Se le regole cambiano “a partita in corso”. Il reclutamento scolastico e le sue conseguenze sugli insegnanti

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di Domenico Carbone e Enrico Gargiulo

 

In Italia, il reclutamento scolastico è un ambito dell’azione politica particolarmente opaco e scarsamente strutturato. L’assenza di un piano di assunzioni organico e coerente contraddistingue l’intera storia italiana, e ha senza dubbio a che fare con l’esigenza di contenere i costi del personale. L’espletamento dei concorsi richiede cospicui investimenti e le spese fisse per i docenti di ruolo gravano sul bilancio ministeriale in misura maggiore rispetto a quelle per i precari (Gremigni 2013).

La “precarizzazione” strutturale  del corpo docente italiano è dunque un processo istituzionale, deliberato, da cui derivano conseguenze materiali che, a loro volta, rivestono una forte valenza politica. La frammentarietà del reclutamento, nello specifico, ha prodotto nel tempo evidenti effetti in termini di mobilità territoriale e sociale. Quanto più precarie sono le forme di stabilizzazione in ruolo, tanto più aumenta la disponibilità a spostarsi al fine di accedere al servizio in maniera permanente (Causarano 2012). Inoltre, i criteri che regolano il passaggio dal precariato alla stabilità producono soggetti che, a prescindere dai loro comportamenti individuali, occupano strati differenti nella scala della collocazione economica e lavorativa, così come in quella del riconoscimento professionale e sociale.

 

Una precarizzazione strutturale, in un sistema schizofrenico

Già sul finire degli anni ’60 del secolo scorso, il reclutamento del personale docente scolastico rappresentava chiaramente una zona di eccezione nel panorama del lavoro dipendente. In un’epoca in cui l’impiego standard a tempo indeterminato, in particolare nelle occupazioni burocratiche, rappresentava il perno centrale del sistema economico-produttivo, soltanto l’insegnamento era caratterizzato dalla presenza di «enormi masse fluttuanti di individui che prestano la loro opera secondo un rapporto contrattuale provvisorio e precario” (Barbagli e Dei 1969: 52).

Da allora, lo scenario non è migliorato, anzi: fatti salvi alcuni periodi di contrazione del numero delle e dei precari, le difficoltà nella stabilizzazione sono rimaste strutturali. Più che in altri settori occupazionali, la precarietà delle e dei docenti non ha a che vedere con il possesso di titoli o con il “merito”, ma con le logiche e i meccanismi dell’ingresso in ruolo, spesso ben poco comprensibili nel loro “disegno” complessivo.

La proliferazione dei canali di reclutamento determina disuguaglianze che non presentano alcun fondamento meritocratico (Gremigni 2013, p. 117). I meccanismi che presiedono alle assunzioni, più in dettaglio, producono un sistema di posizioni lavorative altamente differenziato e stratificato, al cui interno persone che svolgono le stesse attività si trovano a rivestire status diversi, contrassegnati da gradi variabili di stabilità e di garanzia di diritti. La stratificazione tra i vari status non è dovuta, in generale, a criteri di merito individuali, ma alle “regole del gioco” vigenti in un dato momento storico e, soprattutto, ai loro cambiamenti “a partita in corso”, spesso repentini, imprevedibili e improntati a ragioni non sempre comprensibili (Gargiulo 2017).

Questi criteri possono essere ricondotti a tre logiche, le quali danno forma a tre meccanismi. Nel corso dei decenni, tra le diverse logiche e i differenti meccanismi si sono creati intrecci e sovrapposizioni, spesso poco o per nulla coerenti.

La prima può essere denominata selettivo-concorsuale, e risponde al principio, che poggia sul dettato costituzionale, secondo cui l’unico canale legittimo per essere assunti nell’ambito dell’insegnamento scolastico è una selezione pubblica, e dà così forma al meccanismo del concorso pubblico. La seconda è quella dell’anzianità meritocratica, e si fonda sull’idea che gli anni di insegnamento costituiscano di per sé un titolo di merito, traducendosi nel meccanismo delle graduatorie. La terza può essere definita pratico-abilitante, e si basa sul principio per cui una certa esperienza sul campo e le competenze fornite da specifici corsi, organizzati o comunque certificati dal ministero, siano un elemento sufficiente a fornire l’abilitazione all’insegnamento. Questa logica sostiene il meccanismo dei corsi abilitanti.

 

Una professione statica, ma anche mobile e (potenzialmente) alienante

I criteri che presiedono al reclutamento scolastico condizionano pesantemente le posizioni lavorative, frammentandone la composizione, e incidono violentemente sulla vita delle persone che svolgono la professione di docente, inducendole a esperienze di migrazione interna semi-forzate. Per effetto dei mutamenti schizofrenici dei meccanismi di ingresso in ruolo, due individui che hanno compiuto percorsi simili e che svolgono le stesse attività possono disporre di redditi da lavoro diversi: il primo, a tempo indeterminato, riceve tredici mensilità di stipendio; il secondo, precario, è pagato da settembre a giugno, mentre negli altri mesi è costretto a fare ricorso al sussidio di disoccupazione. Il docente di ruolo, inoltre, rispetto al collega “instabile” gode di scatti di anzianità più rapidi e di contributi pensionistici maggiori. Ma soprattutto, occupando una posizione di vertice nella scala della stratificazione, vede garantita la sua stabilità territoriale, non essendo (più) esposto al rischio di doversi spostare per migliorare il proprio status.

Il lavoro intellettuale scolastico, inoltre, è spesso percepito come inutile e frustrante, tanto da avere ripercussioni esistenziali che, come sottolinea efficacemente Gremigni, ricordano in maniera inquietante l’alienazione descritta da Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (Gremigni 2013, p. 89). I docenti precari, infatti, vivono la separazione del lavoratore rispetto ai frutti del proprio lavoro, per due ordini di ragioni: da un lato, costretti con frequenza a cambiare scuola e/o città, sono impossibilitati a seguire le classi in modo continuativo e a osservare i risultati a lungo termine della loro azione educativa; dall’altro, assorbiti dai continui e confusi cambiamenti della normativa, si devono focalizzare sulla burocrazia più che sulla propria attività (ibidem).

Di conseguenza, sebbene scelgano spesso la propria professione per vocazione (Cavalli 2000), gli insegnanti, in molti casi, finiscono per percepire il loro percorso come privo di senso, come una specie di linea che, invece di muoversi verso l’alto, va ripiegandosi su se stessa. Questa situazione, peraltro, non è cambiata neanche nel quadro della cosiddetta “scuola dell’autonomia”, che ha lasciato immutata la struttura di un’istituzione in cui i docenti, retribuiti in modo inadeguato, percepiscono una forte diminuzione del loro prestigio sociale (Fischer 2010).

 

Le implicazioni politiche del reclutamento scolastico

Gli effetti del reclutamento scolastico sono altamente problematici sul piano politico. Da un certo punto di vista, il dipendente pubblico, per ragioni costitutive, deve essere disponibile a muoversi anche lontano da casa, a sacrificare il proprio interesse legittimo al dovere più generale di esercitare una funzione pubblica. In cambio, accede a percorsi di ascesa sociale – per quanto talvolta minimi – e, nel caso provenga dal Sud, alla possibilità di trovare una compensazione pubblica alle scarse alternative fornite localmente dal sistema economico e produttivo privato (Cassese 1977).

Da un altro punto di vista, tuttavia, la mobilità territoriale indotta dai meccanismi di reclutamento scolastico solleva importanti questioni relative alle scelte statali, ponendo innanzitutto un evidente problema di legittimità. Fino a che punto uno stato può richiedere – o addirittura imporre – in maniera legittima a una quota dei suoi cittadini, costituita da dipendenti pubblici, di trasferirsi da una parte a un’altra del suo territorio? In particolare, in che misura può farlo se, a causa dei continui cambiamenti delle regole del gioco “a partita in corso”, le aspettative generate in passato sono frustrate e, dunque, i progetti di vita degli insegnanti sono ostacolati, o addirittura sconvolti, senza alcun demerito da parte di coloro che subiscono il cambiamento?

Nei fatti, al di là delle retoriche meritocratiche spesso proposte dai vari governi in carica, la (legittima) esigenza istituzionale di collocare gli insegnanti migliori nelle sedi più utili – sebbene non per questo gradite (Bertola e Checchi 2010) – non è stata accompagnata da logiche e meccanismi chiari, trasparenti e stabili che abbiano effettivamente lavorato in tal senso. In altre parole, se per un verso la mobilità interna dei docenti è una necessità strutturale e funzionale, per un altro verso la gestione delle migrazioni che ha contrassegnato l’Italia negli ultimi decenni non sembra essere ispirata alla soddisfazione di questa necessità.

Ma gli effetti prodotti dalle logiche del reclutamento scolastico sollevano un’altra questione, relativa al confronto con categorie professionali differenti. I lavoratori appartenenti alle forze dell’ordine e alle forze armate, ad esempio, seppur sottoposti a vincoli di mobilità più diretti ed espliciti, possono usufruire di una serie di benefici: disponibilità di alloggi, vitto pagato, procedure di ricongiungimento familiare, sconto per i mezzi di trasporto, ecc. I docenti migranti, dunque, percepiscono una sensazione di deprivazione relativa: la propria condizione appare ai loro occhi come (ingiustamente) svantaggiata non tanto in assoluto, quanto in comparazione con quella di altri dipendenti pubblici.

 

Le ragioni della mobilità del personale docente

Anche se storicamente non rappresenta una novità, la mobilità territoriale degli insegnanti, è un fenomeno poco studiato e tematizzato in quanto problema specifico di ricerca (Colucci e Gallo 2017). Eppure, si tratta di un tema che ha una portata numerica rilevante se si considera che, prima della riforma scolastica del 2015, le migrazioni interne dei docenti riguardavano, in media ogni anno, un insegnante su quattro (Fondazione Agnelli 2010) e che il primo anno di implementazione della cosiddetta Buona Scuola ha visto spostarsi, rispetto all’anno precedente, un docente su tre. Stando a questi numeri, appare evidente come una quota consistente dei docenti italiani sia disposta ad accettare la mobilità verso un altro territorio per accedere o per non essere esclusa dalla possibilità di lavorare nella scuola.

Da una recente indagine, condotta su insegnanti trasferitisi in Piemonte da regioni del sud (Carbone e Gargiulo 2017), emerge come l’esperienza migratoria indotta, quando non proprio forzata, avvenga in un quadro in cui i percorsi professionali tendono ad assumere, sempre più frequentemente, la configurazione surreale delle «scale di Escher» (Argentin e Giancola 2013). Chi si trova costretto a migrare segue percorsi di mobilità che sono la risultante dell’intreccio, e del compromesso, tra vincoli esterni e strategie individuali.

Tra le testimonianze raccolte, la docente con una storia migratoria e di precarietà più lunga è entrata in graduatoria nel 1999, dopo aver conseguito l’abilitazione grazie ai corsi abilitanti e a due anni di insegnamento, e ha poi vinto il concorso nel 2000. A seguito di un lungo periodo di supplenze nella provincia siciliana di provenienza e del lento scorrimento delle liste dei precari – “dopo anni, ero centottantesima su ottocento” –, ha deciso di iscriversi nella graduatoria di Biella, dove ha ottenuto il primo incarico annuale nel 2008 e la docenza di ruolo nel 2012. La strategia seguita da questa insegnante si basa sulla scelta di una provincia meno concorrenziale e a “scorrimento più veloce”, in una fase storica in cui i ministri volta a volta in carica paventavano la possibilità che le graduatorie venissero soppresse.

Un ragionamento simile è stato fatto da due docenti trasferitisi ad Asti dalla Sicilia. Il primo è entrato nelle liste provinciali in seconda fascia dopo aver conseguito l’abilitazione tramite il primo ciclo (2012/2013) di TFA (Tirocinio Formativo Attivo), e ha deciso “di spostarsi da Roma in su perché ci sono più possibilità”. La scelta specifica in favore del territorio astigiano è dovuta alla minor presenza di domande nel suo settore, anche in confronto ad altre regioni del nord-Italia, come la Lombardia, dove “ci sono più posti ma anche più richieste”. Il secondo, anch’egli proveniente dall’esperienza del TFA (secondo ciclo), ha indicato Asti in quanto, da un sito in cui sono forniti i dati sulla numerosità delle graduatorie nelle varie città, ha appreso che “lì c’erano poche persone in coda”. Così, nel 2013 ha avuto, in Piemonte, la sua prima vera e propria esperienza di insegnamento.

Lo studio del contesto piemontese conferma poi che l’introduzione della Buona Scuola ha ridotto i margini di scelta degli insegnanti, rendendo la mobilità territoriale maggiormente coatta. Alcune traiettorie descritte da coloro che sono entrati in ruolo in seguito alla riforma del 2015 risultano emblematiche in questo senso. Un docente abilitatosi dopo aver frequentato la SISS (Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario), ad esempio, si è iscritto inizialmente nelle graduatorie della provincia siciliana di residenza, per poi spostare la sua iscrizione in Liguria. Qui è stato chiamato più volte, ma non ha mai accettato, trattandosi di incarichi precari e lavorando a part-time in un’azienda. Successivamente, ha scelto Asti, seguendo una strategia simile a quella degli insegnanti menzionati in precedenza. Nel frattempo, ha partecipato al concorso del 2012, ottenendo l’idoneità in Sicilia. Il suo trasferimento effettivo ha avuto luogo con l’avvento della fase A de La Buona Scuola, quando ha usufruito dello scorrimento delle GAE (Graduatorie Ad Esaurimento).

La riforma, dunque, lo ha premiato ma allo stesso tempo lo ha penalizzato: non è stato stabilizzato attraverso la graduatoria del concorso, ma mediante quella a esaurimento, che nel suo caso faceva riferimento al Piemonte e non alla Sicilia. In questo senso, La Buona Scuola non ha rappresentato per lui un’opportunità di miglioramento, mentre lo è stata per persone che, pur avendo un punto meno di lui nella graduatoria concorsuale, sono entrate in ruolo a Catania. Dal suo punto di vista, sarebbe entrato comunque attraverso la selezione pubblica, rimanendo peraltro nel territorio di provenienza.

Un’altra intervistata proveniente da Catania, dopo aver superato il concorso ordinario del 2000, non è stata mai chiamata, se non per qualche supplenza. Nel frattempo, ha svolto la libera professione come architetto. In sostanza, ha “congelato” la sua professionalità di docente – “questo titolo l’ho avuto nel cassetto per oltre 15 anni” – rinnovando ogni anno l’iscrizione alle GAE, così da non essere depennata. Non avendo anni di insegnamento alle spalle, infatti, l’unico punteggio di cui disponeva era quello del concorso. Quando è arrivata la comunicazione dal Ministero relativa al reclutamento de La Buona Scuola, a novembre del 2015, ha dovuto scegliere in fretta: “tutto è stato repentino, anche la decisione di dover partire”. Ha accettato quindi il trasferimento a Torino ed è entrata in ruolo, a tempo indeterminato. Tra le cento province da indicare, aveva selezionato le 9 province siciliane e poi quelle piemontesi, con il capoluogo di Regione in testa, non per scelta strategica – non si era mai informata sulle possibilità di posti in Piemonte – ma in quanto il compagno si trovava già nel capoluogo per ragioni di lavoro.

 

Conclusioni

Apparentemente, nel sistema scolastico italiano il percorso lavorativo dei docenti è piatto e la mobilità sociale di carriera consiste in un unico, seppur fondamentale, passaggio: quello da docente precario a insegnante di ruolo assunto a tempo indeterminato. Tuttavia, lo scenario in cui svolgono le transizioni di status presenta alcune peculiarità, che rendono lo sviluppo delle biografie degli insegnanti frastagliate e dall’esito incerto.

A essere evidente è una stretta relazione tra mobilità sociale e mobilità territoriale, che fa seguito alla confusa azione normativa dello stato nell’ambito del reclutamento scolastico. Per molti docenti italiani, e comunque in misura nettamente superiore rispetto ad altri dipendenti pubblici, la progressione di carriera coincide frequentemente con un’esperienza migratoria.

La cronicizzazione delle condizioni di precariato che contraddistingue questo ambito lavorativo, sommata alla mancanza di un chiaro e stabile percorso di ingresso in ruolo, ha finito dunque con il creare un labirinto di percorsi che coloro che aspirano a svolgere questa professione sono chiamati a percorrere.

 

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