Le criticità dell’alternanza scuola-lavoro

Print Friendly, PDF & Email

di Cristina Caiano

 

La più grande novità della ‘buona scuola’ è senza dubbio l’introduzione di un percorso obbligatorio di alternanza scuola-lavoro per tutti gli studenti del triennio delle scuole superiori 

della durata di 200 ore complessive per i Licei e di 400 per gli Istituti tecnici e professionali.

Sbandierata come “un cambiamento culturale per la costruzione di una via italiana al sistema duale”[1], osannata come “una modalità didattica innovativa che attraverso l’esperienza pratica aiuta a consolidare le conoscenze acquisite a scuola e testare sul campo le attitudini di studentesse e studenti, ad arricchirne la formazione e a orientarne il percorso di studio e, in futuro di lavoro, grazie a progetti in linea con il loro piano di studi”, essa rappresenta in realtà uno dei nuclei di maggiore criticità della scuola di oggi.

Anzitutto la legge, pubblicata  il 13 luglio 2015, a scuole chiuse, è diventata operativa già dal settembre successivo cogliendo impreparati insegnanti e dirigenti scolastici che non avevano ricevuto la necessaria preparazione. Quella di “calare dall’alto”  le innovazioni è una prassi già utilizzata dal Miur in altri casi, per esempio con l’introduzione nel 2010 del Clil, l’insegnamento di una disciplina non linguistica in lingua straniera, che avvenne  senza verificare la presenza nelle scuole di docenti con certificazioni linguistiche in grado di realizzare quell’iniziativa resa subito obbligatoria e richiesta anche in sede di Esame di stato. Ed infatti oggi, ad otto anni dalla sua introduzione, la stragrande maggioranza delle scuole non è in grado di realizzare quella norma che viene aggirata con la visione di qualche documentario o film in lingua straniera, o con la realizzazione di un modulo di poche ore spesso con la collaborazione dell’insegnante di lingua straniera.

Allo stesso modo nell’estate 2015 diventa legge l’alternanza senza che siano stati formati né gli insegnanti, né i tutor dei cosiddetti ‘enti ospitanti’ che comprendono le realtà più varie: da banche e imprese di ogni tipo a musei, fondazioni o  società sportive. Così con l’inizio dell’anno scolastico 2015-2016 diversi docenti, designati dal dirigente scolastico, spesso con un consenso estorto per necessità, si sono inventati un mestiere nuovo che per nulla rientra tra le competenze didattiche e disciplinari a loro richieste nei concorsi e nei contratti di lavoro: hanno dovuto trasformarsi in esperti in pubbliche relazioni per trovare qualche ente disposto ad accollarsi per decine di ore frotte di studenti a cui far fare un percorso con obiettivi poco chiari  e con il solo intento di far vedere al ‘pubblico’ che anche la scuola italiana finalmente era collegata al mondo del lavoro! Non solo, i malcapitati insegnanti hanno dovuto imparare a scrivere  ‘convenzioni’ e ‘patti formativi’ senza spesso avere le competenze giuridiche  necessarie, trovandosi nelle disagevoli vesti di  dilettanti allo sbaraglio con il rischio di compiere errori per ovvia inesperienza.  Spesso si procede ancora oggi a tentoni nel buio con l’unica consolazione di trovare molti compagni di viaggio nelle stesse condizioni.

Date queste premesse è chiaro che i progetti così raffazzonati raramente sono davvero congruenti con il piano di studi. E’ già un successo  trovare un ente disposto a sottoscriverne uno! E spesso chi si propone è un ente privato mosso da motivazioni non sempre puramente formative. La speranza è che nel corso degli anni i percorsi inizino ad essere più strutturati, gli enti siano selezionati in base a requisiti non esclusivamente legati al mercato del lavoro,  ma è comunque un errore gettare alla cieca insegnanti e allievi in una nuova avventura.

Ma questa non è che la prima criticità, a cui se ne aggiungono altre ancora più serie. Il vizio maggiore è l’assoluta vaghezza delle indicazioni che regolano il percorso di alternanza. Anzitutto non è chiarito se il percorso sia da effettuarsi durante o fuori dall’orario scolastico. Ci si limita a dire che  “L’alternanza  scuola-lavoro  può  essere  svolta  durante  la sospensione delle attività didattiche (…)”[2].

Così alcune Scuole fanno fare la stragrande maggioranza delle ore in orario curriculare penalizzando gravemente lo svolgimento delle lezioni previste dal corso di studi. Se si tiene presente che diverse discipline prevedono un monte ore annuale di 66 ore e che l’alternanza prevede a sua volta circa 70 ore annuali (per limitarci al caso dei Licei) si ha un’idea del grave danno in termini di diritto allo studio  che la realizzazione del percorso in orario curricolare comporta. Altre Scuole, invece, cercano di far svolere le ore soprattutto di pomeriggio, sottraendo però tempo allo studio e impegnando i docenti  oltre il loro normare orario di lavoro spesso non retribuendoli affatto oppure riconoscendogli un compenso ridicolo di 3, 4 euro all’ora. Problematico è anche far svolgere le attività nel periodo estivo, sia perché ancora una volta bisogna garantire la presenza di insegnanti tutor, sia, soprattutto, perché è molto difficile trovare enti disposti nel periodo estivo a ospitare un numero sempre crescente di studenti.

Ma soprattutto, lasciando ai singoli Istituti la possibilità di scegliere quando effettuare il percorso, si creano delle enormi differenze tra Istituti pubblici: pur avendo alla fine del corso di studi lo stesso diploma un allievo potrebbe aver svolto 70 ore annue in più o in meno di lezioni curricolari rispetto a uno studente di un altro Istituto dello stesso indirizzo di studio. Simili differenze non sono ammissibili all’interno di una scuola pubblica.

Ma la vaghezza delle disposizioni incide in modo significativo anche su  un altro aspetto non meno rilevante. Infatti la normativa lascia all’ autonomia dei singoli Istituti la possibilità di scegliere se realizzare percorsi individuali o di classe[3].

Anche in  questo caso gli orientamenti delle Scuole sono stati i più vari. Alcune hanno cercato di individuare dei percorsi di classe che generalmente hanno il vantaggio di essere progetti realmente condivisi dal Consiglio di classe, che può effettivamente pensare a un percorso di ore di formazione in classe. I limiti sono però la difficoltà di trovare enti disposti a ospitare contemporaneamente nelle loro strutture una ventina di studenti  e, di nuovo, la necessità di usare ore curricolari.  Diversi Istituti hanno quindi preferito promuovere in tutto o in parte percorsi individuali che, se da un lato possono più agevolmente essere svolti in orario extracurricolare o in estate e sono più facilmente realizzabili poiché la stragrande maggioranza degli enti (ditte, ospedali, università) sono disponibili ad accogliere solo poche unità di allievi alla volta, dall’altro  però presentano lo svantaggio di essere difficilmente seguibili dai docenti ( come fare a gestire contemporaneamente 20/30 percorsi individuali presso una decina di enti diversi?).   Ma il lato più oscuro è ancora un altro: lasciare spazio ai percorsi individuali porta inevitabilmente ad accentuare le differenze o peggio le diseguaglianze tra allievi. Infatti spesso sono gli allievi e le loro famiglie a proporre percorsi legati alle loro ‘conoscenze’ e il Consiglio di classe non fa altro che legittimare le loro proposte. Che altro potrebbe fare? Trovare più di venti percorsi individuali per ciascuna classe non è certo impresa facile! Quindi non può che accogliere con sollievo le proposte delle famiglie di far lavorare i figli e i loro amici nella ditta dello zio o presso l’ospedale di cui il nonno è stato un primario. Resta però il problema degli studenti senza parenti ‘illustri’, magari di bassa estrazione sociale o provenienti da altre culture e poco radicati nella comunità.  Certo il Consiglio di classe troverà qualcosa anche per loro, ma è corretto procedere in questo modo? Si ha sempre di più l’impressione che le parole “autonomia, “attitudini, interessi e vocazioni personali”, “stili cognitivi” in realtà legittimino diseguaglianze socioeconomiche e territoriali creando gerarchie tra Scuole e tra studenti.

Non trascurabile è anche il  problema dei finanziamenti per la realizzazione dell’alternanza. La legge 107 parla di complessivi “100 milioni di euro annui a partire dal 2016” da ripartire nella varie scuole per realizzare e monitorare i percorsi di alternanza, oltre che per pagare i corsi di formazione sulla sicurezza che ogni scuola deve promuovere al suo interno.  Questa cifra, apparentemente imponente, si riduce in realtà a ben poca cosa per ogni singola scuola e in particolare per ogni classe.

Così si iniziano a creare degli espedienti per aggirare il problema dei finanziamenti : vengono presentati percorsi di alternanza in sostituzione dei viaggi di istruzione e si specifica che l’alternanza è sì gratuita, come prevede la legge,  ma che le famiglie devono sostenere le spese di viaggio e di vitto e alloggio, come farebbero nel caso della gita. Molte scuole seguono questa strada organizzando soggiorni all’estero o ritiri sportivi là dove le famiglie di una classe all’unanimità accolgano la proposta. Non credo sia necessario soffermarsi sulla poca trasparenza di queste scelte.

Certamente sono stati realizzati anche percorsi positivi, applauditi e sbandierati sul sito del Miur. Certamente sono previsti anche finanziamenti speciali per permettere a una quindicina di allievi all’interno di ciascuna scuola di fare esperienze significative come per esempio lavorare spesati all’estero per una ventina di giorni. Ma sono misure estemporanee che non fanno che gettare fumo negli occhi.

Al di là di tutte questi limiti che potrebbero essere letti come contingenti, superabili (anche se non giustificabili perché coinvolgeranno migliaia di studenti) con la pratica dell’alternanza, resta la questione di fondo più importante: davvero il percorso di alternanza scuola-lavoro che noi ci affrettiamo a copiare da altre realtà europee è una scelta giusta per la formazione degli adolescenti di oggi?  I nostri allievi lavoreranno (se troveranno un posto…) per più di quarant’anni: avranno tempo di specializzarsi e acquisire competente tecniche. Molto probabilmente passeranno i primi 5-10 anni di vita lavorativa con contratti di formazione,  tirocinio o simili: perché allora anticipare questo periodo già agli anni del triennio delle superiori, soprattutto se frequentano un Liceo? Sono questi tre anni importantissimi per la loro formazione come persone e cittadini, prima che come lavoratori:  per molti rappresentano forse l’unico periodo in cui poter leggere libri, porsi domande, aver tempo di individuare i propri interessi personali, la propria strada, in una parola, pensare. E’ miope una scuola che non capisce che la formazione teorica è decisiva non solo per la formazione di cittadini (e questo dovrebbe bastare) ma anche di lavoratori intelligenti, creativi, responsabili e non solo capaci ad eseguire. Per “innalzare gli standard di qualità e il livello dei risultati di apprendimento per rispondere adeguatamente al bisogno di competenze e consentire ai giovani di inserirsi con successo nel mondo del lavoro”[4] è preferibile una solida preparazione teorica a percorsi lavorativi estemporanei.  Ci fanno sorridere le dichiarazioni sgrammaticate dell’imprenditore di Cuneo che consiglia ai giovani di studiare meno per lavorare di più, ma questa è la cultura che domina anche le scelte del ministero. “L’acquisizione di competenze maturate “sul campo” (…) garantisce un vantaggio competitivo rispetto a quanti circoscrivono la propria formazione al solo contesto teorico, offrendo nuovi stimoli all’apprendimento e valore aggiunto alla formazione della persona”.

 

[1] Cfr. sito del Miur.

[2] Legge 107, 13 luglio 2015, comma 35.

[3] Si legge infatti nella Guida operativa: “Gli studenti, singolarmente o a gruppi, partecipano a percorsi formativi diversificati per l’acquisizione dei risultati di apprendimento attesi, in termini di conoscenze, abilità e competenze, in base alle loro attitudini e ai loro stili cognitivi. È lasciata alla responsabilità di ogni singola istituzione scolastica la scelta di come individuare gli allievi rispetto alle strutture ospitanti. Fermo restando che l’alternanza coinvolge tutti gli studenti, le scuole possono decidere di selezionare gli abbinamenti (studenti-impresa o ente), all’interno di un’unica o più classi, sulla base delle attitudini e degli interessi personali dei giovani. È evidente che la prima opzione è di più facile gestione in quanto richiede l’adesione e il coinvolgimento di un unico Consiglio di Classe con un impatto organizzativo sul sistema scuola più contenuto. In tutti i casi, la realizzazione dei percorsi di alternanza provoca ricadute, sia sul piano progettuale sia su quello organizzativo, di cui la scuola deve tener conto.”

[4] Cfr. sempre la guida operativa.