicinare i giovani al mondo del lavoro nel “concreto”. Il fatto che essa sia valutata carente nell’orientamento, problema che affligge a monte anche la scuola dell’obbligo, e nella formazione di competenze spendibili per una buona occupazione dipende, come abbiamo detto, in buona parte da una caratteristica tipicamente italiana che è l’ampio ricorso alle reti sociali informali come principale canale per trovare lavoro. Conta ancora molto come le famiglie sono in grado di attingere a informazioni derivate dai reticoli professionali sugli sbocchi e le opportunità per i loro figli. Questo si rivela come un di più per le classi superiori, ma è una riduzione delle alternative possibili per le classi sociali meno agiate: tra queste ultime, quanti orientano la scelta della scuola superiore, prima, e quella post-diploma superiore, dopo, basandosi principalmente sui loro legami con il mondo del lavoro, tendono di più a mettere in secondo piano la propensione a continuare gli studi dimostrata dai figli, anche in presenza di un buon rendimento scolastico.

Di nuovo, la “cura” suggerita dagli esperti consiste nell’investire sulla formazione del capitale sociale dei giovani: l’associazionismo, l’aggancio con il mondo del lavoro attraverso esperienze svolte durante il percorso scolastico superiore. Anche a noi sembra che proprio il capitale sociale e la cultura civica, di cui la scuola è storicamente istituzione riproduttrice, rappresentino il terreno elettivo per chi voglia davvero contribuire, a tutti i livelli di governo e gestione, a produrre la buona scuola del futuro. Con una precisazione. I bassi livelli di informazione e di coinvolgimento sulle vicende della scuola dichiarati dai nostri intervistati, suggeriscono che la scuola dovrebbe ricostruire la fiducia rilanciando il suo tradizionale ruolo di palestra di cittadinanza attiva, laica e informata, capace di instaurare un rapporto fiduciario tra i giovani e le istituzioni più di carattere cognitivo che fideistico, quindi possibilmente critico e costruttivo.

[1] Il programma, coordinato da Adriana Luciano e Angelo Pichierri, formato da cinque équipe di ricerca, si intitolava: The Institutional and Cultural Roots of Development in a Knowledge-based Society: Enriching Regional Innovation Capabilities in the Service Economy (E.R.I.C.A.). I principali risultati di ricerca sono pubblicati in una collana di cinque libri editi da Rosenberg & Selliers nel 2014; l’edizione digitale completa è accessibile a tutti sull’archivio istituzionale Open Access dell’Università degli Studi di Torino: http.//aperto.it.

[2] Le due équipe erano coordinate una da Manuela Olagnero e l’altra da Loredana Sciolla, del citato Dipartimento.

[3] Questa ricerca è stata suddivisa in due fasi. La prima si è svolta nel 2011 ed era rivolta a tutti gli studenti iscritti all’ultimo anno di scuola superiore (licei, istituti tecnici o istituti professionali) delle quattro province di Torino, Alessandria, Cuneo, Novara. Si è avvalsa di un questionario a risposta chiusa, somministrato via web (CAWI) a 7.333 studenti. La seconda fase, di follow up, ha coinvolto un campione di 586 studenti scelti tra quelli già intervistati, sempre con la somministrazione di un questionario a risposta chiusa con metodo CAWI.

[4] Questa seconda ricerca ha compreso due inchieste campionarie (survey) e un cospicuo numero di interviste in profondità a testimoni privilegiati, tutte svolte nelle province di Torino, Alessandria, Cuneo e Novara. Una prima survey telefonica (CATI) ha riguardato un campione di 440 adulti tra i 35 e i 65 anni con almeno un figlio/a frequentante il secondo triennio di scuola superiore o già con diploma di maturità. L’altra survey, face to face, ha riguardato 560 giovani tra i 18 e i 25 anni, in formazione o già diplomati. Le interviste qualitative hanno coinvolto 56 stakeholders del sistema scolastico che per il tipo di attività svolta si possono considerare “esperti” a vario titolo: dirigenti scolastici, insegnanti, rappresentanti di associazioni di genitori, degli studenti, dei lavoratori della scuola, di associazioni imprenditoriali, politici e funzionari di assessorati all’Istruzione ecc.

[5] Barone C., Ruggera L. (2015), Le disuguaglianze sociali nell’istruzione in una prospettiva comparativa. Il rompicapo del caso italiano, “Scuola democratica”, 2: 321-342.

[6] Questo rilevano Ballarino et al. esaminando un campione di soggetti nati tra il 1920 e il 1969; Cfr. Ballarino G., Bernardi F. Schadee H., Requena M., Persistent Inequalities? Expansion of Education and Class Inequality in Italy and Spain, European Sociological Review, Vol. 25, 1: 123-138.

[7] L’indagine ha riguardato oltre 48mila diplomati del 2011, 2009 e 2007.