La personalizzazione della politica porta all’estinzione della democrazia?

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di Federico Repetto

1. Alcuni politologi hanno visto un nesso abbastanza stretto tra quella che Bernard Manin chiama democrazia del pubblico, al cui centro stanno l’opinione pubblica e i media, e la tendenza alla leadership forte e alla “presidenzializzazione della politica”. “Il concetto di presidenzializzazione indica il processo secondo il quale i regimi politici si avvicinano sempre più, nel loro concreto funzionamento, all’idealtipo del sistema presidenziale. Senza tuttavia abbandonare le proprie strutture formali…” sintetizza F. Bordignon (in Il partito del capo, Apogeo, 2014, p. 3). Il processo può riassumersi 1) come rafforzamento del premier in seno all’esecutivo, 2) come rafforzamento del potere del leader in seno al partito, 3) come rafforzamento della figura del leader rispetto a quella del partito in campagna elettorale (pp. 4-5).

Una delle cause principali di questa tendenza sarebbe la personalizzazione della politica, tipica di una società nella quale, finita l’esigenza di una lotta collettiva per il miglioramento delle condizioni materiali di esistenza, la classe, il gruppo sociale o il partito non sono più l’orizzonte obbligato dell’individuo, e nella quale quindi la rappresentanza democratica deve basarsi principalmente su di un rapporto di fiducia tra persone. La personalizzazione sarebbe anche il risultato del rapporto “diretto” che la televisione permette di instaurare tra il leader e il pubblico.

In effetti, secondo Manin, si ritorna per certi versi al rapporto di fiducia personale dei tempi in cui il suffragio era limitato e gli elettori votavano delle persone in quanto notabili del loro territorio, con la non piccola differenza che, nei sistemi rappresentativi sette-ottocenteschi, era possibile la conoscenza faccia a faccia del candidato, mentre oggi il rapporto “personale” è mediatizzato.

Alcuni politologi italiani, tra cui Calise e lo stesso Bordignon, sulla base di diverse analisi della personalizzazione, mettono in luce il fatto che il caso Berlusconi non è esclusivamente un’anomalia italiana, ma è un caso particolare – per quanto non banale – di una tendenza internazionale.

Bordignon sembra spiegare l’affidamento personale al leader soprattutto con la cultura centrata sull’Io della società postmoderna, che ha lasciato dietro di sé le “grandi narrazioni” storiche delle ideologie moderne e la disciplina collettiva della “democrazia dei partiti”. Tale cultura concepisce i rapporti sociali come rapporti tra gli individui e le loro “piccole storie”: il leader convincente è quello che sa coinvolgere nella sua storia personale quelle dei suoi elettori. Ciò avrebbe come conseguenza una crescente preferenza per la personalizzazione e la “presidenzializzazione” delle istituzioni, che permetterebbero di imputare chiaramente le responsabilità delle decisioni e ridurre al minimo la funzione delle impersonali burocrazie di partito. Il leader di successo si presenterebbe spesso come un outsider interno rispetto al proprio partito, o addirittura come esterno al gioco politico dei partiti, approfittando della diffidenza crescente nei loro confronti (cfr. op. cit., pp. 7 sgg. e 241 sgg.)

Si deve obiettare che dal declino dei partiti di classe e del voto di appartenenza non deriva automaticamente il carattere forte e presidenzialistico della leadership, ma di per sé solo il potenziamento del voto di opinione, almeno dove si è realizzata una solida e diffusa cultura di massa laica e moderna.

Ci si potrebbe anche chiedere se la personalizzazione spinta della politica, l’affidamento personale al leader e il bisogno di affabulazione (al posto dell’ideologia, ma anche dell’argomentazione) non derivino, per una certa parte dell’elettorato, da quella tendenza infantilistica alla semplificazione e alla contrapposizione manichea, di cui hanno parlato p. es. Neil Postman e Benjamin Barber riguardo agli Usa. Questi autori non godono di buona stampa presso le scienze sociali accademiche, soprattutto quando, come Postman, imputano alla tv queste tendenze culturali. Al posto di infantilizzazione si potrebbe forse parlare per l’Italia dell’abbassamento del livello delle conoscenze e della capacità di rielaborarle sistematicamente da parte di alcuni gruppi sociali, nonostante l’estensione della scolarizzazione.

Comunque si voglia definire questa situazione pedagogico-culturale, di fatto il definanziamento/dequalificazione della scuola pubblica e le carenze dell’educazione alla cittadinanza sono in contrasto con la democrazia sociale della nostra Costituzione, che impegna lo Stato a garantire ai lavoratori un’effettiva partecipazione “all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Tutto ciò nasce dalla convergenza tra l’interesse fiscale immediato dei contribuenti, l’insufficiente interesse per l’educazione di molti cittadini, l’insufficiente interesse per la ricerca delle imprese, l’influenza politica delle scuole private cattoliche. Dal lato opposto, a tenaglia, si è sviluppata, attraverso i palinsesti condizionati dalla pubblicità, la cultura del consumo e dello spettacolo (sul peso degli inserzionisti sui palinsesti delle tv private cfr. p. es. Pitteri, La pubblicità in Italia, Laterza 2002 e Freccero, Televisione, Bollati Boringhieri 2013). Per decenni un’élite di grandi inserzionisti e gestori di tv hanno di fatto avuto un peso grandissimo nel sistema dell’educazione pubblica, il tempo dell’audience televisiva di molti bambini e ragazzi essendo prossimo a quello scolastico (questo certo è avvenuto col consenso dei genitori, che spesso hanno accettato di farsi rappresentare dalla tv).

 

2. Dunque, il candidato che può arrivare “direttamente” agli elettori attraverso i media si guadagna una notevole autonomia dall’apparato del suo partito (già indebolito dalla crisi della militanza) e dipende invece sempre più dai suoi finanziatori e dai suoi spin doctor. E può quindi imporre, con l’aiuto degli uni e degli altri, e contro i quadri e i membri del suo partito, la leaderizzazione spinta di esso e anche la presidenzializzazione del sistema politico. Questa tendenza, che esiste certo anche a livello internazionale, è sensato chiamarla, più che “democrazia del pubblico”, “democrazia populista” come fa Peter Mair (citato dallo stesso Bordignon a p. 243). O, in altri casi, “plutocrazia all’interno di una democrazia liberale”. Infatti, non si può non cogliere, sulla scorta di Melchionda (Il finanziamento della politica, Editori Riuniti 1997), che la crescita delle spese elettorali porta verso una sorta di regime elettivo plutocratico e mediatico, per cui il ceto politico è tendenzialmente costituito da ricchi (come era abbastanza evidente negli Usa già negli anni novanta), ma soprattutto è tendenzialmente dominato dagli interessi dei grandi capitali e dalla politica economica neoliberista, come si vede dall’enfasi sulla diminuzione delle tasse e della spesa per il welfare. In tutti i casi sembra più giusto chiamarla “postdemocrazia” (come Colin Crouch intitola un suo libro del 2003) , intendendo il “post” rispetto alla democrazia sociale.

Bordignon poi avrebbe dovuto chiedersi se la tendenza alla concentrazione del potere (sempre più mediatizzato) e al rafforzamento presidenzialistico dell’autorità non sia fortemente in relazione, più che con la personalizzazione postmoderna e la centralità dell’Io, con il risentimento antipolitico derivante dal crescente immiserimento dei ceti medi e dalla percezione forte di un pericolo immigrati (il fatto che l’immiserimento sia imputato al sistema dei partiti, anziché alle politiche liberiste, così come il fatto che gli immigrati siano visti come un grande pericolo per la sicurezza, hanno a mio parere una chiara relazione con il sensazionalismo televisivo e con l’agenda setting dei grandi media). Non solo, ma è lo stesso neoliberismo che teorizza il rafforzamento del potere dello Stato in quanto garante di legge ed ordine (come è mostrato in Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore 2007, cap. 2), per cui è significativo che nel mondo occidentale siano cresciute insieme le politiche economiche neoliberiste, la leaderizzazione e il rafforzamento del potere esecutivo, il potenziamento della polizia e della repressione del dissenso, la diseguaglianza economico-sociale e la crisi economico-finanziaria. La leaderizzazione, il rafforzamento dell’esecutivo e la repressione dei diversi sono risposte emotive al malessere che coinvolge a un certo punto anche la “classe di maggioranza”, e si intrecciano assai bene con l’antipolitica o, se si preferisce, col populismo.

 

3. La precoce tendenza italiana verso il leader forte è probabilmente in stretta relazione con una crisi particolarmente acuta del sistema dei partiti (1992-94), incapace di affrontare le urgenti questioni del debito e del deficit, Tangentopoli e l’allarme mafia; inoltre, il pubblico/elettorato italiano era particolarmente legato alla cultura neotelevisiva e alla sua tendenza alla personalizzazione, alla semplificazione e alle dicotomie manichee anche perché – differentemente dal pubblico del centro e del nord Europa – poco istruito e poco propenso a seguire le questioni politiche e sociali attraverso i quotidiani. A ciò si sommino la tendenza antipolitica della nostra cultura tradizionale e la capacità da parte dell’outsider Berlusconi di rappresentarla, di metterla in scena, e, ovviamente, il suo straordinario possesso di risorse finanziarie e mediatiche.

Ma ben prima della crisi dei primi anni ’90 in Italia il dominio degli inserzionisti sul palinsesto televisivo assumeva proporzioni sconosciute in Europa. Già negli anni ’80 più della metà della pubblicità totale si riversava sulla tv, mentre nelle altre democrazie avanzate si distribuiva sulla stampa quotidiana e periodica. Berlusconi, già prima della costituzione del network Canale 5, si recò ad un convegno di Centromarca, l’associazione che raggruppa i produttori delle marche più conosciute, chiedendo un finanziamento di 30 miliardi e offrendo in cambio una televisione adeguata alle loro esigenze. Così riferisce le sue parole Paolo Madron nella sua biografia (pp. 60-62): “Non solo apro la mia televisione ai vostri spot, ma voglio fare una televisione che parli dei vostri prodotti”. Berlusconi “voleva, oltre alle normali pubblicità, dei programmi dove si presentassero direttamente i prodotti”, notò allora Luigi Bordoni, direttore generale di Centromarca (come dice Madron, “Berlusconi non fa televisione, ma vende pubblicità costruendovi attorno una cornice chiamata palinsesto”, p. 101). L’idea incontrò subito il favore degli inserzionisti e si raccolsero 70 miliardi.

In questa sua funzione di “signore della pubblicità”, egli cerca di assumere la leadership sociale e culturale delle grandi industrie del consumo di massa, che però in parte continueranno a trattarlo come un parvenu, e insieme della piccola-media impresa, a cui propone condizioni favorevoli di accesso, nonché del ceto medio (nel senso più ampio e interclassista) che finalmente può accedere ai diversi stili di vita basati sui consumi. E, fin dagli anni ’80, è attentissimo alla crescita del suo capitale comunicativo (su questo tema rimando ai cap. 1 e 6 del mio Berlusconi et l’hégémonie publicitaire, Éditions Universitaires Européennes 2012): un apposito ufficio di Publitalia si preoccupa di confrontare la sua popolarità con quella dei cinque capitalisti italiani più famosi. Dopo la vittoria del Milan sul Bucarest a Barcellona nel 1989, egli aveva raggiunto uno score di 64 punti di popolarità, contro i 43 di Agnelli e i 12 di De Benedetti. Se, utilizzando gli archivi on line dei grandi giornali, si contano le volte in cui è citato, si scopre che tra il 1984 e il 1993 è assai più citato degli altri industriali, e anche dei divi e dei calciatori più famosi; poi, nel 1990-93 sorpassa tutti i politici importanti, tranne Andreotti.

Ma l’indizio più forte della sua egemonia e in particolare della sua influenza “pedagogica” è il sondaggio tra i preadolescenti commissionato da “Prospettive nel mondo” a fine 1991: si chiedeva quale personaggio, storico o attuale, ammirassero di più. Il 28% indicò proprio lui. Il secondo fu il presidente Cossiga. Schwarzenhegger fu il terzo e il quarto, con il 14%, fu Gesù Cristo, che riuscì per lo meno a battere il papa e Michael Jackson.

Egli apparve varie volte in tv per l’assegnazione dei Telegatti e naturalmente in copertina sul suo “Tv, sorrisi e canzoni”, il settimanale più diffuso. Mentre queste apparizioni sono state decise da lui stesso, quelle sulle pagine del concorrente “Oggi” sono già il sintomo dell’interesse del pubblico per l’amico delle star e padrone delle tivù private capace di sfidare la Rai. Nelle foto di “Oggi” come in quelle di “Sorrisi”, egli appare al centro dei suoi divi (strappati a caro prezzo alla Rai) o portato in trionfo dai suoi giocatori: un vero e proprio “re delle star”. È interessante anche una foto di “Oggi” del 29 aprile 1987, in cui un Berlusconi bonario, ma imbronciato, appare faccia a faccia con un Enrico Manca – presidente della Rai – dall’espressione feroce, in un divertente fotomontaggio in cui capitale privato e capitale pubblico si fronteggiano: è già allora il rappresentante simbolico dell’impresa di fronte allo Stato, come ha osservato Pierre Musso.

Egli dunque rappresenta simbolicamente l’impresa ed è il rappresentante politico “naturale” proprio di quel ceto medio allargato, che in questo secolo ha cominciato a impoverirsi. La fiducia di tale ceto nei suoi confronti è probabilmente legata, più che al suo carisma, a un rapporto di fiducia come complicità (cfr. Ceri, Gli italiani spiegati da Berlusconi, Laterza 2011), all’attesa razionale di potersi sottrarre a norme e regolamenti, sia grazie alla deregulation e ai condoni, sia grazie alla tolleranza dell’elusione e dell’evasione, e infine alla speranza nella sua capacità di propiziare la crescita. Sia la preponderanza delle leggi ad personam sulla deregulation, sia la fine della crescita hanno eroso questa fiducia. Inoltre egli è anche la star di una certa subcultura del maschilismo, dell’esibizionismo, dell’ostentazione del sesso, ecc. (Panarari ha parlato a questo proposito di una sua “egemonia sottoculturale”), ma il bisogno di mostrare l’eterna giovinezza del “corpo del sovrano” ad alcuni dei suoi seguaci ha contribuito ad alienargli una parte delle simpatie del pubblico della “tv delle famiglie”.

 

4. Finito (o quasi) il suo ciclo per limiti d’età, ci troviamo ancora di fronte a una competizione tra leader outsider spettacolari e antipolitici, che capeggiano partiti più o meno personali. E che dovranno comunque fare i conti con il suo potere mediatico-patrimoniale. Lo strapotere della personalizzazione spettacolare in politica resta purtroppo una specificità italiana.

Grillo, prima di far politica, godeva di un capitale comunicativo enorme accumulato in tv (un sondaggio Abacus del 1991 lo indicò come il comico “più popolare” del paese, e ciò dopo 5-6 anni di assenza dal piccolo schermo); in seguito ha mantenuto viva la sua popolarità soprattutto con le sue esibizioni teatrali. Il suo refrain, come si ricorderà, era: “ma perché di questo non si occupano i politici e i giornalisti? Io sono solo un comico…” Questa frase descriveva abbastanza correttamente il sistema bloccato, in cui al duopolio televisivo corrispondeva una sorta di duopolio politico. Se la politica era una sorta di recitazione a soggetto, tra le poche voci fuori del coro c’erano quelle di alcuni uomini di spettacolo: dai fratelli Guzzanti a Nanni Moretti, da Paolo Rossi a Celentano. Il passaggio di Grillo nel 2005 all’opposizione attiva, con l’apertura del suo blog (pieno di informazione-agitazione, ma anche di comicità), era in un certo senso un’evoluzione naturale e attesa, più della discesa in campo di Berlusconi. Il suo capitale tecnico, o meglio quello del suo amico Casaleggio, era molto più modesto, ma non irrisorio: una piccola, ma brillante, agenzia di marketing in rete.

Quanto a Renzi, egli ha semplicemente doti spontanee di comunicatore, e non è propriamente un outsider della politica, ma lo è rispetto alla nomenklatura del Pd, e ha fondato la sua popolarità su questo messaggio antipartitico, contrapponendo il ruolo di sindaco a quello dei burocrati di partito, e il decisionismo al compromesso politico. Non solo: ha gestito in modo personale, imponendo i suoi amici e collaboratori, tutte le cariche istituzionali che finora ha ricoperto, e ha perfino evitato di esporre i simboli del Pd ai “suoi” meeting alla Leopolda.

Dunque, quale che ne sia il senso, la tendenza alla personalizzazione-presidenzializzazione per il nostro paese sembra ampiamente confermata anche per il futuro. E che il senso sia quello della “democrazia populista” o “plebiscitaria” lo si vede, per esempio, tanto dalla gestione che Grillo e Casaleggio fanno del “loro” partito, quanto dal sistema elettorale proposto da Renzi.

Tuttavia nel nostro paese in questi ultimi anni sono in atto anche tendenze di segno diverso. La Rete, che ha avuto uno sviluppo improvviso e molto più rapido che in altri paesi, soprattutto a partire dal 2005, non è monopolio di Grillo. Da allora diversi movimenti auto-organizzati in rete – pur volatili – sono emersi sulla scena pubblica: il movimento viola, quello dei beni comuni, il movimento universitario e precario, il movimento femminile “se non ora quando” e il movimento generale di protesta contro Berlusconi del 2011, mentre si sono rafforzati vari movimenti di difesa territoriale contro l’inquinamento e le grandi opere. La Rete si è dimostrata un veicolo di discussione e organizzazione straordinario, ma forse ha contato soprattutto come simbolo di autonomia contro il duopolio televisivo-politico.

Il M5S ha in parte assorbito i simpatizzanti di questi movimenti e ne ha recuperato il voto, e ora la sua prima crisi in seguito alla delusione delle europee li lascia disponibili a nuove proposte politiche. Sappiamo che non sarà un cammino facile, proprio perché la tendenza dei movimenti on line è l’opposto di quella alla leaderizzazione: agitazioni potentissime come quelle di “occupy Wall Street” e degli “indignados” hanno rifiutato qualunque struttura organizzativa gerarchica e hanno inteso il primato della persona in modo opposto alla personalizzazione della politica. Tuttavia la politica tradizionale può sposarsi on line con i movimenti, come mostra l’esperienza del sito filo-Obama MoveOn.org, che non ha sviluppato semplicemente la propaganda in rete, ma è stato capace di mobilitare gli attivisti in carne ed ossa e di concorrere all’organizzazione di agitazione, propaganda e raccolta fondi sul territorio (Mosca e Vaccari, Nuovi media, nuova politica? Angeli 2011). Ma, nonostante le ragguardevoli somme raccolte e l’enorme quantità di persone raggiunte porta a porta, Obama, come si sa, ha avuto bisogno anche dell’appoggio del potere finanziario, a cui ha pagato lo scotto. Fatte le debite proporzioni, un soggetto politico che da noi voglia formarsi assemblando solo forze sociali e politiche democratiche, può solo sperare di costituire un presidio di resistenza contro l’avanzamento della democrazia populista. Presidio che sarebbe molto debole e si ridurrebbe all’opposizione extraparlamentare, se l’Italicum fosse approvato nella sua forma iniziale.

Ci si può consolare di questa debolezza immediata considerando alcune trasformazioni culturali che si sono prodotte negli ultimi anni, e che sono in parte conseguenza del declino del duopolio televisivo, della tv generalista e del suo palinsesto organizzato per fasce orarie. La pubblicità è sempre più invasiva su tutti i media proprio perché il palinsesto è sempre più difficile da organizzare attorno agli spot, in ragione della diffusione delle tv tematiche e a pagamento, nonché della fruizione via Internet. Ma ciò che è invasivo e fuori contesto è meno apprezzato e tollerato. Inoltre i giovani nel loro insieme sono sempre più insofferenti nei confronti della cultura televisiva, e meno disposti ad accettare supinamente il messaggio pubblicitario, come indicano diversi dati del rapporto Censis-Ucsi 2013 (cap. 7).

Dunque c’è una minore disponibilità all’imbonimento da parte di certe porzioni di giovani, certo i più dotati di risorse culturali e informatiche (mentre la tv era ed è l’unico appannaggio degli esclusi dalle altre risorse e oggi è progressivamente integrata da un uso “povero” di Facebook). La minor disponibilità all’imbonimento pubblicitario corrisponde probabilmente a una minor disponibilità all’imbonimento politico e antipolitico.