L’ordine mondiale secondo Henry Kissinger

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di Mario Vadacchino

 

L’attuale stato dell’ordine mondiale non sarebbe quello che è senza Henry Kissinger, che è stato dal 1969 al 1977 addetto alla sicurezza nazionale e Segretario di Stato dei presidenti americani Nixon e Ford. Anche quando è uscito dalla politica attiva,

Kissinger ha continuato a influenzare la politica estera americana; avendola studiata teoricamente e praticata per più di sessanta anni, sicuramente ne conosce in profondità i paradigmi e le motivazioni che sono ancora quelle formulate da Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson. Hillary Clinton ricorda che Kissinger le inviava note informative e relazioni dopo ogni suo viaggio all’estero e questo è accaduto a tutti i Segretari di Stato degli ultimi anni. A lui si devono alcune delle più importanti operazioni di politica internazionale compiute dagli Usa negli anni ‘70 come il riconoscimento della Cina e la conclusione della pace in Vietnam, che gli valse anche un premio Nobel per la pace nel 1973. Da duro e cinico realista, Kissinger è stato responsabile dei colpi di stato in Cile e in Argentina, che portarono al potere sanguinose dittature militari; Barack Obama, durante il recente viaggio in Argentina ha visitato il monumento alle vittime della dittatura del generale Videla, come atto di contrizione per questa partecipazione. Kissinger ebbe un’importante influenza anche sulla politica interna italiana; si oppose fortemente alla politica di partecipazione del PCI al governo prevista dal “compromesso storico” tra Berlinguer a Moro. Nel settembre del 1974 durante una visita negli Stati Uniti, ebbe un duro scontro con Aldo Moro  che, con la scusa di un malore, anticipò il suo rientro in Italia; il “compromesso storico” fu, in conclusione, definitivamente archiviato.

In un suo recente libro intitolato L’ordine mondiale[1] Kissinger descrive a grandi linee l’evoluzione delle relazioni internazionali nel corso della storia, analizza la situazione attuale e indica le prospettive future. Sin dall’introduzione Kissinger deve ammettere che non esiste oggi alcun accordo su che cosa si debba intendere per ordine mondiale, accordo che non è mai esistito neanche in passato; esistono infatti varie regioni del mondo come l’Asia o il Medio Oriente nelle quali questo concetto non si è mai storicamente sviluppato. Questo disaccordo rende Kissinger pessimista sul futuro del mondo; egli offre una descrizione ricca e per molti aspetti affascinante delle difficoltà che oggi affliggono il sistema delle relazioni internazionali, ma la patologia resta indefinita e la cura proposta è piuttosto vaga.

Il libro contiene analisi storiche, ricordi personali e commenti sui fatti contemporanei, ma la parte che qui analizzeremo riguarda la politica estera americana, dalle sue formulazioni teoriche alle sue applicazioni pratiche; questo per il ruolo dell’autore e perché la politica estera americana ha avuto ed ha tuttora un peso preponderante nel definire lo stato dell’ordine mondiale. È stata infatti la crisi di natura strategica della visione americana del mondo che ha contribuito a creare quello che oggi appare essere un  disordine mondiale.

Durante la storia dell’umanità sono state sviluppate diverse modalità di organizzazione delle relazioni tra i popoli, tutte provvisorie e parziali; quella che secondo Kissinger ha funzionato meglio è quella creata nel 1648 dalla cosiddetta pace di Westfalia. Dirigenze di popoli resi esausti da decenni di guerre spaventose, culminate in quella dei Trenta Anni, furono obbligati dall’istinto di sopravvivenza a trattare. Si fece di tutto per evitare che gli odi e le suscettività reciproche potessero impedire lo svolgimento delle trattative: gli incontri si tennero in due città diverse per evitare che delegazioni particolarmente ostili tra di loro dovessero sedersi allo stesso tavolo e le sale di riunione avevano molte porte per permettere a tutte le delegazioni di non essere le seconde ad entrare.

La pace di Westfalia, che stabilì le regole dell’ordine mondiale, riguardò l’Europa e rimase sconosciuta al resto del mondo. Essa stabiliva un ordine mondiale basato sull’esistenza di stati sovrani in confini ben definiti, che non interferissero negli affari interni degli altri stati, rispettandone la struttura interna, i comportamenti, la fede religiosa, che fossero sostenitori del diritto internazionale ed avessero dimensioni tali da poter garantire un equilibrio dei poteri. Lo stato che, avendo assunto il monopolio della forza al suo interno, aveva mostrato di saper ridurre la violenza tra i cittadini, poteva facilitare anche il raggiungimento della sicurezza al suo esterno e la pace tra gli stati.

Il trattato di Westfalia conteneva solo regole procedurali, neutrali rispetto ai valori; aveva un fondamento esclusivamente pragmatico ed era in sostanza amorale. Una pace relativamente stabile fu garantita fino alla fine del  settecento, quando la Francia rivoluzionaria tentò di imporre alle monarchie europee una forma di governo repubblicano; utilizzando l’espressione adoperata spesso dagli americani per giustificare le loro imprese militari, si può dire che i francesi tentarono di esportare la democrazia. La pace westfaliana venne ripristinata dal congresso di Vienna e durò fino allo scoppio della prima guerra mondiale. L’esperienza storica ha dimostrato che per la pace westfaliana è essenziale l’equilibrio dei poteri: quando è stato trascurato si sono avute, secondo Kissinger, instabilità che hanno condotto alla guerra. Il congresso di Vienna, che ristrutturò l’Europa dopo le guerre napoleoniche, si preoccupò di costruire stati che potessero fronteggiare la Francia. La pace di Versailles invece, che doveva limitare le pretese espansionistiche della Germania, accolse le illusioni nazionalistiche dei popoli liberati dal crollo dell’impero austro-ungarico e russo; si crearono ad oriente della Germania stati deboli, facilitando così lo scoppio della seconda guerra mondiale; anche oggi in questa regione, come peraltro in quella dove governò l’impero ottomano, sono localizzate le crisi peggiori.

Thomas Jefferson sostenne al momento della loro nascita, che gli Stati Uniti avrebbero dovuto agire in difesa dei principi del buon governo e quindi che la loro espansione ed il successo dei loro sforzi coincidevano con gli interessi dell’umanità. In realtà, secondo Kissinger, la politica estera americana ha sofferto sin da quando gli Stati Uniti si affacciarono allo scenario mondiale all’inizio del XX secolo, di un’ambiguità strategica fondamentale, che i problemi posti dall’evoluzione storica dei paesi del mondo più lontani dalla storia occidentale rendono oggi evidente e quasi insolubile. I due aspetti contraddittori e  inconciliabili di questa ambiguità sono la difesa degli interessi nazionali americani da un lato e la promozioni attiva di quelli che gli americani pensano siano gli interessi dell’umanità dall’altro. Essi sono stati personificati dai due primi  presidenti del XX secolo: Theodore Roosevelt  e Woodrow Wilson.

Con Theodore Roosevelt, gli Stati Uniti affermano un loro ruolo attivo nel mondo, abbandonando la tesi che la neutralità e l’intento pacifico fossero sufficienti a servire la pace e a conservare l’ordine e sostenendo anzi il ruolo delle armi nel gestire e conservare l’ordine mondiale, ma soprattutto nel difendere gli interessi nazionali.  Con Roosevelt gli Stati Uniti affermano anche il loro diritto a intervenire negli affari interni di ogni paese per porre rimedio a casi, a loro parere, di comportamento illecito o di incapacità: gli Stati Uniti dovevano essere il gendarme del mondo.

Wilson, eletto presidente nel 1912 con appena il 42% dei voti popolari, come ricorda Kissinger, esprime una filosofia della politica estera americana totalmente diversa. Egli è sostenitore di un “universalismo morale”; afferma che la missione degli americani è quella di introdurre nel mondo una pace basata sui principi della democrazia come è praticata, si intende, negli Stati Uniti. Secondo Kissinger questo è stato, con minime variazioni e fino ai giorni nostri, il programma americano per l’ordine mondiale. L’azione sostenuta da principi morali è naturalmente contraria alla pace westfaliana e rende difficoltosa ogni ricerca degli equilibri di potere. Di fatto questa doppiezza delle motivazioni nel gestire gli affari internazionali ha fornito agli americani molte giustificazioni per intervenire spesso negli affari di altri paesi.

Il limite insito nell’ambiguità strategica della politica estera americana non venne alla luce fino a che gli Stati Uniti riuscirono ad imporsi, ma quando le guerre non furono più vinte, esso divenne evidente. La conclusione della guerra in Corea, nella quale gli americani per la prima volta furono costretti a rinunciare a una vittoria piena, pose in rilievo per la prima volta questo limite. La guerra di Corea rivelò un potenziale punto vulnerabile dell’America nella sua capacità di connettere la strategia alla diplomazia, la potenza alla legittimità e di definire i suoi obbiettivi essenziali[2]. Fu la guerra in Vietnam, con la sua durezza, i massacri di civili e la sconfitta finale, a suscitare un dibattito nella società americana che, secondo Kissinger, lasciò il segno più profondo nella storia americana[3]. Kissinger era allora consigliere per la sicurezza nazionale e deve oggi ammettere che l’America aveva perso la sua prima guerra e anche il filo conduttore della sua concezione dell’ordine mondiale[4]. Dopo più di quaranta anni dalla fine della guerra in Vietnam, anche le nuove guerre in cui si sono impegnati gli Stati Uniti, quella in Afghanistan, quella in Iraq, che fu approvata da Kissinger e da Hillary Clinton e anche quella in Libia, si sono concluse con un ritiro. Kissinger, analizzando questi fallimenti osserva: Gli storici probabilmente concluderanno che essi dipesero dall’incapacità di risolvere un’ambivalenza tra forza e diplomazia, tra realismo e idealismo, tra potere e legittimità, che attraversava l’intera società[5].

Queste difficoltà sono apparse evidenti nel comportamento esitante e incoerente di Obama di fronte alle primavere arabe e all’evoluzione della situazione in Medio Oriente. Emblematico è il caso della Siria; prima sono stati sostenuti i ribelli siriani contrari ad Assad, ma senza entrare direttamente in campo come invece proponeva Hillary Clinton; poi, quando la situazione è entrata in fase di stallo, si è aperta la porta all’intervento della Russia. Obama ha dichiarato recentemente che considera l’intervento in Libia il peggior errore della sua presidenza. Se si tiene conto inoltre che l’idealismo democratico americano ha reso particolarmente diffidente l’Arabia Saudita, si capisce perché molti osservatori sostengano che gli Stati Uniti hanno perso il loro ruolo egemone nel Medio Oriente.

La regione del mondo con il massimo disordine internazionale è oggi il Medio Oriente, dove la sfida all’ordine mondiale è più rilevante. L’ideologia dominante in quella regione riconosce la sovranità statuale solo agli stati governati secondo le regole dell’islam, addirittura seconda le regole di una particolare corrente dell’islam; tutte le correnti sono però  d’accordo nel tentare di rovesciare l’ordine mondiale esistente. Osserva Kissinger che lo scontro in Medio Oriente, con il sovrapporsi di motivazioni religiose, di potere personale e dinastico e di orgoglio nazionale, è molto simile a quello sviluppatosi in Europa durante la guerra dei Trenta Anni. La cinica previsione di Kissinger è che oggi in Medio Oriente, come nel ‘600 in Europa, l’esaurirsi delle risorse umane e materiali possa portare i contendenti ad un trattativa; ma difficilmente la pace sarà analoga a quella raggiunta in Europa nel 1648. In questo scenario Kissinger attribuisce all’Iran un ruolo importante nel tentativo di stabilizzare la regione.

Secondo Kissinger l’Iran è il paese con il quale gli Stati Uniti devono cercare di collaborare; un intero capitolo dei nove contenuti nel libro è dedicato proprio ai rapporti tra Stati Uniti e Iran. Kissinger ha stima per un paese che è riuscito a conservare per tremila anni, in un ambiente sovente ostile, un’identità nazionale ben definita ed è oggi uno stato con una sovranità stabile, che possiede una classe  dirigente preparata, una burocrazia efficiente, una diplomazia esperta e di antiche tradizioni ed è riuscito a resistere ad un embargo durissimo. Quando ha scritto il libro, l’accordo sul nucleare non era ancora stato firmato, ma Kissinger ne suggerisce i termini, che sono poi in linea di massima quelli effettivamente concordati. La situazione in Medio Oriente può migliorare e gli Stati Uniti possono riassumere un ruolo se in quella zona si raggiunge un equilibrio di potere tra sciti e sunniti e l’Iran è in grado di facilitare questo disegno.

Kissinger resta un sostenitore dell’ordine mondiale quale stabilito dalle regole westfaliane, ma riconosce che esse hanno oggi difficoltà a funzionare, perché interessano solo come ripartire e mantenere il potere, ma non come generare legittimità. Alcune importanti regioni del mondo, hanno sviluppato una concezione dei rapporti internazionali diversa da quella westfaliana, e con esse sarà necessario trovare una modalità di coesistenza; non sarà un compito facile e immediato. D’altro canto Kissinger, che non ha ricette per risolvere questo problema, osserva che le condizioni disperate che nel 1648 imposero ai governanti di trovare un accordo, difficilmente potranno essere presenti oggi: gli arsenali nucleari imporranno sempre un limite alle parti belligeranti.

Molti osservatori hanno fatto notare come l’applicazione delle regole westfaliane, suggerita da Kissinger sia oggi improponibile per motivi profondi e difficilmente superabili e merita citarne almeno uno. Lo stato sovrano, che sta alla base della pace di Westfalia, fonda la propria autorità su un territorio delimitato da confini ben definiti, entro i quali esercita un potere la cui legittimità è riconosciuta da tutti gli altri stati. Oggi per molte attività umane e per gli stessi uomini i confini, talvolta neanche universalmente riconosciuti, sono poco più che linee sulle carte geografiche: i capitali si muovono liberamente da un continente all’altro come anche le informazioni e si tratta di spostamenti pressoché istantanei.

Nell’ultimo capitolo si analizza l’influenza delle tecnologie informatiche sulle attività diplomatiche. Kissinger pone in rilievo la difficoltà che deve affrontare oggi il lavoro dei ministri degli esteri e dei diplomatici, stretti tra le notizie che arrivano a loro e all’opinione pubblica in tempo reale e la necessità di prendere decisioni che sovente risultano affrettate; i tempi richiesti per agire si sono drasticamente ridotti e questo produce una tendenza alla instabilità del sistema.

Kissinger crede fermamente che un ordine mondiale sia possibile solo in presenza di entità statali solide e riconosciute: da questo punto di vista considera critica la situazione dell’Europa, nella quale gli stati hanno perso la loro individualità, senza essere riusciti a raggiungerne una nuova di livello superiore.

Kissinger riconosce lo stato di disordine delle attuali relazioni internazionali e anche, pur con qualche ambiguità, le responsabilità americane. Per questo crede che un contributo importante perché sia stabilito un qualche ordine mondiale possa essere dato dall’accettazione da parte del popolo americano dell’esistenza di altri mondi, le cui idee di società e di vita sono diverse dalle loro e che il potere di modificarle è limitato: i valori nei quali credono gli americani possono essere diffusi solo con la convinzione e l’esempio e non con le armi. Questa osservazione coincide con quella di Obama, che afferma che gli Stati Uniti non possono pensare di poter governare il mondo da soli. Kissinger non apprezza particolarmente Obama: dice che è stato eletto con una “strategia di uscita” dalla guerra in Iraq, dove l’accento era più sull’uscita che sulla strategia.

Oltre alle forme concrete nelle quali si realizza un ordine mondiale, esistono, secondo Kissinger, alcune regole generali nelle relazioni internazionali che vanno rispettate affinché non prevalga in caos. La vitalità di un ordine internazionale si riflette nell’equilibrio che instaura tra legittimità e potere e nell’enfasi relativa attribuita a ciascuno dei due termini[6]. Un equilibrio corretto tra questi due termini fa sì che gli inevitabili cambiamenti abbiano il carattere di una evoluzione; se invece l’equilibrio viene distrutto allora sparisce ogni limitazione e si va verso lo scontro e la guerra. D’altro canto i leader politici devono tenere conto che La tradizione conta, perché non è dato alle società di procedere nella storia come se non avessero un passato e come se qualunque linea d’azione fosse loro accessibile. Esse possono deviare dalla precedente traiettoria soltanto entro un margine limitato[7]Secondo Kissinger: I grandi statisti operano sul limite esterno di tale margine. Se non gli si avvicinano a sufficienza, la società ristagna. Se lo superano, perdono la capacità di plasmare la posterità.

Come ha osservato un analista, sono poche le persone al mondo che possono permettersi di dare il titolo Ordine Mondiale a un loro libro: certamente Kissinger è una di queste. L’analisi dei problemi della politica estera americana è molto efficace e  alcuni candidati alla Casa Bianca si sono sentiti in dovere di commentarla, mostrando l’influenza che il Segretario di Stato di due presidenti continua ad avere sulla scena politica americana. Kissinger, che ha avuto molto dalla vita e che non ha più bisogno di chiedere nulla a nessuno, può permettersi anche qualche giudizio quasi provocatorio, quando loda la politica estera di Bush figlio, con espressioni che possono apparire addirittura ridicole. Bush figlio resterà nella storia come colui che coniò, per  il fallimentare intervento in Iraq, il motto “Enduring Freedom”.

La politica estera del nuovo presidente degli Stati Uniti appare ancora dominata dal carattere puramente elettorale di molte sue proposte e bisogna attendere per capire quali saranno le linee effettive con cui affronterà i problemi della situazione internazionale. Sicuramente la proposta di un nuovo atteggiamento nei confronti della Russia, potrebbe essere la vera svolta rispetto alla politica di Obama; essa rientra certamente nella visione westfaliana delle relazioni internazionali, secondo le indicazioni di Kissinger. Solo il non intervento nella politica interna degli altri stati e il rispetto della loro autorevolezza, con il riconoscimento delle loro sfere di influenza, possono garantire una pace stabile.

 

 

 

[1] H. Kissinger, L’ordine mondiale, Mondadori, 2015. È la traduzione fatta da Tullio Convillo di World Order, Penguin Random House, 2014.

[2] H. Kissinger, op.cit., pag. 292.

[3] H. Kissinger, op.cit., pag. 296.

[4] H. Kissinger, op.cit., pag. 300.

[5] H. Kissinger, op.cit., pag. 277.

[6] H. Kissinger, op.cit., pag. 67.

[7] H. Kissinger, op.cit., pag. 254.