Quando gli spiriti animali sfuggono a ogni controllo

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di Alfio Mastropaolo 

Quando gli spiriti animali sfuggono a ogni controllo*

Gli economisti sono l’oracolo del nostro tempo. Mettono a tacere ogni controversia con l’autorevolezza delle cose incerte che scrivono. Salvatore Biasco è tra le poche e pregiate eccezioni: uno di quegli economisti che svolgono ancora la parte degli scienziati sociali.

Lungi dallo spacciarsi come depositario di una qualche indiscutibile verità scientifica, addobbata di formule matematiche, Biasco scruta gli eventi, conscio della loro opacità e dei limiti d’ogni osservatore. Umiltà e pazienza sono elementi costitutivi della sua postura intellettuale, che implica confronto, approfondimento e ripensamenti. Lo prova questo libro, che è riscrittura radicale – non è da tutti – di un altro, apparso pochi anni or sono.

Il libro offre un meticoloso inventario dei problemi con cui si misurano le democrazie avanzate, orfane da tempo del cosiddetto compromesso keynesiano-socialdemocratico. Il quale è caduto vittima, per Biasco, negli anni ‘70 di una doppia micidiale partita di potere: una interna, tra mondo del lavoro, capitale, Stato; una esterna, condotta contro le suddette democrazie dai paesi produttori di petrolio. Per dirla in termini molto semplificati la prima partita di potere avrebbe avuto bisogno di una torta più grande. Che la seconda partita, e l’esaurimento del boom postbellico, stavano restringendo.

A seguito di aspri conflitti, il boom aveva reso possibili misure politiche redistributive. Avanzare richieste indisciplinate – dalla politica – di simili misure con una torta più piccola ha condotto sulle secche della stagflazione. Suscitando una replica articolata del mondo imprenditoriale che ha messo la politica alle corde. E non solo essa. Con una ricetta molto semplice: viste le difficoltà del momento, i ricchi si sono difesi aggrappandosi alla loro ricchezza e rendendo più povero il mondo attorno a sé. L’hanno fatto con tanto zelo, con tanta abilità e grazie a una assoluta mancanza di contrasto da parte dei poveri, o dei loro rappresentanti, che il differenziale tra essi e i poveri è diventato talmente smisurato da mettere a repentaglio la loro stessa ricchezza.

Negli anni ’70 le condizioni politiche e sociali erano divenute inagibili per una replica di stampo fascista e il capitalismo apprestò una strategia più complessa, cui contribuirono gli addetti al mercato, i partiti moderati e conservatori e quella corrente intellettuale che identifichiamo come neoliberismo. Biasco attribuisce a quest’ultimo un ruolo decisivo. Nel momento in cui le medicine keynesiane si rivelavano inadeguate – ma c’è chi sostiene che non furono applicate con la necessaria determinazione – il neoliberismo fornì una ricetta, rianimò gli addetti al mercato, riconvertì i partiti di centrodestra, nel dopoguerra allineatisi al keynesismo, e impose la sua egemonia, anche a gran parte della specie degli economisti, compensati con la promozione a esperti assoluti della vita in società.

I problemi, spiega Biasco, c’erano, inutile negarlo. La crescita era bloccata, con danni generalizzati. Il neoliberismo ha applicato una ricetta – quella di scaricare i costi sul mondo del lavoro e sui risparmiatori – che alla vigilia della rivoluzione conservatrice di Reagan e Thatcher era apparsa ad Habermas politicamente irrealizzabile. Le ragioni per cui è stato possibile applicarla sono ancora da studiare. Di sicuro il mondo imprenditoriale e le sue rappresentanze politiche hanno molto abilmente adoperato gli spazi di manovra offerti dalle istituzioni democratiche e dai nuovi dispositivi mediatici. Sta di fatto che quasi mezzo secolo dopo, la medicina neoliberale sta producendo gravissimi danni collaterali. A perderci, notoriamente, sono pure la politica, lo Stato, la sinistra, ogni uomo della strada che sia privo di protezioni politiche e la stessa coesione sociale.

Tra i tanti pregi del libro di Biasco sta quello di dosare con parsimonia la parola democrazia. O, meglio, di aggettivarla. La democrazia è una tecnica d’esercizio del potere, più soft di altre. Punta al consenso dei governati, anziché reprimerli. Ma non è cancellazione del potere, né la sua sostituzione con un po’ di diritti, che sono calpestabili senza troppi danni. Può benissimo aversi, ahinoi, democrazia senza giustizia e senza uguaglianza. Si può perfino dirsi democratici quando un italiano su quattro rischia la povertà. Onde evitare fraintendimenti, Biasco nel delineare un orizzonte normativo usa termini meno generici: giustizia e uguaglianza, per l’appunto.

Al capitalismo Biasco non fa sconti. Lo chiama «tirannico». Tirannici sono gli spiriti animali del mercato. Da essi, sosteneva Karl Polanyi, occorre proteggere la società. Biasco rigorosamente si attiene a questo illustre programma. Rivitalizzato dalla dottrina neoliberale, l’utilitarismo animalesco del capitalismo ha riplasmato gli esseri umani, in occidente e in giro per il pianeta. Il problema è come disintossicarli e come addirittura salvare la società. L’invenzione socialdemocratico-keynesiana fu quella di opporre agli spiriti animali la forza della politica. Sorretta dai grandi partiti di massa, la politica immise nelle partite di potere giocate nel dopoguerra l’azione collettiva, estorcendo al capitalismo una modica quantità di giustizia sociale.

Senonché, dopo aver funzionato per trent’anni, i partiti, di sinistra, rinnegarono l’energia dell’azione collettiva. Curiosamente, si consumarono sull’onda della straordinaria mobilitazione collettiva avviata nel ’68, la quale privilegiava giustizia e uguaglianza. Come mai? La risposta di Biasco è convincente. La sinistra divenuta «di governo» era divenuta incapace di incanalare quella mobilitazione, per difetto d’idee e capacità politica. Potremmo supporre anche per convenienza. Giunta alfine ai piani alti del potere, si è dedicata a godersene i profitti.

In realtà, è possibile offrire un’altra spiegazione, di ordine, strutturale. Pure la politica ha i suoi micidiali spiriti animali, che la rendono opportunista. Le politiche che i politici adottano sono finalizzate anzitutto al consenso elettorale. A tal fine i partiti di massa hanno svolto per lungo tempo imponenti servizi di rappresentanza e manutenzione dell’elettorato. Finché, divenuti partiti di governo, non hanno deciso di risparmiare nell’erogazione di tali servizi essendosi convinti che il consenso si poteva ottenerlo a costi più bassi, disattivando le macchine di partito e il loro potenziale di mobilitazione e manipolando invece gli elettori tramite i media. Lo Stato e i capitalisti – quest’ultimo si chiama lobbismo – avrebbero assicurato loro le risorse necessarie per riprodursi elettoralmente. Esauditi così i loro spiriti animali, i partiti si sono privati della risorsa con cui tenevano a bada gli spiriti animali del capitalismo, cui si sono consegnati, subendone l’offensiva culturale e politica. La fine è nota. Il baricentro del potere sta oggidì nei mercati.

Il libro di Biasco ha il raro pregio di una postura propositiva. Dove si spiega che il neoliberismo ha tratto sì le società avanzate dalle secche della stagflazione per condurle in un labirinto di decadimento, ma che l’uscita da questo labirinto non è né facile, né immediata. Lo Stato si è impoverito e indebolito. La finanziarizzazione e la globalizzazione hanno reso l’economia inafferrabile. Le nuove istituzioni di governo sovranazionali, in primis l’Unione europea, sono sottratte all’opportunismo elettorale dei partiti, ma sono spietatamente autoreferenziali. Per convenienza i partiti main stream si acconciano a un’azione di servizio nei confronti delle classi superiori. Ove non bastasse, il loro fallimento, e il disagio sociale che gli sta attorno, favoriscono la ricomparsa dei demoni dell’estremismo di destra, che ha assunto lui le difese del popolo.

La mossa politica suggerita da Biasco è di riscoprire i partiti: veri partiti, che suscitino e canalizzino energie collettive, e non agenzie di marketing elettorale. L’idea è condivisibile. Ma l’impresa è realizzabile? È possibile emancipare i partiti dagli spiriti animali che li imprigionano? La congiuntura è avversa. I partiti sono delegittimati e una parte degli elettori, che si sentono vittime delle politiche neoliberali, reagisce alla disperazione assoggettandosi al fascino avventuroso del cosiddetto populismo. Forse i partiti main stream non hanno neppure più il know how per mobilitare: preferiscono i trucchi, come i premi di maggioranza, o gli specchietti per le allodole, come le primarie. Che non li hanno resi certo più apprezzati.

Oltre ai partiti, serve, dice Biasco, un nuovo discorso davvero riformatore, che sappia divenire egemone, che rinverdisca la gloriosa tradizione della socialdemocrazia. Da condurre su scala europea, sfuggendo alla ricetta tanto facile, quanto rischiosa della fuoruscita dall’euro. Bisogna escogitare raffinate misure fiscali, che eludano i vincoli posti dalla globalizzazione e che non siano utilizzabili per fare bassa propaganda elettorale. Il welfare va rivisto per evitare gli sprechi che ne hanno contrassegnato la stagione aurea (e che tuttora sono un gran favore anche per i capitalisti!). Su questi temi il libro parla agli eredi, invero deludenti, della tradizione socialdemocratica, alla nuova sinistra, ma pure ai capitalisti.

Non sopravalutiamo la capacità degli esseri umani di ribellarsi. L’ingiustizia suscita malessere, risentimento, anomia, ma gli esseri umani, che pure non sono sottomessi per natura, esitano a ribellarsi, specie collettivamente. Resistono individualmente, si arrangiano, eludono, evadono, negoziano come possono e magari si beffano di chi esercita il potere. Possono perfino protestare. Ma la soglia oltre cui la protesta collettiva morde è piuttosto alta. È difficile stabilire in astratto quale sia il punto di rottura. Le rivolte esplodono solo quando qualche impresa politica, partito, movimento, organizza anche embrionalmente il malessere e disegna un futuro possibile. Non è così facile. Al momento si sente qualche squillo: Sanders, Corbyn, Podemos, Syriza, la sinistra portoghese. Tra le pieghe del mondo covano molte novità inaspettate.

Purtroppo, gli spiriti animali della politica remano contro. Si consenta un esempio. Tanto i conservatori quanto i laburisti, tolto qualche esagitato demagogo, sanno che il Brexit è un disastro; sanno che l’esito del referendum testimonia più il rifiuto delle politiche condotte finora che non una vera bocciatura dell’Europa; sanno che i rischi di smembramento del Regno Unito sono alti, che difficilmente i lavoratori ci guadagneranno, che il rischio di soggezione all’America trumpista non è secondario. L’opportunismo elettorale, il timore che qualcuno ne faccia una bandiera politica, li induce non solo a non smentire il referendum, ma nemmeno a concedersi una pausa di ripensamento. Così corrono a tutto vapore verso la catastrofe.  Ovviamente l’Europa non è d’aiuto, perché le dirigenze politiche di ogni paese fanno anch’esse i loro calcoli elettorali. Mostrarsi generosi, verso gli inglesi, o verso gli immigrati, non pagherebbe. È un blocco della politica. La cui unica alternativa è l’avventurismo.

È forse una fortuna che al momento qualche rischio, piuttosto grave, lo corrano pure i ricchi e i potenti. Intanto, è chiaro che i meccanismi elettorali non sono pienamente controllabili. Non bastasse il Brexit, lo conferma il successo di Trump. Il quale rappresenta i ricchi e i potenti molto più di quanto non rappresenti i left behind bianchi del Midwest. Ma ricchi e potenti sanno bene che l’uomo è pericoloso e imprevedibile. Per questo non lo volevano. Wall Street festeggia gli sgravi fiscali che ha promesso, ma il suo avventurismo suscita molti timori. I regimi – il neoliberismo costituisce un regime politico-economico – possono anche crollare non perché le vittime si ribellano, ma perché il potere implode, avendo desertificato il mondo attorno a sé.

Lo dimostra il caso dell’Urss. Riportando la società allo stato di natura, da esso sono fuoruscite forze che l’hanno di nuovo spietatamente sottomessa. Forse siamo in una situazione simile. Le classi dominanti di questi tempi dovrebbero intendere che la loro avidità rischia di distruggerle. Dopotutto, Roosevelt e Keynes non erano dei socialisti e neanche dei socialdemocratici. Erano dei liberali, che avevano capito che, a furia di bastonarlo, l’asino non si ribella, ma muore. E un asino morto non conviene ai padroni dell’asino. Il libro di Biasco, spiega che in fin dei conti un po’ più di giustizia e di uguaglianza conviene a tutti.

*Questo testo riprende una recensione apparsa nel numero di febbraio de L’Indice dei libri