A passo spedito verso una scuola ben poco democratica

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di Maria Chiara Acciarini

 

«E tuttavia non c’è dubbio che in una democrazia, se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la Scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale».

L’affermazione di Piero Calamandrei mantiene tutta la sua verità e la sua forza e può costituire il punto di partenza per svolgere alcune sintetiche, e probabilmente incomplete, riflessioni sul ruolo che assumono i provvedimenti a cui il governo Renzi sta sottoponendo la scuola italiana – in particolare, la legge 107/2015 sulla “buona scuola” – nell’affannoso e abborracciato processo normativo che sta modificando, in profondità, i caratteri stessi della nostra democrazia. Per raggiungere quello che sembra essere uno degli obiettivi fondamentali dell’attuale esecutivo: la riduzione degli spazi di libertà, di solidarietà e di partecipazione nel nostro Paese. Perché, se la scuola è il primo e fondamentale servizio che lo Stato fornisce per l’istruzione dei cittadini, è lì, innanzitutto, che si modificano i rapporti di potere e di autorità all’interno della nostra società.

Il governo Renzi ha compiuto almeno tre scelte di particolare gravità nella direzione di una scuola autoritaria che non ha la finalità di essere “la scuola di tutti”. Esaminiamoli.

 

 “Un uomo solo al comando”: la dilatazione dei poteri del dirigente scolastico

«Il dirigente sceglie la sua squadra»: così trionfalmente annunciava, anche con scarso senso del ridicolo, il comunicato con cui il Governo informava di aver licenziato, con discreto ritardo rispetto alle slide illustrate “a reti unificate” dal Presidente del Consiglio, il provvedimento sulla scuola.

Sotto l’enfasi di stampo calcistico si celava l’intento di sferrare un vero e proprio attacco alla libertà d’insegnamento, alla democrazia e alla partecipazione nelle istituzioni educative attraverso un’abnorme dilatazione dei poteri del dirigente scolastico. Sulla base di un ragionamento inaccettabile – per potenziare l’autonomia potenziamo l’esercizio dell’autorità da parte dei presidi – il governo dichiarava così di condividere il disegno del centrodestra, che da anni cercava di inserire nella scuola la figura del preside manager e, contemporaneamente, di ridurre la funzione degli organi collegiali. In sostanza, Renzi e Giannini riproponevano le scelte del disegno di legge che nel 2012 Valentina Aprea, oggi assessore all’Istruzione e Formazione in Lombardia con la giunta Maroni, non era riuscita a condurre in porto, malgrado la connivenza degli esponenti del PD che ne avevano garantito l’approvazione in Commissione Istruzione della Camera dei Deputati “in sede legislativa”, senza neppure portarlo alla discussione in aula. Allora le mobilitazioni degli studenti e dei docenti erano riuscite a ottenere che fosse definitivamente accantonato nel suo passaggio al Senato.
Il percorso parlamentare ha confermato, purtroppo, nelle sue linee generali la scelta non solo conservatrice, ma anche tecnicamente errata del governo di centrosinistra. Il dirigente scolastico non può essere un manager per la semplice ragione che la scuola non è un’azienda. E, oltretutto, al suo interno mancano completamente i brutali, ma efficaci strumenti di valutazione dell’operato delle figure apicali che sono i risultati economici annuali. La scelta di sistemare un uomo solo al comando, dotato di poteri “forti”, si rivela così doppiamente rischiosa. Perché non ci sono – né ci possono essere – strumenti immediati per verificare la bontà – e la correttezza – delle scelte compiute dal dirigente scolastico. E perché, cosa ancora più importante, questi poteri mal si adattano alla scuola pubblica, laica e pluralista necessaria a una società complessa e multiculturale come la nostra. Una scuola dove convivono le differenze, dove esistono spazi di confronto per ipotesi culturali e religiose diverse; una scuola dove si cresce tutti insieme, nel reciproco rispetto e nella faticosa costruzione di valori condivisi. Ora, è giusto pensare a un rilancio dell’autonomia scolastica, è corretto immaginare modificazioni dell’organizzazione degli istituti, all’interno della quale le funzioni del preside devono essere opportunamente riconosciute. Ma, poiché esponenti del governo e della maggioranza ripetono senza stancarsi che la concentrazione dei poteri nelle mani dei dirigenti è il modo con cui si realizza finalmente l’autonomia, sarà bene invitarli a ricordare che autonomia non è sinonimo di autocrazia. Per diradare le nebbie dell’equivoco basterebbe avere presente l’etimologia della parola, che esprime per un soggetto la capacità di darsi da sé norme, regole. Più specificamente per gli enti pubblici, e anche nel caso delle istituzioni scolastiche, indica la capacità di autogovernarsi e la titolarità di poteri di delibera e d’intervento. È, quindi, necessario non diminuire, ma rafforzare le funzioni degli organi di istituto; non scoraggiare, ma favorire il massimo coinvolgimento dei lavoratori della scuola, dei genitori, degli studenti, nei processi decisionali della scuola dell’autonomia.

La maggioranza che sostiene il governo Renzi non ha voluto ascoltare e valutare le numerose osservazioni e critiche che sono giunte dai sindacati e dalle associazioni. Si è limitata a compiere alcuni ritocchi di facciata, ma nella sostanza il dirigente scolastico ha oggi una molteplicità di poteri, che sarà bene richiamare nelle linee generali:

  • definisce gli indirizzi per l’attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione del piano triennale dell’offerta formativa;
  • nomina il suo staff;
  • chiama direttamente il personale individuando i nuovi docenti che ritiene più adatti per realizzare i Piani dell’offerta formativa;
  • ha la parola finale sull’erogazione degli incentivi, che possono riguardare al massimo il 20% dei docenti in organico; non si deve dimenticare, quindi, che sulla base delle sue decisioni l’80% degli insegnanti sarà dichiarato tacitamente immeritevole.

È innegabile che il dirigente scolastico ha così assunto nei confronti dei docenti poteri tali da mettere in discussione la stessa libertà d’insegnamento sancita come principio generale e irrinunciabile dall’art. 33 della nostra Costituzione. E al mancato rispetto di questa libertà fondamentale si accompagna la mortificazione della collegialità e della condivisione delle decisioni, che sono, al contrario, strumenti indispensabili per fare sì che la scuola – all’interno di un quadro nazionale ben definito – possa individuare e raggiungere i propri obiettivi. La nostra rivista

L’idea dello studente “lavoratore a titolo gratuito” e la diminuzione del valore formativo della scuola

Renzi e Giannini sono intervenuti sui curricoli scolastici senza la preoccupazione di inserire le loro scelte in un piano organico. Si sono infatti limitati a prevedere l’inserimento di ore “aggiuntive” per qualche materia: arte, musica, lingue, educazione fisica; molto probabilmente perché le recenti assunzioni a tempo indeterminato hanno provocato un’eccedenza di docenti abilitati a insegnare queste discipline. Altro non è dato capire.

Alle “ore aggiuntive” si accompagna l’alternanza scuola lavoro: in dosi massicce per gli istituti tecnici e professionali (400 ore in un triennio), in dosi dimezzate (200 ore) per i licei.

Ciò che più interessa capire è se questa alternanza possa essere considerata, come sostiene l’attuale governo, un modo per combattere, al tempo stesso, la dispersione scolastica e la disoccupazione giovanile.

Sulla lotta alla dispersione scolastica sembra di poter sottoscrivere, senza esitazione alcuna, quanto ha efficacemente osservato Beppe Bagni, presidente del CIDI: «Quando senti dire che dobbiamo permettere presto il contatto con il mondo del lavoro perché c’è la dispersione scolastica stai attento: chi lo dice non vuole il lavoro come alternanza nella scuola ma come sua alternativa per chi è destinato a bocciare. Non ha in mente un’altra idea di scuola, che sappia finalmente interessare, appassionare, coinvolgere tutte le intelligenze, ma ripropone sempre la stessa, solo “a basso dosaggio” per chi la soffre».

Sul secondo punto si deve rilevare che, da quando la massiccia figura del ministro Poletti si è stagliata sull’orizzonte della scuola italiana, si è sentito ripetere sino alla noia che oggi i giovani «non conoscono il mondo del lavoro» durante gli anni di scuola e che pertanto bisogna farli lavorare, presto e in qualunque modo. Ovviamente gratis. Punto e basta. In realtà è il mondo del lavoro che nel nostro paese non conosce o meglio non riconosce il valore del sapere. In tal senso è assai interessante quanto emerge dall’articolo di Albano, Filandri, Parisi, che compare in questa rivista con il titolo «Crediamo ancora nell’istruzione pubblica? Uno studio di caso in Piemonte».

L’indagine – che riguarda, come ricorda il titolo la sola realtà piemontese, presumibilmente non una delle peggiori – dimostra che «i giovani diplomati – 4 su5- che hanno trovato un lavoro lo hanno trovato in lavori ripetitivi e scarsamente qualificati: mini-job, occasionali o stagionali, che non richiedono specifiche conoscenze e competenze . Lavorano, cioè, come baby-sitter, camerieri, animatori, hostess, promotori nei supermercati, addetti ai fast-food, allenatori e istruttore nelle palestre, figuranti nelle produzioni cinematografiche. I restanti giovani sono impegnati in lavori più definiti in qualità di operai, qualificati e non, impiegati, educatori, programmatori informatici, disegnatori tecnici. Il quadro diventa completo quando si ricorda la bassissima percentuale di persone con contratto a tempo indeterminato, e anche la bassa percentuale di giovani che dichiarano di usare “in maniera elevata” le competenze apprese.

È, d’altronde, abbastanza noto che le imprese italiane, fatte ovviamente le debite eccezioni, non puntano sull’innovazione rappresentata dai cervelli, che, non a caso, fuggono, ma piuttosto sull’appiattimento salariale e sull’assenza di diritti dei lavoratori. Scelte che sembrano fare da sfondo ad una visione dell’alternanza volta allo sfruttamento di una generica figura di “ lavoratore” non retribuito. Gli aspetti didattici risultano così totalmente sottovalutati. Lo dimostrano spesso, del resto, alcune esperienze già in corso: studenti incaricati di fare fotocopie, o addetti ad altri compiti ripetitivi, per tutta la durata dell’ esperienza.

L’alternanza scuola-lavoro, di cui non si disconosce l’importanza, deve, al contrario, fare capo al sistema d’istruzione, poter contare su risorse pubbliche certe e prevedere le figure – adeguatamente preparate – del “tutor” sia nella scuola sia nell’impresa. Se non si realizzano pienamente queste condizioni si rischia di organizzare un’esperienza priva di significato per gli studenti, o, peggio, di legittimare una forma di sfruttamento del lavoro minorile, che riguarda in modo particolare gli studenti degli istituti tecnici e professionali.

 

Un equivoco rapporto fra la scuola pubblica e la scuola paritaria

Per capire in quale direzione si stia andando basterebbe questa frase del ministro Giannini: «Dobbiamo pensare una scuola che sia organizzata dallo Stato o dall’iniziativa privata. Dobbiamo uscire dalla logica che ci siano gli amici delle famiglie contro gli amici dello Stato». Il corsivo, inserito da chi scrive, permette di mettere in risalto una parte della frase estremamente indicativa dell’atteggiamento governativo.

L’ auspicata dualità dell’intervento sull’istruzione ben si integra con la scelta della “buona scuola” in cui si compie un convinto e appassionato richiamo a investimenti privati, tale da far ipotizzare ad alcuni un futuro in cui si ricercherà di raggiungere l’autosostenibilità delle singole istituzioni pubbliche.

Del resto, lo Stato sembra intenzionato a ridurre progressivamente gli investimenti sulla scuola pubblica e a favorire il settore privato. I tagli hanno colpito, anche quest’anno, i finanziamenti alle istituzioni statali in misura ben maggiore rispetto a quelli subiti dai fondi destinate alle paritarie. Mentre mancano le risorse essenziali per mettere in sicurezza gli edifici scolastici e per pagare i supplenti, circa 700 milioni l’anno – 472 milioni di euro dallo Stato e circa 200 milioni da regioni e comuni – di denaro pubblico sono dirottati sulle scuole paritarie, nei confronti delle quali lo Stato sembra anche avere scelto di non esercitare i dovuti controlli. Infatti, pur con tutti i suoi limiti, la L.62/2000, prevede, tra l’altro, i seguenti requisiti indispensabili per ottenere la “paritarietà”:

  • la disponibilità di locali, arredi e attrezzature didattiche propri del tipo di scuola e conformi alle norme vigenti;
  • l’istituzione e il funzionamento degli organi collegiali improntati alla partecipazione democratica;
  • l’iscrizione alla scuola per tutti gli studenti i cui genitori ne facciano richiesta, purché in possesso di un titolo di studio valido per l’iscrizione alla classe che essi intendono frequentare;
  • l’applicazione delle norme vigenti in materia di inserimento di studenti con handicap o in condizioni di svantaggio;
  • l’organica costituzione di corsi completi: non può essere riconosciuta la parità a singole classi, tranne che in fase di istituzione di nuovi corsi completi, ad iniziare dalla prima classe;
  • personale docente fornito del titolo di abilitazione;
  • contratti individuali di lavoro per personale dirigente e insegnante che rispettino i contratti collettivi nazionali di settore.

Si tratta di caratteristiche che dovrebbero essere acquisite e conservate e la cui perdita dovrebbe comportare la revoca della qualifica di scuola paritaria. Risulta, purtroppo, che in molti casi ciò non avviene. Ad esempio, il rispetto dei contratti collettivi nazionali di settore da parte dei datori di lavoro non si può dire che sia garantito. Un’inchiesta compiuta da Michele Sasso per «L’Espresso» (19/1/2015) documenta lo sfruttamento sistematico compiuto nei confronti dei docenti: «Funziona così: per scalare la graduatoria nazionale devono accumulare punteggio con le ore di docenza, ma i professori a spasso sono così tanti che pur di mettere da parte ore utili sono disposti a salire in cattedra gratis». Si tratta di centinaia e centinaia di casi documentati e chi si ribella rischia il licenziamento. Come racconta una docente di Cagliari, che ha fatto una denuncia all’ispettorato del lavoro per essere stata malpagata per anni, si può essere allontanati con motivazioni paradossali: «Mancanza di fiducia a causa del mio comportamento». Il ministro Giannini, prima di auspicare che Stato e iniziativa privata si dividano equamente l’organizzazione della scuola, dovrebbe vigilare affinché l’arbitrio non regni sovrano in istituzioni a cui sono attribuite risorse e garantiti diritti.

Si può concludere che l’Italia sta andando in fretta, ma in una direzione sbagliata. Per il sistema d’istruzione non si può certo parlare di vere riforme. Le scelte che sono spacciate come segnali dell’innovazione rappresentano invece o un pericoloso ritorno al passato – il dirigente scolastico con poteri eccessivi, la precoce divisione fra coloro che dovranno andare a lavorare all’uscita della scuola secondaria e coloro che sono destinati ad accedere ai più alti gradi degli studi – o il permanere di italiche consuetudini – uno scorretto rapporto fra scuola e mondo del lavoro e il mancato controllo dello Stato sul rispetto delle norme da parte delle scuole paritarie.