Documento sulla scuola elaborato da Sergio Roda

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Il Gruppo Scuola di Mdp-Articolo Uno di Torino esprime con forza la convinzione che i temi della scuola, della formazione e della cultura nella loro espressione pubblica debbano non solo costituire uno dei punti fondamentali del programma del nuovo soggetto politico che si va definendo, ma ne debbano essere il fulcro caratterizzante e qualificante.

Da decenni ormai il percorso dell’istruzione, dalla formazione primaria all’Università, soffre in Italia di perduranti criticità che si sono aggravate nel tempo e che né le numerose (troppo numerose!) riforme più o meno sistemiche che si sono succedute di legislatura in legislatura, né i purtroppo assai meno frequenti interventi sulle strutture, sugli edifici e sulla strutturazione scolastico-formativa hanno contribuito a rimediare.

Si sono anzi aggravati notevolmente problemi antichi che investono ogni tappa e ogni livello dell’iter formativo: dalla perdurante inadeguatezza, pericolosità e fatiscenza di molti edifici scolastici (non risolta certo dalla politica renziana della manutenzione di una scuola per comune) alla questione ancora gravissima (e in alcune aree specie al Sud addirittura in ulteriore peggioramento) dell’abbandono e della dispersione scolastica nella scuola dell’obbligo, connessi ovviamente alle problematiche socioeconomiche del diritto allo studio diffuse peraltro anch’esse a ogni step del cammino formativo fino all’Università (in questo contesto si inseriscono anche la necessità di intervenire a vantaggio delle famiglie nella risoluzione delle difficoltà di conciliazione scuola/lavoro, nella articolazione degli orari specie per la scuola dell’infanzia ed elementare, nella questione delle mense scolastiche ecc.).

Per quanto poi si riferisce ancora specificamente alla scuola, dalla primaria alla secondaria inferiore e superiore, gli effetti negativi della Buona Scuola si risentono specie nelle aggravate difficoltà di programmazione ed organizzazione delle attività didattiche, mentre perdura la confusione circa le modalità di reclutamento degli insegnanti che l’introduzione del FIT [piano di formazione e tirocinio dei nuovi insegnanti della durata di un triennio] non sembra risolvere, a giudicare almeno dagli approcci iniziali all’applicazione della nuova normativa: difficile e quanto mai delicata appare nelle scuole la gestione del previsto tirocinio così come poco chiari risultano i ruoli e le interazioni riservati agli USR [Uffici Scolastici Regionali] e alle Università nella elaborazione e nella realizzazione delle attività triennali che il FIT prevede.

Altrettanto complessa e per molti versi inquietante si presenta alla prova dei fatti l’alternanza scuola-lavoro, ove accanto a (limitati) episodi virtuosi si sono verificate situazioni (numerose) di inutilità oggettiva rispetto alle finalità previste di incontro formativo fra mondo della scuola e mondo del lavoro, se non addirittura vicende censurabili di sfacciato sfruttamento di manodopera gratuita.

Altre questioni irrisolte, perfino più gravi forse di altre, sono la razionalizzazione dei percorsi di formazione tecnica e di formazione professionale, ove mancano fra l’altro meccanismi agevoli di passaggio da un corso all’altro e dove (specie in ambito professionale) urge un chiarimento dei ruoli fra soggetti pubblici (stato, regioni, comuni) e soggetti privati.

Occorre quindi porre mano, con la volontà precisa di risoluzione e con adeguate risorse, a problematiche annose che hanno frenato lo sviluppo della scuola, ne hanno progressivamente fatto regredire la qualità e hanno determinato una sempre minore incidenza della scuola stessa nello sviluppo e nel progresso del sistema culturale, socioeconomico, produttivo e civico del paese. La diminuzione del numero dei diplomati (in simmetria con la diminuzione ancor più drammatica del numero dei laureati) così come la diminuzione del numero degli iscritti alla scuola non dell’obbligo (ovviamente ponderata in base ai flussi demografici) non sono che uno degli aspetti più evidenti di tale crisi.

Non si tratta quindi assolutamente di proporre ulteriori riforme (ad esempio dei cicli scolastici, che è bene restino quali sono): come si è sottolineato troppe ce ne sono state nei decenni che ci precedono, talune con effetti devastanti, altre semplicemente con esiti destabilizzanti in quanto si giustapponevano o si sovrapponevano ad altre riforme di poco precedenti (e nemmeno ancora assimilate o compiute nella loro applicazione), donde lo sconcerto sia fra gli operatori scolastici sia fra gli utenti (alunni, studenti, famiglie).

Altrettanto preoccupante la situazione dell’Università e della Ricerca: anch’esse hanno subito dagli anni’80 del secolo scorso ad oggi l’impatto di riforme velleitarie, talora contraddittorie, spesso mirate più che al miglioramento del sistema al mero risparmio economico in una realtà di progressiva e costante diminuzione di risorse pubbliche.

Ciò ha fatto sì che tutti gli indicatori di confronto con la situazione degli altri paesi sviluppati vedano l’Italia in gravissima sofferenza: questo vale ad esempio, come si è già accennato, per quanto riguarda il numero dei laureati, in costante diminuzione dal 2003 ad oggi, in una realtà nazionale che vede in valori assoluti la popolazione con laurea nella fascia da 25 a 34 anni al 26% cioè al 32° posto sui 33 paesi più sviluppati del mondo (fa peggio soltanto il Messico).

Analoghi dati sconfortanti, con l’Italia maglia nera delle classifiche internazionali, si potrebbero elencare nel rapporto numerico docenti studenti, nel numero – basso – di ricercatori in rapporto agli occupati, ma soprattutto (e sta qui la chiave fondamentale del problema che occorrerebbe urgentemente aggredire) nella ridicola percentuale del PIL destinata a spesa per l’Università e la Ricerca e più in generale nella quantità (e qualità!) della spesa pubblica destinata al livello più alto di istruzione e alla ricerca scientifica e tecnologica pubblica.

A questi mali, tutti riconducibili in larga misura a cause economiche ma non solo (un peso non indifferente ha avuto e ha la sottovalutazione, e possiamo dire anche la diffusione di messaggi sbagliati come la pretesa inutilità delle lauree, o le campagne di discredito indirizzate periodicamente contro i percorsi di studio universitari giudicati inefficaci,  o non improntati a una seria valutazione di meriti) si sono recentemente aggiunte, specie come conseguenza della legge Gelmini, altre criticità: ad esempio un aggravio enorme della burocrazia negli Atenei a carico anche dei docenti, che ha oggettivamente sottratto sempre più tempo all’impegno nella didattica e nella ricerca; modelli di valutazione discutibili che procedono da un sacrosanto principio di controllo della produttività scientifica ma che si basano per lo più su parametri tutt’altro che oggettivi e quindi distorsivi della realtà; la creazione dei ricercatori a tempo determinato che ha aggravato il meccanismo già complesso e soggetto a numerosi repentini mutamenti del reclutamento, creando in sostanza un ulteriore precariato che si aggiunge su livelli molto simili a quello determinato dagli assegni e dalle borse di studio, cosicché  oggi l’accesso alla carriera universitaria si è fatto sempre più arduo e rimandato – per i pochi che hanno la forza psicologica e le risorse economiche per resistere fino ai quarant’anni e anche molto oltre – a età incredibilmente elevate.

In questo modo il ricambio generazionale si è sostanzialmente interrotto e ciò è tanto più grave perché si accingono ad andare in pensione tantissimi docenti entrati in ruolo tra fine anni ‘70 e inizio anni ’80 data dell’ultima immissione massiccia di personale docente e ricercatore negli Atenei italiani.

Un’attenzione va posta inoltre alle dinamiche concorsuali che all’interno del mondo accademico hanno spesso suscitato scandali mediatici ma che nella realtà sono soprattutto aggravate, anche in questo caso, da una continua ed esasperante modificazione dei criteri di valutazione e delle modalità di composizione delle commissioni di concorso a livello locale o statale: si può dire che, anche da questo punto di vista, le ripetute, reiterate modificazioni di modelli concorsuali, quasi tutte (e quasi sempre demagogicamente) giustificate in funzione moralizzatrice, hanno fallito. Vien da chiedersi anzi – come ovvio, provocatoriamente – se non converrebbe ritornare all’antico sistema della cooptazione dei migliori.

Da sottolineare infine, last but not least, la necessità di migliorare, razionalizzare e ampliare il rapporto scuola-università che non ha trovato negli ultimi anni la necessaria attenzione.

Sulla base di tutto ciò che si è qui tentato di tratteggiare, toccando soltanto alcuni punti di un problema epocale per il nostro paese che meriterebbe discorsi ben più ampi e articolati, esprimiamo la ferma convinzione che una forza progressista che si presenta al giudizio del paese e degli elettori non può che porre la questione dell’istruzione e della formazione al primo posto del suo programma di governo.

Trascurare, o peggio condannare a lento deperimento l’intero sistema scolastico, come si è fatto nelle diverse esperienze di governo con rarissime eccezioni da almeno un quarto di secolo a questa parte, se non è disegno politico perverso e voluto (un popolo ignorante è palesemente più facile da manipolare),  è comunque frutto di imperdonabile miopia rispetto alle sorti di un paese che per questo rischia (e di fatto già da tempo in tal senso molto soffre) non solo di non avere più una classe dirigente preparata e adeguata ma nemmeno di possedere una struttura forte fatta di professionalità e di capacità consolidate a tutti i livelli formativi.

Senza parlare poi del decadimento del senso civico che una scuola e un’Università povere, in crisi di identità, in preda a confusione e disorganizzazione, non può che indurre nelle giovani generazioni; quelle stesse che dovrebbe formare alla conoscenza, ai saperi, alle professionalità ma anche appunto ai valori della cittadinanza, della solidarietà civica, del senso critico e della capacità di analisi e giudizio.

Senza scuola e università all’altezza non c’è e non ci sarà sviluppo civile, culturale, sociale ed economico. Non ci sarà un modello di crescita adeguato ai tempi. Non ci saranno né un’industria 4.0, né un paese 4.0. Pensare alla scuola e all’università per attrezzarsi alla complessità del futuro, abbandonando speculazioni presentiste e convenienze contingenti di corto respiro. Consentendo alle generazioni che verranno di recuperare, attraverso una scuola non più soltanto sedicente “buona” ma buona davvero, quella indispensabile fiducia nel futuro che oggi parrebbe irrimediabilmente perduta.

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