Perché studiare il latino e il greco?

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di Antonio Gramsci

 

Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.

Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.

Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.

Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare.

Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico [oggi meno vero, o è vero in un senso diverso]: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.

Ecco perché molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.

[Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55]

 

 

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Gramsci, la scuola e gli intellettuali all’epoca dei social network

F.R.

 

Vogliamo qui mostrare brevemente che la concezione gramsciana della scuola, nonché della formazione del cittadino e degli intellettuali è all’altezza delle analisi che i teorici dei media hanno fatto del rapporto tra i media e l’educazione e tra i media e la trasformazione delle capacità cognitive e intellettuali nel mondo moderno.

Egli in sostanza in queste pagine propone due obiettivi alla scuola democratica e alla strategia educativa del partito:

  • sviluppare nel proletario, e nell’uomo comune, una conoscenza e una comprensione generale dei problemi della società e quindi la capacità di sorvegliare i governanti,
  • formare “un nuovo corpo di intellettuali”, estraneo al potere capitalistico, capace di governare lo Stato e di indirizzare la trasformazione della società.

Per quanto questi obiettivi siano distinti, nella sua visione appaiono entrambi come condizioni di un’effettiva democrazia. Ma per la loro realizzazione è necessario passare attraverso una formazione comune di base: una scuola primaria e secondaria uguali per tutti, che sviluppino la conoscenza generale della società e della cultura e che non siano, per i meno abbienti, un semplice avviamento alla professione, ma una scuola di cittadinanza. Tuttavia già in esse sono poste le basi di quella disciplina psico-fisica, di quella “coazione” (il termine richiama oggettivamente un concetto freudiano) necessaria sia al futuro intellettuale di mestiere, sia all’uomo comune che possa aspirare a diventare cittadino cosciente, preparato e informato. A questo servono greco e latino – o altri equivalenti funzionali che implichino disciplina, rigore logico e collegamento con la grande tradizione.

L’intellettuale organico, che Gramsci vuole formare per costruire una democrazia di tipo nuovo, è una variante dell’intellettuale moderno, uscito da quell’insieme di trasformazioni culturali e mediali che sono state chiamate rivoluzione scientifica e rivoluzione tipografica. Elizabeth Eisenstein ha chiamato rivoluzione inavvertita l’avvento della cultura fondata sul libro stampato come prodotto seriale. L’intellettuale moderno non è più un erudito, un cultore di una tradizione scritta relativamente scarsa, dispersa, tramandata in modo incerto e non uniforme, che doveva aiutarsi in qualche modo con la sua intuizione di fronte a testi lacunosi e appoggiarsi anche all’interpretazione orale dei suoi maestri diretti. L’intellettuale moderno, in un regime di libri abbondanti e a buon mercato e di copie stampate in modo omogeneo, è autonomo dai maestri e dalla tradizione. Il paradigma è quello della Bibbia di Gutenberg e poi di quella di Lutero, accessibili direttamente ai fedeli senza la mediazione della Chiesa. Ma inoltre i nuovi libri possono contenere cartine, illustrazioni, grafici: tutto un apparato che favorisce il passaggio dal mondo del perlopiù al mondo della precisione. Se l’intellettuale premoderno aveva appreso anche lui a studiare attraverso la disciplina psicofisica di cui parla Gramsci, quello moderno ha, contemporaneamente, sviluppato un’indisciplina spirituale, un’autonomia nei confronti della mediazione dell’autorità e della tradizione.

Il valore formativo del greco e del latino non è semplicemente un’idea umanistica e crociana. Per esempio un fisico e storico della scienza come Lucio Russo crede nel valore dello studio del latino e della traduzione, abbinata alla conoscenza del metodo dimostrativo, per la formazione di un intelletto rigoroso. Nel suo Segmenti e bastoncini, Russo critica la cultura di tipo televisivo, centrata sull’immagine, e la tendenza della scuola ad assecondarla. Rinunciare all’astrazione dei concetti e al rigore della dimostrazione in nome della concretezza e dell’immediatezza dell’immagine per lui vuol dire non poter elevare gli studenti al livello della scienza moderna.

Ma la rivoluzione scientifica, la rivoluzione tipografica e tutte le altre grandi trasformazioni della cultura borghese moderna non hanno cambiato solo gli intellettuali di mestiere, ma anche il cittadino comune. Là dove la cultura tipografica e l’alfabetizzazione si erano diffuse avevano contribuito allo sviluppo di una cultura civica diffusa basata sulla lettura di quotidiani indipendenti e sulla discussione nei salotti, nei caffè, nei teatri e nelle piazze. Il famoso saggio di Habermas sull’opinione pubblica ha proprio per oggetto questo sviluppo nella società civile dell’Inghilterra del Settecento. Neil Postman racconta poi una storia analoga per quanto riguarda gli Stati Uniti del periodo precedente la Guerra di Secessione: le cronache dei dibattiti sull’abolizione della schiavitù ci mostrano, anche in piccole città di provincia, cittadini bene informati e abituati a lunghe conferenze e a lunghe discussioni, in cui si esibivano una conoscenza delle questioni e una cultura generale notevoli. Questo prima della società di massa con i suoi grandi quotidiani commerciali, e con un pubblico polarizzato tra un’élite colta, che accedeva alla stampa di qualità, e una massa cui era destinato un messaggio spettacolarizzato e sensazionalistico.

Habermas ha poi corretto il suo pessimismo sugli sviluppi dell’opinione pubblica. Di Postman invece si deve ricordare l’analisi sugli effetti formativi della televisione, in cui rovesciava l’ottimismo tecnologico di McLuhan. I sociologi dei media dagli anni ottanta in poi hanno lasciato da parte il pensiero di Postman perché non scientifico. E questo è senz’altro vero: un’analisi storica a livello globale, complessivo, non può essere scientifica, nel senso delle scienze matematico-empiriche, e non lo era nemmeno quella di Gramsci. Ma altrettanto si deve dire dell’elaborazione di McLuhan, che, oltre che muoversi a livello globale, è ricca di metafore anche forzate, di concetti solo abbozzati, di iperboli, di incoerenze, e incurante di precisione e di rigore. Dalle sue intuizioni poetiche e profetiche, certo geniali, ciascuno ha potuto trarre quello che più gli serviva.

Postman ha avuto invece la sconvenienza di dire che l’educazione attraverso la tv commerciale (che già negli anni settanta negli USA impegnava i ragazzi per più ore della scuola) disabituava gli studenti al rigore. La tv, per certi versi, informa in modo più rapido ed efficiente della scuola, ma il suo curriculum educativo è del tutto destrutturato. Per Postman la tv, che deve bloccare il piccolo spettatore sul proprio canale, gli dà gratificazioni immediate e segue i suoi ritmi d’attenzione, introducendo colpi di scena ogni 8-10 minuti; le gratificazioni a lunga scadenza della scuola non possono competere con essa per forza d’attrazione, per evidenza di informazione e per autorevolezza. E la scuola richiede fatica, concentrazione, autodisciplina (“coazione”).

McLuhan (integrato) e Postman (apocalittico) hanno in comune una sopravalutazione dell’influenza dei media rispetto agli altri fattori sociali, economici e tecnici, o addirittura un determinismo tecnologico.

Noi, evitando tale determinismo, dobbiamo chiederci invece, se oggi, nella crisi della società tipografica, il modello classico dell’intellettuale rigoroso e disciplinato, condiviso da Gramsci, non sia anch’esso in crisi.

Da un lato pare sensato affermare che la cultura dell’immagine, propria della tv, ma anche dei videogames, e di un’infinità di altri mezzi, abbia una tendenza, come si è detto, alla semplificazione concretistica (bastoncini al posto di segmenti), all’infantilizzazione e alla perdita di disciplina (Postman parlava della precoce adultizzazione dei bambini e dell’infantilizzazione degli adulti, Benjamin Barber qualche anno fa ha raccolto una grande messe di documentazione sull’infantilizzazione degli americani). È possibile che la relativa vittoria dei bastoncini sui segmenti sia legata alla gratificazione immediata dello spettatore televisivo – vs gratificazione differita, promessa dalla scuola sul lungo periodo, e ciò per certi versi vale anche contro la disciplina della scuola professionale. E non solo i ragazzi delle famiglie culturalmente sfavorite sono stati formati negli ultimi decenni dalla cultura dell’immagine, ma anche quelli delle famiglie di livello socioculturale medio, se entrambi i genitori lavorano e non possono seguire la formazione dei figli, oppure se considerano in modo positivo il messaggio della televisione commerciale e abbandonano senza problemi i figli al curriculum televisivo.

Dall’altro lato questo modo positivo di considerare il messaggio televisivo ci rinvia ad una crisi culturale della sinistra, della classe operaia e della stessa società democratica che ha permesso alla tv di rafforzare la sua influenza, e ci rinvia anche ad una crisi di lungo periodo dell’autorità degli adulti in carne ed ossa, che ha dato spazio all’autorità dei media audiovisivi.

C’è poi la dimensione delle politiche della scuola. La politica pubblica neoliberista ha sottofinanziato sistematicamente la scuola, non solo in un’ottica anti-welfare di risparmio e di conseguente riduzione delle tasse, ma anche in un’ottica antidemocratica di riduzione delle competenze del cittadino (si tratta di una specie di egemonia di default del capitalismo neoliberista, che si manifesta anche, se non soprattutto, col non agire, col lasciar cadere, ecc.).

Internet costituisce un’opportunità nuova per la cultura gutenberghiana, perché permette di associare la cultura della scrittura a quella dell’immagine, in un mondo in cui la disciplina psico-fisica continua a declinare, ma in cui gli stimoli (intellettuali e libidinali) provenienti dal medium sono cresciuti enormemente, ed esso mostra (anche) potenzialità di coeducazione e collaborazione. Quell’”educazione tra pari” che è sempre esistita e che probabilmente ha permesso alle giovani generazioni di reinterpretare a modo loro i più potenti messaggi televisivi, in Internet trova un potente strumento.

Riconoscerlo non vuol dire credere ancora nelle utopie della cultura libertaria del virtuale (si ricordino le “Comunità virtuali” di Rheingold) della fine del secolo scorso e nelle illusioni dei cybersoviet (come li ha chiamati Carlo Formenti). In effetti il recente mondo dei social network per certi aspetti non favorisce l’universalità e il pluralismo: diversi studi hanno mostrato che esso favorisce piuttosto i rapporti di prossimità affettiva, permettendo di mantenerli ad onta della distanza fisica, e anche i rapporti di prossimità culturale e ideologica, col risultato di creare isole in cui il simile conferma le sue idee col simile.

La figura dell’intellettuale dunque si è profondamente trasformata dai tempi di Gramsci: la disciplina e l’abitudine alla “coazione” su se stessi sono venuti perdendosi come risultato dell’educazione familiare e scolastica, salvo il caso di élite piuttosto ristrette.

Tuttavia Internet permette al giovane cittadino di autoformarsi in un ambiente ricco di messaggi iconici, ma anche di messaggi scritti, e di praticare sempre più ampiamente una coeducazione tra pari.

L’apporto della scuola pubblica democratica e pluralista potrebbe avere un peso grandissimo nell’Internet education, formando lo studente a discriminare criticamente i messaggi. Ma in una cultura dell’urgenza e dell’emergenza, nella crisi generale della sinistra e del movimento dei lavoratori, di fronte alla crisi economica e alla terza guerra mondiale a pezzi, con le sue catastrofi umanitarie, questo tema rischia di non essere avvertito come una priorità.

Bisogna infine consegnare alla riflessione teorica della sinistra un problema difficilissimo: la cultura della tv commerciale ha favorito la politica spettacolo e il nuovo leaderismo populistico anti-intellettuale (in Italia Berlusconi, Grillo e Renzi), mentre la cultura di Internet, nella misura in cui favorisce la contestazione democratica, sembra soprattutto movimentistica, paritaria, antileaderistica. Hic Rhodus, hic salta.