Un’utopia debole? In margine a “Regole, stato, uguaglianza” di Salvatore Biasco

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di Silvano Belligni

 

La situazione che oggi, a dieci anni dall’inizio della “grande depressione”, si presenta agli occhi del cittadino medio di uno qualsiasi dei paesi occidentali è,

con poche eccezioni, sconfortante. Rallentamento della crescita, disoccupazione strutturale, precarizzazione del lavoro e bassi salari, progressiva erosione dei diritti sociali, polarizzazione sociale e territoriale, povertà diffusa e ingiustizie eclatanti a fronte dell’arricchimento di pochi o di pochissimi sono il lascito generale – al netto delle differenze locali e dei cicli temporali – di quasi quarant’anni di dominio egemonico del neoliberalismo. Quali sono le cause della instabilità, degli squilibri e delle disuguaglianze crescenti che affliggono le società di mercato, quelle dell’Occidente democratico in particolare? E quali rimedi – azioni e istituzioni – possono contrastare queste tendenze negative, ripristinando un corretto rapporto tra crescita economica e diritti di cittadinanza?

Alla domanda di che cosa vi sia alla radice dello stato di cose presente, gli studiosi gravitanti nel campo della sinistra liberale e radicale hanno dato negli ultimi anni risposte solo in parte convergenti, tali comunque da lasciar intravvedere le linee di una interpretazione alternativa del ciclo politico-economico del dopoguerra capace di sfidare la narrazione dominante. Il nucleo condiviso della contronarrazione che si è delineata è che, nei settant’anni che ci dividono dalla fine della guerra, si sono avvicendati nelle economie politiche dell’Occidente industrializzato due modelli politico-economici antitetici, contrassegnati ciascuno da un peculiare bilanciamento tra democrazia e capitalismo e da un differente intreccio tra politica e mercato. Nei cosiddetti “trenta gloriosi” (grossomodo gli anni dal 1945 al 1975) si è affermato un equilibrio socialmente avanzato, in cui lo stato democratico, sostenuto da potenti sindacati e da partiti pro-labour fortemente radicati nella fabbrica fordista e nella società civile, ha esercitato gradi variabili ma significativi di controllo e di direzione dell’economia di mercato, promuovendo non solo la crescita economica, ma la piena occupazione relativa, una crescente redistribuzione del reddito, lo sviluppo dello stato sociale e dei diritti di cittadinanza, nel quadro di un compromesso storico tra capitale e lavoro ritenuto accettabile da tutte le forze in campo.

Per quanto riguarda la seconda domanda, invece, – quale prognosi e soprattutto quali terapie far derivare dalla diagnosi emersa da questa ricerca a più voci – il dibattito si fa confuso e le posizioni restano distanti; dominano l’incertezza sulle prospettive e le polemiche sulle strategie da adottare, tra auspici di aggiustamento riformistico, drastiche ricette taumaturgiche e scenari distopici o catastrofici.

 

  1. A stimolare e a “complicare” opportunamente la discussione sulle strategie da adottare, sulle politiche da implementare, sulle coalizioni da promuovere, sui valori a cui riferirsi aiuta il denso libro di Salvatore Biasco Regole, Stato, uguaglianza (Luiss University Press 2016), il cui intento esplicito è di fornire stimoli e materiali per la ricostruzione della identità e la formulazione del programma politico di una sinistra riformista italiana ed europea all’altezza dei tempi. Muovendo dalla messa a fuoco dei meccanismi (le “fonti di alterazione”) che hanno concorso alla consacrazione culturale e al dominio economico e politico del neoliberalismo nelle democrazie occidentali sviluppate, Biasco traccia le linee di un percorso collettivo e di una impegno culturale di lunga lena finalizzati a (ri)elaborare una visione del mondo alternativa (capace cioè di “superare l’esistente”) a quella che ha trionfato negli ultimi decenni, da cui far derivare programmi e strategie di sviluppo economico e politico e di ricostruzione sociale.

La spiegazione che, nella prima parte del libro, l’autore dà dell’involuzione subita dalle società occidentali avanzate mette al centro la rottura dell’equilibrio tra capitalismo e democrazia instauratosi nel secondo dopoguerra, a cui va il merito del progresso economico e sociale di quegli anni. Capitalismo e democrazia sono, per l’autore, i due ordini complementari che da due secoli strutturano congiuntamente la convivenza sociale. L’ordine capitalistico, intrinsecamente verticale, gerarchico ed esclusivo, si è nel tempo e nello spazio incarnato in differenti modelli; ma ha trovato il suo assetto economicamente più efficace e socialmente più accettabile dove, e nella misura in cui, la democrazia è intervenuta a contrastarne e a compensarne gli umori corrosivi e anarchici e le pulsioni egoistiche e predatorie, consentendogli in pari tempo di svolgere al meglio la sua funzione di innovazione e di creazione di ricchezza.

Da questa idea direttiva discende una evidente indicazione strategica “riformista”: che occorra cioè ripristinare, dopo lo sbilanciamento dell’era neo-liberale, un corretto rapporto – attraverso un nuovo compromesso storico – tra capitalismo e democrazia. L’assunto dell’autore è che superare l’ordine neoliberale vigente e promuovere un capitalismo migliore, che non entri in conflitto con la società, sia possibile e che favorire questa evoluzione virtuosa sia il compito storico dei riformisti. Tutto ciò non solo in nome del realismo dei rapporti di forza, ma nella convinzione – tipica del progressismo liberal – che, tra tutti i modi di promozione della crescita economica, il capitalismo sia insuperato e insuperabile. Si potrebbe dire, parafrasando un vecchio slogan, che il capitalismo si cambia ma non si distrugge e neppure si supera: un altro capitalismo, un capitalismo depurato dalle sue pulsioni egoistiche e ricondotto “ragionevolmente” sotto il controllo della comunità politica democratica, è non solo possibile ma necessario. Qui si misura tutta la distanza dalle posizioni – come quelle di Streek con cui non a caso l’autore polemizza duramente – che sostengono l’irriformabilità del capitalismo contemporaneo e la sua inevitabile deriva distruttiva e antipopolare.

Date queste premesse, la spiegazione dell’involuzione del capitalismo e del trionfo della governance neo-liberale va ricercata dal lato dell’agency, vale a dire nelle scelte operate dalle forze in campo, nelle politiche pubbliche e nelle manipolazioni delle regole e degli strumenti di governo da parte delle oligarchie economiche e politiche. Quanto è successo negli ultimi trent’anni è il frutto di una sequenza espansiva di decisioni consapevoli e non di un destino deterministicamente inscritto nella struttura di produzione e di scambio. In questa prospettiva, l’autore mette l’accento sull’indebolimento e sulla trasformazione regressiva di quelli che sono stati i due contraltari fondamentali del capitalismo postbellico (ma anche, dialetticamente, le infrastrutture di sostegno che ne hanno impedito il tralignamento e favorito la legittimazione) e sul loro progressivo svuotamento come soggetti politici autonomi: da un lato lo stato keynesiano, dall’altro le organizzazioni popolari e di classe, partiti e sindacati di massa, che ne hanno plasmato la costituzione materiale e le politiche fondamentali.

 

Convenzionalmente, è alla globalizzazione dell’economia e alla mobilità del capitale che vengono attribuite la drastica limitazione dell’autonomia delle politiche statali e della loro possibilità di indirizzare e di condizionare le decisioni private di mercato. Ma sono state le scelte governative di deregolazione economico-finanziaria e di liberalizzazione dei mercati a promuovere l’emancipazione del mercato capitalistico dai vincoli che lo legavano ai territori e all’interesse collettivo: attraverso le politiche pubbliche neoliberali (le famigerate “riforme”) la politica statale ha finito per neutralizzare se stessa, lasciando campo libero all’iniziativa delle forze economiche.  Nel corso di pochi anni, lo stato nazionale ha dismesso in buona parte, e pressoché ovunque, le sue funzioni di programmatore, di controllore, di soggetto attivo dell’economia e di mediatore tra le classi, trasformandosi – attraverso la torsione contrattualistica e individualistica del diritto – da soggetto autonomo ad agente della competizione di mercato, che supporta l’azione privata socializzandone i costi e che impone la concorrenza a soggetti recalcitranti. Con il declino dello stato – scandito dal passaggio dallo “stato fiscale” allo “stato debitore” – e l’eutanasia della politica che ne è seguita, le chances della democrazia di massa di limitare il potere assoluto del capitale e di imbrigliarne le tendenze più socialmente distruttive vengono drasticamente limitate, se non del tutto azzerate.

Il declino dei partiti, in particolare di quelli socialdemocratici e laburisti, procede contestualmente a quello dello stato, ne è ad un tempo causa ed effetto. Il loro ripiegamento difensivo, la revoca del sostegno all’azione collettiva, la rinuncia a criticare lo stato di cose esistente e a elaborare una propria visione della città futura, l’adattamento subalterno alle ragioni del mercato e l’allineamento delle loro agende di policy a quelle del fronte conservatore neoliberista, scandiscono le tappe di una deriva politico-intellettuale che accomuna le forze liberal-socialiste di opposizione e di governo di tutti i sistemi politici occidentali.

A questa involuzione dei partiti e dei sindacati hanno senza dubbio concorso decisivamente la destrutturazione dell’ordine di classe della società fordista e il conseguente venir meno della centralità sociale del lavoro salariato. La frammentazione del lavoro ne abbatte il peso politico nella società, incrinandone irreversibilmente “la capacità egemonica di diffondere oltre il suo perimetro la propria cultura e le proprie istanze”, e con essa la possibilità di contrastare l’inerzia dei processi spontanei di mercificazione. La disarticolazione dell’unità sociale del lavoro porta con sé la dissoluzione della identità politica delle forze che storicamente ne rappresentavano le ragioni e il declino dell’azione collettiva da queste organizzata.

 

  1. In questo scenario negativo, la possibile riscossa delle forze progressiste richiede una iniziativa articolata e condotta collettivamente, che muovendo dal fronte culturale e dalla sfera del pubblico investa la dimensione politico-istituzionale e tenda a farsi senso comune.

E’ anzitutto sul terreno della “cultura politica” che va condotta la battaglia antiliberista per la riforma democratica del capitalismo, dopo che il progressivo disarmo intellettuale della sinistra riformista ne ha azzerato l’autonomia ideale e programmatica. Occorre perciò, in primo luogo, ripensare l’identità della sinistra – la visione del mondo e la tavola dei valori che consentono di riconoscere “chi sono i nostri” – per impostare su questa base la lotta per l’egemonia e la critica ai fallimenti del mercato e alle degenerazioni del capitalismo. In questa riflessione sui fondamenti della propria identità, tuttavia, la sinistra non parte da zero: può contare su quel patrimonio di idee e di valori che è il legato della tradizione della socialdemocrazia europea (una “visione del mondo” è non solo una forma di partito o un cluster di politiche) che ne aveva alimentato l’azione collettiva e la cultura di governo. Questo patrimonio va senza dubbio aggiornato nel capitale cognitivo che lo alimenta e nella capacità di lettura della situazione, ma il nucleo valoriale e l’ispirazione etico-politica permangono attuali al nostro tempo e imprescindibili.

I protagonisti dello sforzo di emancipazione culturale dall’ipoteca egemonica nel neoliberalismo sono, in linea di principio, tutti i cittadini chiamati a partecipare alla elaborazione collettiva e alla discussione pubblica. In linea di fatto, tuttavia, almeno inizialmente, il compito ricade soprattutto sugli intellettuali (studiosi, esperti, operatori culturali inseriti negli apparati ideologici di stato e nel mercato culturale), a cui competono non solo l’elaborazione delle analisi e dei principi, ma la battaglia delle idee e la mediazione tra la politica e il mondo dei saperi.

L’altro livello di ricerca e di proposta è quello programmatico e di policy, per dotare la futura coalizione progressista di obiettivi, di agende e di strumenti all’altezza delle sfide che incombono. A questo proposito, le tecnologie istituzionali e organizzative disponibili per una possibile riforma del capitalismo contemporaneo sono paradossalmente, mutatis mutandis, le medesime che, a suo tempo, non ne hanno saputo contrastare la resistibile ascesa: il potere pubblico statale e i partiti. Si tratta di rimetterli all’ordine del giorno, criticandone le debolezze e i tralignamenti passati e promuovendone l’aggiornamento e l’innovazione in relazione a vecchi-nuovi obiettivi programmatici: piena occupazione, diritti sociali estesi, riduzione delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza.

Lo stato, in particolare, può e deve riconquistare la sua autonomia dalle pressioni particolaristiche e proprietarie, ridiventando un soggetto forte e autorevole, non più attore subalterno ed eterodiretto della governance neoliberale. Per recuperare il suo ruolo di terzo, di garante della legalità e di mediatore tra i gruppi e le classi sociali nella prospettiva del bene comune, lo stato del programma riformista deve tornare ad essere uno stato controllore, regolatore e interventista; ma anche uno stato proprietario e gestore (efficiente) di asset strategici che ne garantiscano l’autonomia di azione. Solo riappropriandosi di dotazioni di proprietà pubblica si può tornare a fare politica attiva e non solo amministrazione.

Uno stato ripoliticizzato e democratizzato non può fare a meno di partiti forti, rappresentativi, autorevoli. Questa esigenza, tuttavia, sembra entrare drammaticamente in conflitto con la condizione dei partiti attuali, la cui omologazione ideologica e la cui debolezza politico-organizzativa sono patenti, non solo in Italia (a cui viene dedicato un capitolo) ma in tutto l’Occidente democratico. Ma per l’autore, a quanto sembra di capire, le degenerazioni subite dai partiti di (centro) sinistra non sono irreversibili: la loro subalternità culturale può essere, per l’appunto, superata da una riforma politico-organizzativa trainata da un processo di rigenerazione intellettuale e morale e di ri-radicamento comunitario condotto non solo al loro interno, ma nel paese e nelle istituzioni.

L’ultimo – ma non certo secondario – punto del programma riformista vagheggiato dall’autore ha a che fare con la scala a cui la strategia e l’azione riformatrice devono rapportarsi. La riforma dello stato e dei partiti condotta sotto l’egida di una nuova cultura politica alimentata dalla tradizione socialista può trovare il suo sbocco, il suo consolidamento e le sue condizioni di efficacia solo in una dimensione sovranazionale, nell’ambito di una Unione Europea rinnovata nella sua missione, nelle sue istituzioni e nei suoi indirizzi politici e rilegittimata agli occhi dei cittadini che vi afferiscono. Un’Europa rifondata ma non rinnegata è la condizione perché la lotta per il rinnovamento della politica nazionale non si risolva in uno sterile velleitarismo protestatario o, peggio, in tentazioni neo-nazionalistiche e nella riesumazione di piccole patrie, che sarebbero condannate all’emarginazione e al declino. Quanti invocano l’uscita unilaterale dei loro paesi dalla moneta unica, inseguendo inesistenti chimere sovraniste e autarchiche “senza porsi il problema del poi”, lavorano in realtà per la catastrofe economica e politica. L’unica opzione realisticamente praticabile dalle forze progressiste è quella di un lungo viaggio attraverso la crisi europea, rimanendo criticamente e attivamente nel quadro dell’Unione, al fine di costruire dall’interno nuove condizioni di convivenza, di sviluppo e di cooperazione. L’obiettivo è di trasformare il gioco a somma zero che ha preso il sopravvento all’interno della UE e che minaccia di travolgerla, in un gioco a somma positiva. Questa strategia gradualista mette in conto un percorso accidentato, alieno da eroici furori e da accelerazioni estremistiche, non privo di rischi di regressione e di declino; un percorso di lungo periodo e non lineare, da intraprendere responsabilmente ma con la capacità di ridistribuire in itinere tra i paesi, le classi sociali, i territori costi e benefici della trasformazione.

 

  1. L’utopia moderata di Salvatore Biasco suscita rispetto e simpatia, stimola la ragione e comunica una passione controllata, modula attenzione critica e ottimismo della volontà. Occorre chiedersi, tuttavia, quali possibilità abbia la difficile prospettiva che l’autore addita di riunire forze e intelligenze disperse e a lungo mortificate e di suscitare gli entusiasmi collettivi e l’attivismo diffuso necessari a superare le difficoltà e i vincoli interni e esterni che lo stesso Biasco mette continuamente in risalto. Tenuto conto che il cantiere è aperto e che i lavori sono appena cominciati, può essere utile porre alcune questioni che possono suscitare perplessità e obiezioni soprattutto “a sinistra”.

Il primo punto, quello che, a ben vedere, sostiene tutto l’impianto propositivo, ha a che vedere con l’idea di riformabilità (“disciplinamento”) del capitalismo contemporaneo, idea che Biasco esplicitamente assume e rivendica. Questa convinzione, sembra di capire, si basa (tra l’altro) sul fatto che un capitalismo democratico, fondato su un patto sociale interclassista, è effettualmente esistito (nei trenta gloriosi) e ha prodotto conseguenze virtuose per le masse dei diseredati in termini di benessere, dignità e inclusione. Ma la possibilità di un futuro democratico del capitalismo può essere dedotta dal suo passato (intendendo qui “democratico” in senso consequenzialistico, riferito cioè ai risultati sociali che produce, e non meramente proceduralistico)? Dopotutto, quella del dopoguerra potrebbe essere stata (e da taluni è considerata) una parentesi in una tendenza organica del capitalismo alla polarizzazione sociale, all’esclusione economica, alla stagnazione secolare: una tendenza che ha trovato nei “trenta pietosi” e nella crisi attuale la sua conferma e il suo suggello. In questa luce, il trentennio felice del dopoguerra andrebbe considerato come il prodotto eccezionale di un cumulo di circostanze storiche e di una combinazione di eventi irripetibili: l’esigenza di ricostruzione dalle macerie del mondo, il rafforzamento dello stato uscito dal conflitto, il fascino della pianificazione e dell’economia pubblica dopo la crisi del ‘29, l’alta reputazione dei partiti antifascisti, lo scambio ineguale col Terzo Mondo. Soprattutto sembra aver agito in quel contesto il peso del “paradosso sovietico”, ossia l’esigenza di rispondere in Occidente alla “concorrenza”, ideologica e geopolitica, di una Unione Sovietica uscita rafforzata dalla guerra con concessioni sociali, che non a caso si sono esaurite con l’indebolimento prima e con il tracollo poi del socialismo reale.

Se si prende sul serio la tesi dell’eccezionalismo postbellico, occorre allora interrogarsi sulla possibilità di recupero e di ricodificazione di quegli strumenti istituzionali su cui si era edificato il compromesso socialdemocratico; in sostanza, stato forte sostenuto da sindacati e partiti di massa, economia mista, politiche keynesiane e di integrazione sociale. Forme e contenuti politici che, per alcuni, appartengono a un’epoca definitivamente trascorsa, che non trova corrispondenza nei modi di funzionamento e di organizzazione del capitalismo postindustriale mondializzato e della società digitale. E’ possibile resuscitare sindacati e partiti pro-labour (ammesso e non concesso che la loro omologazione neo-liberale sia reversibile) dotati di programmi sociali avanzati, dopo la scomposizione della società fordista e nella prospettiva inquietante della “fine del lavoro” indotta dall’automazione? E’possibile rimettere lo stato al centro della governance, riscattandone la debolezza e la perdita di autonomia, quando politica e economia da tempo lavorano di concerto per limitarne il potere e la legittimità? E gli intellettuali-chierici, come sono mobilitabili per uno sforzo collettivo, dopo il “tradimento” o il nicodemismo che ne hanno accompagnato il risalente disimpegno? L’Europa, infine, plasmatasi negli ultimi decenni a sostegno e a garanzia dei possessori dei titoli pubblici, dei banchieri e degli interessi delle multinazionali, e oggi dilaniata dalle pressioni delle lobby e dalle rivendicazioni centrifughe e dagli egoismi degli stati nazionali, come è recuperabile a una prospettiva non puramente retorica di integrazione e di democratizzazione? Tutto ciò – si aggiunga – in un quadro internazionale in cui i soli antagonisti dei processi di esclusione in atto sembrano essere i partiti neo-nazionalisti di destra sociale, xenofobi e sciovinisti, e non certo le disperse forze di una sinistra introvabile, compromessa agli occhi dei popoli dal prolungato connubio con l’establishment neo-liberale?

Si aggiunga che, in questo scenario depresso, il cammino accidentato e dimesso indicato dall’autore, costellato di rinunce, di sacrifici, di responsabilità, un percorso che “non ammette “soluzioni radicali che contraddicano la logica dell’accumulazione privata”, rischia di sembrare a molti un po’ troppo simile a una continuazione dell’austerità con altri mezzi; dove gli obiettivi di “avanzamento della socialità”, la creazione di “equilibri democraticamente più avanzati” non lasciano intravvedere momenti riconoscibili di discontinuità e di consolidamento. Sembra di capire insomma che, per l’autore, il movimento è tutto, se c’è una bussola culturale a orientarlo. Il punto è che “il movimento” allo stato dei fatti non esiste, bisogna crearlo (quasi) da zero. E suscitare adesione di massa, entusiasmi riformatori, azione collettiva, richiede quantomeno una prospettiva sufficientemente definita, traguardi riconoscibili su cui attestarsi, soprattutto un “mito positivo” in cui identificarsi. Vecchie storie, si dirà. Il superamento dello stato di cose presente sarà incrementale o non sarà. E allora mettiamoci al lavoro sperando di aver torto.