Rendita urbana e sviluppo territoriale

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di Fiorenzo Ferlaino

1. Introduzione

Nella seconda metà degli anni settanta nelle grandi città europee e del nord America avvennero alcune dinamiche non previste dai modelli vigenti, che Brian Berry indicò come contro-urbanizzazione. Le forze centripete che avevano caratterizzato l’attrattività delle grandi aree urbane industriali invertirono il segno, divennero centrifughe, a seguito del rallentamento delle dinamiche di crescita del ciclo economico e della prima crisi energetica. In Italia (ma non solo), lo sviluppo delle forze produttive necessitò, da quegli anni in poi, di un costante e crescente intervento dello stato, prima come “regolatore” dei processi inflazionistici a sostegno dell’export manifatturiero e poi, con l’avvio della politica degli scambi fissi e dell’ECU (che avrebbe dato vita alla moneta unica europea, l’euro) come attivatore e detentore del debito pubblico.

Avvenne anche un mutamento delle politiche territoriali e dal periodo delle riforme orientate al “riequilibrio” (dei territori e del reddito) si passò alle riforme orientate alle “libertà economiche e territoriali”, che divennero il centro della riflessione sulla città. In precedenza, negli anni cinquanta e sessanta, le metropoli avevano tassi crescenti e il dibattito non poté che registrare questo ‘fatto’ e collocarsi nella fase propulsiva del ciclo. L’interesse della comunità scientifica era allora rivolto alle grandi metropoli e ai ‘poli di crescita’. Lo sviluppo estensivo dell’industria appariva il modello settoriale e territoriale da seguire in quanto portatore di un rapporto incrementale tra l’occupazione, il reddito percepito localmente, l’attrattività delle attività di base (fondamentalmente la grande industria manifatturiera), la creazione di quelle locali. Appariva particolarmente centrale, per lo sviluppo socioeconomico, il ruolo del settore di base, della grande industria manifatturiera, mentre sembrava poco rilevante quello delle “attività locali” o “conseguenti” (secondo la distinzione di W. Sombart). Pertanto, ridistribuire il reddito e l’occupazione sul territorio, ai fini di un suo maggiore equilibrio, divenne la parola d’ordine della programmazione economica mentre la pianificazione e l’urbanistica si preoccuparono di controllare la rendita e dare accesso al bene casa anche agli strati operai e a quelli più poveri della popolazione, che fino allora ne erano stati esclusi. Ciò avvenne sia attraverso una normativa ‘ad hoc’ sia attraverso politiche di regolazione che sfruttavano la naturale espansione delle città e il conseguente aumento della rendita urbana. Nel Nord Europa si anticipò e si permise l’acquisto pubblico delle aree da edificare a prezzi agricoli o poco superiori. I piani regolatori in molti paesi del nord Europa vennero concepiti proprio in questo senso, come strumento di valorizzazione delle aree agricole acquisite dai comuni. In Italia, invece, prevalse l’aspetto regolativo e vincolistico che si scontrò con un regime normativo fondato sulla difesa della proprietà privata (il diritto romano), che finì per deprimere ogni tentativo di riforma in favore dell’interesse comune e della sfera pubblica.

 

2. La rendita urbana e la pianificazione speculativa

Negli anni successivi alla crisi energetica lo sviluppo territoriale che avrebbe dovuto procede intorno ai ‘poli di crescita’, attraverso dinamiche circolari e cumulative, si interruppe e nel giro di poco tempo la domanda di suolo e di nuove localizzazioni industriali si trasformò in deindustrializzazione delle aree centrali (spesso grazie alla delocalizzazione della grande impresa manifatturiera in aree e nazioni periferiche), che resero liberi milioni di metri quadrati di suolo all’interno della città creando i cosiddetti “vuoti urbani”.

Parte dell’economia italiana guarderà altrove, alle medie città della “Terza Italia”[1] e ai sui distretti produttivi[2], ai reticoli locali, mentre la grande industria e la finanza guarderà alle reti lunghe globali che in quel periodo accelerarono i processi di globalizzazione e trasferimento delle attività in nazioni periferiche. La città metropolitana si dilata verso le aree periferiche economicamente in crescita e si svuota nelle sue aree centrali: si parlerà di disurbanizzazione, ririurbanizzazione, periurbanizzazione o, più semplicemente di contro-urbanizzazione. Qualcuno arriverà perfino a profetizzare la morte della città[3]. La contro-urbanizzazione si concretizzerà cioè nel dispiegamento del cosiddetto sprawl urbano, la città diffusa a alto consumo di suolo.

La crisi dell’urbanistica di matrice nord-europea nasce a questo punto. Nei paesi più avanzati europei, anglosassoni e scandinavi (soprattutto in Olanda e in Svezia), dove il processo di urbanizzazione e di crescita urbana era già in atto da tempo, era emersa un’azione riformatrice che poneva l’operatore pubblico come soggetto principale del governo delle città. L’urbanistica di quei paesi seguì una strategia amministrativa mossa dal controllo e dall’utilizzo della rendita a fini sociali. Come abbiamo detto, ciò avveniva fondamentalmente attraverso l’acquisizione delle aree agricole vicine alla città e il loro successivo “battesimo” e valorizzazione, a aree edificabili, per mezzo del piano regolatore. La creazione di servizi, di aree produttive e residenziali davano all’operatore pubblico un enorme vantaggio economico e gestionale, sia nel mercato delle abitazioni sia nel fornire risposte adeguate alla domanda crescente di servizi e di residenze per gli strati non abbienti della popolazione.

In Italia ciò non avvenne, o avvenne male, per diversi motivi:

  • per il radicamento di una cultura privatistica del territorio e la conseguente mancanza di una cultura orientata all’implementazione dei beni comuni, ribadita e sancita con la sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 1980, che mise fine alla richiesta di separare lo jus aedificandi dal diritto di proprietà;
  • per il rifiuto delle classi politiche di governo di condurre una politica fondiaria che si integrasse con la cultura tecnica urbanistica;
  • per la presenza di una cultura tecnica fortemente orientata al progetto e alle norme (al disegno progettuale, ai vincoli, agli standard e allo zoning) e comunque minoritaria nell’orientare nuove prassi amministrative e indirizzi politici che anticipassero l’acquisizione delle aree agricole o ne facessero oggetto di contrattazione pubblica;
  • per il forte legame tra interessi privati e pubblici, che è stato costitutivo di forme di connivenza strutturali della gestione politica e, nelle aree più “arretrate” del paese (quelle più lontane dal take-off economico continentale e con minori risorse di capitale sociale), con le organizzazioni malavitose presenti.

La sudditanza dell’amministrazione politica dell’urbanistica dei comuni all’interesse privato ha il più delle volte agito, attraverso gli strumenti di piano, valorizzando le aree agricole acquisite dagli operatori immobiliari “amici” e mortificando continuamente l’attore pubblico istituzionale. Nel contempo ha garantito, attraverso l’assunzione pubblica della gran parte degli oneri di infrastrutturazione primaria e secondaria (dalle fogne, alle strade, al cavo del telefono, alla chiesa, alla scuola, ecc.), bassi costi delle abitazioni in proprietà che hanno reso accessibile il ‘bene-casa’ anche agli strati poveri della società. Inoltre ha consentito attraverso l’incremento e l’appropriazione privata della rendita urbana la creazione di gran parte dell’“accumulazione originaria” (ben descritta nei testi marxiani) che ha contribuito a formare la borghesia industriale moderna e contemporanea (si pensi ancora ai Ligresti o ai Berlusconi, per citare gli ultimi arrivati). Infine, il settore edilizio ha agito da volano nei periodi di crisi del settore manifatturiero e, per quanto riguarda il capitale umano, da filtro occupazionale dalla campagna agricola alla città industriale, da “modernizzatore” degli stili di vita e dei consumi.

 

Tab. 1.1. Tipologie e caratteristiche amministrative degli Stati europei.

Tipologia di modello

 

Europeo Scandinavo o Settentrionale Europeo Mediterraneo o Meridionale Europeo Continentale o Occidentale Anglosassone Europeo dell’Est
Caratteristiche generali Cultura amministrativa1 Basata sull’ interesse pubblico Non è chiaro Di tipo normativo Basata sull’interesse pubblico Di transizione
Ispirazione6 Socialismo Varie ideologie Cristiano-democratico Liberale Post-comunista
Tradizione statale2 Misto tra Germanico e Francese Napoleonica Germanica o organicistica Anglosassone Comunista
Struttura della amministrazione3 Medio Medio-debole Medio-debole* Forte Forte/debole
Caratteristiche del Settore Pubblico Caratteristiche generali Ampie dimensioni, alta qualità e alta garanzia e fiducia Dimensioni ridotte, qualità medio-bassa e fiducia-garanzia medio-bassa Dimensione mista, qualità media e fiducia-garanzia medio-alta Dimensioni medie, qualità medio-alta e fiducia-garanzia media Dimensioni medio-basse, qualità medio-bassa e fiducia-garanzia medio-bassa
Caratteristiche del Servizo pubblico4 Contributo privato basso, a orientamento pubblico, scarsamente repressivo, di tradizione Beveridge(1879-1963) , sistema educativo uniforme, sistema penale accusatorio Contributo privato medio-basso, di media repressione, tipo Beveridge, sistema educativo mediamente differenziato Contributo privato medio, orientamento pubblico, di medio-bassa repressione, tipo Bismarck (1815–1898), sistema educativo differenziato e sistema legislativo inquisitorio Contributo privato medio-alto, repressione mirata, tipo Beveridge, sistema educativo mediamente poco differenziato Contributo privato medio-alto, tipo Bismarck, sistema educativo mediamente poco differenziato
Performance del Settore Pubblico5 Performance complessiva medio-alta, medio-alta nell’istruzione, alta nella sanità e nella assistenza, bassa efficienza complessiva Performance complessiva bassa, bassa nell’istruzione, medio-alta nella sanità e nell’assistenza, efficienza complessiva media Performance complessiva medio-alta, medio-alta nell’istruzione, alta nella sanità e nella ssistenza, bassa efficienza complessiva Performance complessiva media, alta nell’istruzione, medio-alta nella sanità e nella assistenza, alta efficienza complessiva Performance complessiva medio-bassa, medio-bassa nell’istruzione, medio-bassa nella sanità e nella assistenza, efficienza complessiva medio-bassa
Caratteristiche della Protezione sociale Sistema di riferimento6 Basato sulla ridistribuzione (uguaglianza) Basato sulla famiglia Basato sulla Sicurezza Basato sulla’assistenza Transizione verso la Società Civile
Protezione secondaria (difesa del reddito)6 Alto livello di spesa sociale, struttura impositiva di finanziamento pensionistico, copertura universale basata sul diritto di cittadinanza come criterio di accesso Basso livello di spesa sociale, struttura impositiva di finanziamento pensionistico (tasse), copertura universale basata sul ruolo lavorativo come criterio di accesso Livello medio di spesa sociale, struttura contributiva di finanziamento pensionistico, copertura selettiva e basata sul ruolo lavorativo come criterio di accesso Basso livello di spesa, struttura impositiva di finanziamento pensionistico (tasse), copertura selettiva e indigenza come criterio di accesso Livello medio di spesa sociale, struttura di finanziamento impositiva, copertura universale e diritto sociale dei cittadini come criterio di accesso

 

1 Pollitt, Bouckaert (2004); 2 Loughlin (1994); 3 Hooghe (2002); 4 SCP/CERP (2004); 5 Afonso et al. (2003); 6 Subirat, Goma (2000).

* Con l’eccezione della Francia (forte).

Fonte: Maroto Sánchez, Rubalcaba Bermejo (2007).

 

 

La speculazione edilizia è tutto questo, un legame economico e culturale forte tra modernità e arretratezza visto come “normale” nella prima repubblica[4] è presente anche nella seconda repubblica (si pensi alla forza del dibattito sull’IMU), sebbene si sia col tempo fatta strada una più diffusa coscienza critica, prima presente solo nelle classi colte.

In questo processo va sottolineato il ruolo del “palazzinaro” (descritta in letteratura e ben rappresentata dal cinema.), cioè dell’imprenditore edile che si è connotato, e in parte si connota ancora, per il legame strutturale esclusivo con la rendita urbana, senza il cui “contributo” non sarebbe cioè stato in grado di generare profitti o di investire in altri e più moderni settori. La crisi del “palazzinaro” e oggi, in grande parte, la crisi del Sistema-Italia da sempre incapace di trasformare la piccola impresa in grande, senza l’ausilio del settore edile, quale attività di implementazione dei profitti e di intermediazione finanziaria.

Questa figura di imprenditore ha svolto in Italia un ruolo sostitutivo dell’azione finanziaria (che altrove è stato il motore della crescita della rendita) e, attraverso il legame forte con la sfera amministrativa, ha consentito l’estensione del potere di controllo della politica sulla società civile, sulla formazione di una parte consistente della classe dirigente e imprenditoriale, sulla diffusione di una ideologia privatistica del bene-casa. Quello che non fece la cultura urbanistica (minoritaria e spesso più orientata al disegno “razionale” normativo e di piano che alla valorizzazione pubblica delle aree), fu fatto dai politici e dai “palazzinari”, poco interessati al disegno “razionale” e più orientati a governare il consenso, l’economia e il territorio. Il risultato sociale è ciò che è stato definito “blocco edilizio”[5], cioè quel legame tra consenso politico e proprietà della casa che ha costituito il collante maggiore della coesione sociale. La proprietà della “casa nuova” è stato l’accesso concreto e fattuale delle classi meno abbienti e popolari ai ceti medi della società, sebbene a costo della frantumazione e destrutturazione delle trame urbanistiche e del tessuto territoriale storico della “Bella Italia”. Questo è avvenuto sia nelle regioni governate dalla destra che in quelle governate dalla sinistra, lo sprawl urbano e produttivo interessa il Veneto come l’Emilia Romagna, la periurbanizzazione interessa la periferia milanese come quella torinese, le coste marittime del Nord come quelle del Sud. Il grande contributo della cultura urbanistica italiana, sia teorico che fattuale, è stato invece nella difesa e conservazione dei centri storici che, fortunatamente, non hanno subito quei processi di rimaneggiamento e “modernizzazione” che hanno caratterizzato molte realtà urbane e metropolitane del Nord-Europa e, ancor peggio, del Nord-America. Il contributo di avanguardia culturale della sinistra nella preservazione dei centri storici è letteratura ed è stato un elemento distintivo della sua cultura. Oggi appare uno dei punti della sua ‘abiura’ con cui ha rinunciato a diffondere le trame urbane locali e le morfologie della città storica, con cui ha rinunciato ad elaborare cultura e nuova progettualità dei morfemi architettonici delle “cento città”, delle capitali italiane, con cui si è prestata a mutuare stilemi e forme dal modernismo imperante e da un movimento di idee che rende omogeneo ogni luogo, simile ogni territorio. La sinistra italiana che con i piani di Gubbio e di Assisi (di Astengo) o di Bologna (di Campos Venuti) aveva già superato il modernismo e il post-modernismo (di fatto un ri-modernismo), si è ritrovata a inseguirne il dibattito e le loro fughe rimodernanti, il loro fascino tecnologico, la verticalità dei grattacieli. Una bella proiezione nel passato. Questa è l’attuale situazione.

Con la deindustrializzazione e la nuova evenienza del terziario il controllo della rendita divenne secondario mentre emerse il problema dell’utilizzo delle aree industriali lasciate vuote. E’ in questo contesto che è nato il “marketing urbano”, come esigenza di ri-modernizzazione e di ri-utilizzo, anche a fini pubblici, delle aree private lasciate vuote. Gli anni ottanta sono orientati a trasformare la città produttiva e industriale nella città post-industriale dei consumi e dei servizi di mercato. L’interazione tra pubblico e privato si è creata nella necessità del pubblico di utilizzare tali aree, per rispondere alla domanda di servizi e di riqualificazione della città industriale, e dei privati di valorizzare le proprie, sul mercato della residenza e del terziario.

Ciò è stato possibile grazie alle economie d’infrastrutturazione che all’interno della città si sono rese disponibili, cioè al fatto che non fossero necessarie nuove infrastrutturazioni o nuovi servizi pubblici. Il legame tra gli oneri di urbanizzazione e la necessità di costruire servizi e infrastrutture si è rotto, grazie anche al declino demografico e alla conseguente diminuzione della pressione sociale sulla domanda di servizi. Questa rottura ha strutturato un più forte legame tra l’interesse privato, bisognoso di valorizzare al massimo le aree urbane resesi disponibili, e quello pubblico, bisognoso più investimenti in “consenso culturale”, più che in servizi e beni comuni. Il suolo urbano attraverso il pagamento degli oneri di urbanizzazione è divenuto ‘moneta contante’, un’entrata inaspettata e bulimica per operatori pubblici e interessi privati. Tale meccanismo è divenuto così potente da costituire la leva economica più incentivata dallo Stato (sobillato dalle continue richieste di risorse da parte delle amministrazioni locali), che ha permesso l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione anche per investimenti diversi dalle finalità urbanistiche e quindi, addirittura, per la più comune gestione amministrativa comunale. Ancora una volta destra e sinistra hanno fatto a gara nel consentire tutto ciò in un incontro che ha visto particolarmente attivi Bassanini e Tremonti; non si sono messi ‘paletti’, indicate priorità d’investimenti, valorizzate risorse locali.

Nei paesi con una tradizione forte di governo del territorio tutto ciò è stato oggetto di una gestione più efficiente basata su nuovi strumenti urbanistici che hanno abbandonato, almeno in buona parte, il livello del Piano orientandosi alla valutazione strategica, ambientale e partecipata delle trasformazioni, attraverso un rapporto contrattuale e pubblico della mediazione, in grado di esplicitare e portare a sintesi i diversi interessi mobilitati. Nei paesi mediterranei, caratterizzati da una bassa qualità culturale per la “cosa pubblica” (cioè da scarsa trasparenza e regolazione burocratica, vedi tab1), di nuovo l’incastro si è tradotto nell’incomunicabilità tra la sfera degli interessi pubblici (gestiti solo dalla rappresentanza politica) e di quelli privati (ancora una volta non resi trasparenti e evidenti). Ciò ha implementato i fenomeni NIMBY e, a livello teorico, lo scontro insensato tra difensori del Piano e patrocinatori del Progetto. Ha prevalso un ‘tertium’: la variante al Piano è stato il mezzo concreto per snaturare i nuovi strumenti (VAS, VIA, tavoli pubblici di contrattazione, ecc.) elaborati dalla cultura anglo-sassone per il controllo pubblico delle trasformazioni. La variante al Piano è stato il mezzo per ricondurre entro una forma ufficiale e amministrativa gli innumerevoli interventi, necessariamente locali, di trasformazione urbana. La variante al Piano ha impedito che prevalesse la nuova cultura della valutazione pubblica e ha riconfermato la vecchia cultura del tecnicismo urbanistico. In Italia ciò è stato particolarmente evidente grazie all’inefficienza congenita dell’amministrazione e alla sua tradizionale subalternità ai cosiddetti “poteri forti”, ad una gestione poco chiara e trasparente della “cosa pubblica”. Il risultato è stato un marketing urbano spesso di scarsa qualità, che il più delle volte ha tradito la forma della città storica per una maggiore valorizzazione (ancora una volta) della proprietà privata.

I meccanismi conseguenti, di gentrification e di rivitalizzazione urbana, di riurbanizzazione, hanno riportato la città storica del diciannovesimo e prima metà del XX secolo al centro dell’attenzione degli operatori economici e amministrativi, prospettando, a partire dalla metà degli anni ottanta e dopo un decennio di fuga verso l’esterno, l’inserimento del marketing e dei servizi (alle imprese, commerciali, ecc.) e una forma urbana verticalizzata e concentrata in opposizione a uno sprawl e a un consumo del suolo divenuto oramai insostenibile.

 

3. Oltre la Variante

 

L’eredità lasciata è un peso troppo gravoso per attendersi svolte repentine. Lo scenario più probabile (in Italia più che altrove, visto il carattere di debolezza strutturale che ne connota le relazioni interne) è quello di una crisi che perdurerà nel tempo (diciamo per i prossimi dieci anni), tra tentativi di fuoriuscita e risposte inadeguate e insufficienti, tra le richieste di valorizzazione che gravano sulle aree oggetto di trasformazione e una oggettiva scarsità di mezzi per muovere verso il cambiamento, tra l’immobilismo dato dalle scelte oramai fatte (le varianti più importanti al PRGC) e l’incertezza del mutamento. Tuttavia la questione della sostenibilità potrà essere rimandata ma non eliminata: hic Rhodus, hic salta.

Occorre cambiare “occhiali”.

Innanzitutto occorrerebbe pensare a strumenti di trasformazione che facciano emergere i diversi interessi tra le parti e riconducano a sintesi attraverso un dibattito pubblico regolato e definito da quelli che si chiamano in letteratura “processi decisionali inclusivi”.

Alcune azioni sono tuttavia possibili e attuabili:

  1. occorre ripristinare l’utilizzo coerente degli oneri di urbanizzazione;
  2. attivare meccanismi di edilizia compartecipata sia in termini di coworking (da parte dei destinatari delle case) che di contribuzione alle spese di social house da parte degli imprenditori privati che intendano valorizzare aree di un determinato quartiere (come si fa già in Germania, nei paesi Scandinavi, nel Regno Unito);
  3. dare la possibilità ai sindaci di incrementare l’IMU delle case sfitte in aree a forte domanda residenziale (nelle grandi aree urbane);
  4. attuare la “perequazione per prossimità” (per parti di città piuttosto piccole, per quartiere ad esempio) per evitare una distribuzione non omogenea dei servizi e delle aree a verde, contribuire alla creazione di una identità locale (di borgo, di quartiere, di comunità), incrementare il controllo e la trasparenza dei meccanismi edificatori.
  5. ricapitalizzare gli oneri di urbanizzazione, che in Italia sono tra i più bassi d’Europa;
  6. misurare l’imposta catastale negli atti di compravendita immobiliare come quota percentuale della rendita, misurata dal valore di vendita cui è sottratto il valore attualizzato di acquisto del bene e le spese di investimento e per la manutenzione straordinaria;
  7. invertire l’onere delle spese di registro e di imposte che oggi ricadono sull’acquirente; esse dovrebbero legittimamente cadere sul proprietario che vende il bene e che ha usufruito dell’incremento della rendita differenziale;
  8. impedire la costruzione in aree agricole e premiare il recupero di terreno agricolo già degradato o costruito (capannoni, aree di risulta, parcheggi di superficie, ecc.) attraverso una riorganizzazione delle misure dei fondi europei che ricadono sulle aree rurali;
  9. riequilibrare i costi collettivi di infrastrutturazione (gli oneri di urbanizzazione contribuiscono ma non pagano l’intero costo collettivo) attraverso oneri di urbanizzazione differenziati e tali da: (a) favorire gli interventi di sostituzione (demolizione del patrimonio obsoleto per fare nuove costruzioni) dato che in questo caso sono già presenti i servizi primari e secondari e quindi gli oneri ineriscono la manutenzione ordinaria e straordinaria degli stessi; (b) incrementare gli interventi di trasformazione negli spazi interstiziali urbani e in spazi dismessi da attività industriali, dato che in questo caso sono presenti le infrastrutture primarie mentre crescerebbe la domanda di servizi alla residenza (soprattutto oneri secondari); (c) disincentivare, attraverso l’aumento degli oneri complessivi, gli interventi su ‘prato verde’; dato che in questo caso non sono presenti né infrastrutture primarie né secondarie;
  10. un mezzo per fare questo è anche quello di aggiungere, soprattutto nei casi ‘b’ e ‘c’, agli oneri di urbanizzazione un onere relativo all’impatto ambientale (gli impact fees americani) che tengano conto degli effetti pubblici generati (sia sulle altre abitazioni che, nel caso di ‘prato verde’, sul paesaggio e la qualità ambientale),
  11. ridurre per le imprese la tassazione sui redditi da lavoro della quota parte dell’incremento della tassazione dei capitali immobiliari.

Sono idee, volutamente ridondanti, per rilanciare il dibattito sulla rendita e giungere a proposte di modifica dell’attuale normativa nazionale e regionale con l’obiettivo di riequilibrare la distribuzione della rendita tra pubblico e privato e ridare alla società, che la rendita forma e crea (in quanto espressione del valore aggiunto territoriale) quanto finora è stato dato solo ai privati. Lo scopo, si badi bene, non è quello di deprimere la crescita quanto di ridistribuirne il suo valore aggiunto territoriale ridando ai sistemi locali la possibilità di far fronte alle necessità di sviluppo attraverso l’implementazione degli investimenti pubblici e l’incremento della ricchezza dei beni comuni.

[1] Bagnasco A., 1977, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, il Mulino, Bologna.

[2] Becattini G., 1979, Da “settore” industriale al “distretto” industriale. Alcune considerazioni sull’unità d’indagine dell’economica industriale, in Rivista di economia e politica industriale, p. 1. Becattini G., (a cura di), 1987, Mercato e forze locali: il distretto industriale, il Mulino, Bologna.

[2] Marshall A., 1919, Industry and Trade, Macmillan, London, 1927, p. 285.

[3] Vining Jr. D.R. e Pallone R., 1982, Migration between core and peripherical regions: an international compararison, in Geoforum, 13, 4.

[4] La normalità culturale è immortalata nella celebre frase “A Fra’, che te serve?” scambiata tra un politico della capitale e un famoso “palazzinaro” romano.

[5] Parlato V., Il Blocco edilizio, in F. Indovina (a cura di), Lo spreco edilizio, Marsilio, Venezia 1972.