I BES (bisogni educativi speciali): occasione di inclusione o di esclusione?

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di Ivana Paganotto*

 

Nel 2013 con la circolare ministeriale numero 8 si è realizzata l’estensione «a tutti gli studenti in difficoltà il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento» e si è affermato che lo «strumento privilegiato è il percorso individualizzato e personalizzato, redatto in un Piano didattico personalizzato (PDP), che ha lo scopo di definire, monitorare e documentare – secondo un’elaborazione collegiale corresponsabile e partecipata – le strategie di intervento più idonee e i criteri di valutazione degli apprendimenti».

L’area dei Bisogni educativi speciali (BES) comprende, oltre alle situazioni di dis-abilità, «svantaggio culturale e sociale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse». I PDP prodotti collegialmente dai Consigli di classe, con cui predisporre misure dispensative e strumenti compensativi, devono essere firmati dal dirigente scolastico, dai docenti e dalla famiglia. E, data anche la genericità di questa definizione, a questo punto potrebbero riguardare, in certi casi non proprio infrequenti, quasi la metà degli allievi o anche più all’interno di una stessa classe.

L’intervento dei Consigli di classe è sostenuto da una rete istituzionale a diversi livelli: GLHI (Gruppo di lavoro per l’handicap d’Istituto), GLI (Gruppo di lavoro per l’inclusione), GLIP (Gruppo di lavoro interistituzionale provinciale), GLIR (Gruppo di lavoro interistituzionale regionale), CTS (Centro territoriale di supporto), CTI (Centro territoriale per l’inclusione). Certo, pretendere di introdurre l’innovazione nella scuola solo per via burocratica e a costi zero ha i suoi limiti. Ma tant’è, quando un Paese non è in grado, non lo è mai stato, di affrontare la formazione e l’aggiornamento permanente dei formatori e dei docenti che si occupano dei bambini e dei ragazzi che sono il futuro del Paese stesso, non  resta che fingere, nascondendosi dietro una giungla di sigle e imposizioni.

 

 

Un piano inclusivo per tutta la classe

Che fare? Si può prendere posizione a favore o contro la circolare. Si può protestare o polemizzare. Nel corso di questi anni una parte del corpo docente ha digerito anche questa provocazione ministeriale, questa ulteriore burocratizzazione di un problema reale e quotidiano dell’insegnamento. Così molti insegnanti hanno compilato, burocraticamente, molti PDP, senza che questo abbia influito sulle pratiche abituali nelle classi. Un’altra parte, perché non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, si è attivata per raccogliere la sfida e molte scuole hanno prodotto molte buone pratiche, che non hanno scalfito, tuttavia, il sistema scolastico nazionale né, tantomeno, quello universitario che si sarebbe dovuto occupare della formazione dei docenti. È di fronte a queste buone pratiche che bisogna chiedersi: anche se fosse possibile che la strategia dei Bes venisse proposta in modo serio e non cartaceo, e venisse accolta come una sfida impegnativa, dovremmo considerarla una buona strategia educativa? È proprio questo che intendiamo negare.

 

 

Scopriamoci tutti BES

Occorre prendere atto, purtroppo, che i PDP sono spesso strumenti di esclusione più che di inclusione. Spesso un ragazzo «dispensato» o «compensato» preferisce fare ciò che fanno tutti gli altri – che si sentono discriminati al contrario – anche se in modo imperfetto (e non si trova mai solo). E spesso ragazzi «normali» utilizzano proficuamente – e con la soddisfazione di dire: «Finalmente ho capito» – i cosiddetti strumenti compensativi, ma che tali non sono. Definire mappe e tabelle o qualsiasi altro mediatore o organizzatore grafico e procedurale come uno strumento compensativo equivale a dire che anche le automobili sono strumenti compensativi (e in un certo senso è vero dal momento che con le sole gambe saremmo tutti molto più lenti) e che quindi tutti noi abbiamo difficoltà di deambulazione e quindi «siamo tutti BES!».

I processi di astrazione e la costruzione dei concetti, per esempio, necessitano per tutti i ragazzi di una fase concreta-operatoria e di una fase facilitata da mediatori iconici: questo, indipendentemente dall’età anagrafica o dalla presenza di difficoltà di apprendimento (in tal caso ciò che si diversifica è per lo più il tempo di esposizione), riguarda piuttosto la familiarità e l’esperienza che si ha relativamente a un certo argomento o a una certa materia di studio. Tutto dipende dalla natura del pensiero e del linguaggio che, secondo gli studi più recenti, si fondano sull’analogia dell’esperienza fisico-corporea, su aspetti visuo-spaziali del pensiero, sull’intreccio mente-corpo all’interno di uno spazio topologico.

 

Mappe e tabelle e qualsiasi altro organizzatore grafico sono semplici supporti per sostenere e facilitare i processi di pensiero e comprensione di qualsiasi individuo quando affronta un argomento difficile per la prima volta. La vera sfida, oggi, è quindi progettare un piano pedagogico e didattico che sia inclusivo per tutti. Per una classe intera. Per una scuola intera. Una progettazione didattica che si faccia carico dei bisogni di tutti. Speciali e non speciali. Permanenti e temporanei. Problematici e non problematici. Senza velleitarismi. Senza l’illusione di risolvere tutti i problemi. Ma con l’intento di rendere le nostre classi più inclusive davvero, più a misura dei nostri ragazzi e anche di noi stessi.

 

Pur nel rispetto e nella necessità, a volte, di interventi molto mirati su particolari difficoltà di apprendimento, è bene predisporre ambienti strutturati sul massimo di “normalità” possibile. Come? Con un “Piano personalizzato per tutta la classe”, dove personalizzato significa curvato il più possibile sui processi naturali di apprendimento, nei loro tratti comuni a ogni persona.

 

 

L’assunzione di alcuni ingredienti fondamentali

Le ricette particolari e quotidiane possono essere molte. Le linee guida generali non possono non partire da alcuni ingredienti (assunti) fondamentali e noti.

L’orizzonte delle competenze di cittadinanza e del «Profilo delle competenze» al termine del primo ciclo di istruzione.

 

 

  • Gli interessi, le aspettative, le potenzialità creative e i livelli di partenza delle classi e dei singoli nelle classi.

 

  • La gestione delle dinamiche affettive e relazionali all’interno dei gruppi classe.

 

  • Un’alta aspettativa degli insegnanti nei confronti di tutti gli allievi e la convinzione che tutti possono imparare.

 

  • Un’alta fiducia dei genitori nelle potenzialità di comprensione e realizzazione dei propri figli secondo le loro disponibilità, rinunciando alla pretesa di vederli sempre primi rispetto a tutti gli altri.

 

  • La pazienza degli adulti (tutti) nel rispettare i tempi di ciascuno e nel tollerare l’errore e l’imprecisione (che è di tutti).

 

  • La convinzione che le facilitazioni procedurali sono una possibilità per tutti (come le automobili) e che manifestare difficoltà è un diritto di ciascuno.

 

  • Una forte curvatura della didattica sui processi cognitivi e metacognitivi di apprendimento (continua a essere questo lo specifico della scuola).

 

  • L’assunzione di un’epistemologia della complessità come lettura degli eventi (anche educativi) a diversi strati di manifestazione e intervento. La conseguente consapevolezza che si opera e agisce dentro orizzonti di senso, ma su e con processi di volta in volta specifici e viceversa. Muovendosi con leggerezza, vorrei dire con eleganza, lungo percorsi ora dall’alto verso il basso (dalla vastità degli orizzonti agli automatismi delle procedure) ora dal basso verso l’alto (dalla specificità delle procedure alla libertà degli orizzonti di significato).

 

  • Una panoramica organica della trama dei processi educativi nel loro insieme, con la consapevolezza che quando ci si focalizza e si lavora su un particolare processo tutti gli altri permangono e interagiscono come contesto e come sfondo.

 

 

Chiave di tutto diventa il termine «processo». Per processo qui si intende la sequenza di quelle operazioni, mentali e materiali insieme, che permettono di raggiungere un obiettivo. Le «Indicazioni nazionali» prescrivono il raggiungimento di traguardi di competenza in termini di obiettivi. È compito delle scuole individuare i processi corrispondenti e tradurli in percorsi specifici per raggiungerli, individuando che cosa fare (quale percorso) per raggiungere (quale processo di cambiamento: “da… a”) che cosa (quale traguardo), con chi (quali ragazzi e con quali interessi), partendo da dove (da quali preconoscenze), in quanto tempo (con quanto esercizio) e con quali mediazioni (quali strumenti di facilitazione e assistenza individuale cognitiva, affettiva e relazionale). Tutto questo all’interno di un ambiente didattico che, almeno potenzialmente, non escluda nessuno. L’educazione è come la democrazia: si propone ma non si impone.

 

 

Quando l’inclusione è una danza elegante

Ultimo giorno di scuola: mostre, filmati, esibizioni, concerti e giochi in cortile. In aula lettura due ragazzi illustrano, ai compagni che passano, una mostra di quadri ispirati a un libro di Calvino: Il visconte dimezzato. I visitatori si fermano, ascoltano il racconto, passano e lasciano il posto ad altri visitatori. Presi dalla responsabilità del momento e dall’essere portavoce del lavoro di un’intera classe, i due dimenticano le difficoltà di concentrazione e di comportamento e i loro certificati disturbi di apprendimento.

Una scena simile va in onda nell’aula di scienze, dove si illustrano insetti e reazioni chimiche, tra espositori e liquidi di vari colori. Dall’atrio si diffondono le note di una chitarra elettrica e di una tastiera: anch’esse con i loro itineranti spettatori. Dalla sala del concerto arrivano, a tratti, gli applausi. Così si succedono gruppi di ospiti diversi: un’ora e mezza di gloria e di motivazione per sconfiggere l’impulsività e la disattenzione, per dimostrare a se stessi, non meno che agli altri, le proprie capacità e competenze, per stracciare la bolla della diversità e della certificazione. Piccoli contrattempi vengono stemperati e ricompresi nel disegno complessivo di un tutto. Il culmine della giornata si vive in palestra: qui due ragazze danzano davanti ai compagni seduti tutt’intorno. Con le braccia disegnano l’aria, sorridono, si abbracciano, si respingono, si girano intorno. Una fa un balzo da un lato, l’altra fa una piroetta sulla sua carrozzella. Tutti applaudono l’eleganza e la leggerezza con cui entrambe, in armonia, si muovono. Si annullano le diversità. Ciò che tutti ammirano è un’unica coreografia. L’elemento che include è il disegno complessivo, l’insieme armonico dei movimenti, pur nella loro naturale diversità.

 

 

Apprendere per mimesi e partecipazione

Scene simili si ripetono e si vivono in tutte le scuole, troppo spesso con il sapore del momento eccezionale, dello spettacolo di fine anno. Ciò che accomuna i visitatori di mostre e i loro accompagnatori, le due ragazze che danzano e i loro cento spettatori è la partecipazione a un evento collettivo, il sentimento comune che attraversa tutta la palestra. Ciascuno fa la sua parte, con naturalezza, con eleganza e leggerezza: per questo si sente partecipe di un tutto. L’inclusione non è mai un fatto individuale: è sempre la partecipazione a un evento comune e collettivo nel quale identificarsi e rispecchiarsi.

Identificazione e rispecchiamento sono alla base della nostra percezione di essere simili agli altri e l’imitazione è la prima e più arcaica forma di apprendimento: un apprendimento per mimesi e partecipazione. L’inclusione non può solo essere il frutto di una contrattazione scuola-famiglia, ma deve diventare una normale esperienza scolastica che tenda ad accogliere e abbracciare tutti, dove sia possibile un apprendimento per partecipazione. L’inclusione è di tutti se è di ciascuno, sulla base delle proprie modalità espressive e interattive.

È possibile che ciò avvenga non solo l’ultimo giorno di scuola, ma nella pratica scolastica quotidiana? È possibile che avvenga non solo in palestra, non solo nei locali dei laboratori, ma anche nelle aule dove si fatica sulle regole da imparare, sui calcoli da fare e sui concetti da analizzare e memorizzare? È possibile che questa esperienza di partecipazione attiva coinvolga tutte le diversità: le difficoltà di vista, di movimento, di comprensione, di attenzione, di calcolo, di scrittura, di lettura, di motivazione, di lingua e di cultura…?

 

 

Lo schema della coreografia

Un piano didattico per l’inclusione o è una coreografia elegante in cui tutti trovano il loro spazio, ora da spettatori ora da protagonisti e attori, ciascuno con il proprio ruolo segnato dai propri limiti come dalle proprie capacità, o si trasforma, paradossalmente, nell’elogio e nell’esaltazione delle diversità. Da quando la pratica dell’osservazione eccessivamente analitica e della diagnosi ha portato alla ribalta le mille difficoltà e i «disturbi» nell’attenzione, nella motivazione, nella concentrazione, nell’apprendimento e tutti siamo diventati «BES», le scuole sono esplose in mille piani personalizzati e ogni allievo ha potuto ottenere il suo momento di attenzione, riconoscimento e orgoglio individuale e personale, se non in positivo, per lo meno in negativo.

Il fatto che, sempre di più, si senta il bisogno di richiedere (da parte dei genitori) e di formulare (da parte degli insegnanti) attenzioni particolari e piani personalizzati per chi vive maggiori difficoltà di altri è sintomo di una fragilità e di una insufficienza che investono tanto la famiglia quanto la scuola e, sicuramente, la società. Nelle nostre scuole si fa fatica a creare quelle coreografie adatte alle necessità dei ragazzi di oggi, con o senza difficoltà, che non sono più quelli di una volta per cui era – forse e, in ogni caso, non per tutti – sufficiente una didattica tradizionale.

La proliferazione di certificazioni che ci ha investito in questi ultimi tempi, ha spesso avuto come effetto una contrattazione individuale da parte di molte famiglie nei confronti dei consigli di classe. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’oggettivazione (certificazione e diagnosi) di un problema e l’uso di strumenti personalizzati (in una prospettiva individualistica più che individuale) deresponsabilizzano allievi, genitori e insegnanti, esaltano le diversità e il senso di esclusione, tanto che molti ragazzi, istintivamente, li rifiutano. Altri ne fanno un vanto e un privilegio da ostentare di fronte a compagni e insegnanti compresi.

 

 

Abbracciare tutto e tutti

Non sono le compensazioni individuali e individualistiche che includono, ma quelle coreografie collettive (chiamiamole anche progetti e ambienti di apprendimento) in cui ciascuno può trovare il suo spazio e una gamma di strumenti, anche compensativi, tra cui scegliere quelli che, di volta in volta, gli sono più consoni per provare e per provarsi. Quelle coreografie in cui le problematiche dei singoli vengono coinvolte e, quando possibile, stemperate in un disegno collettivo, in cui ciascuno può momentaneamente sorvolare sull’imperfezione della propria prestazione, perché la complessità della costruzione d’insieme supera la goffaggine dei singoli e diventa modello e esempio di apprendimento per tutti.

Inclusivi sono i progetti non personalizzati, ma rivolti a tutta la persona e a tutte le persone nelle loro dimensioni affettive, cognitive e relazionali; nel rispetto dei tempi evolutivi, questi sì, personali e individuali. Inclusivi sono i piani didattici che non eccedono nelle mediazioni per i diversi (stranieri, disabili, BES, DSA), non esaltano le diversità, ma prevedono azioni di sostegno a quei processi di pensiero che sono alla base dell’apprendimento a tutti comune. Inclusive sono quelle coreografie eleganti, leggere e collettive in cui tutti possono trovare il proprio posto e un po’ di visibilità personale dentro un disegno d’insieme, dove anche qualche intervento un po’ ingenuo o sgangherato di un singolo trova una collocazione nell’armonia di un contesto globalmente significativo, motivante e incoraggiante. Dove l’errore diventa occasione di riflessione, di valutazione per l’apprendimento più che di valutazione dell’apprendimento. Con i PDP (piani didattici personalizzati), per ridurre le differenze si richiedono interventi personalizzati, cioè differenziati (che differenziano/escludono). Tipica è l’espressione «Mio figlio è diverso, quindi deve fare cose diverse, avere libri diversi». Un piano didattico inclusivo non può mettere al centro le differenze (che emergono nei diversi livelli di capacità), ma le analogie, ciò che tutti hanno in comune: i processi emotivi, cognitivi e relazionali (la persona in tutte le sue dimensioni). Un piano didattico inclusivo mette a disposizione di tutti una molteplicità di facilitazioni e sostegni fruibili da chiunque, in modo che ciascuno, come in un supermercato, impari a servirsene da sé al momento del bisogno.

 

 

La complessità nell’agire pedagogico

Più che di compensazioni (anche se utili in certe occasioni) e di riduzioni di apprendimenti (a volte inevitabili), l’inclusione tende a ridurre le barriere alla partecipazione e si avvale di azioni di sostegno distribuite e diffuse, volte a abbracciare tutto e tutti. La realizzazione di tali coreografie richiede lo sforzo, la fatica e la collaborazione attiva di più docenti contemporaneamente e la compresenza di azioni di mediazione, diretta e indiretta, in tutte le dimensioni della persona: quella affettiva – relazionale, quella cognitiva – conoscitiva, quella delle interazioni di gruppo.

Un ambiente di apprendimento è perciò una trama complessa di architetture diverse, a loro volta già complesse, che si intersecano, interagiscono come le parti di un sistema che viene poi percepito, da chi lo fruisce, come un unico organismo onnicomprensivo. Una didattica progettuale, artigianale e laboratoriale, che comprenda momenti di ricerca e realizzazione di prodotti finiti, materiali o multimediali, facilita il coinvolgimento della persona nelle sue dimensioni di emotività, cognizione e relazione. L’approccio dell’apprendistato cognitivo e socio-relazionale entra nel merito dei processi di comprensione e costruzione della conoscenza che sottostanno a qualsiasi apprendimento.

L’esemplificazione tecnica delle procedure di concettualizzazione, il far vedere come si fa, anche attraverso l’uso di mappe, tabelle e altri organizzatori grafici e multimediali è di aiuto a tutti. Tanto più se si considera il mondo di immagini e di tecnologie in cui oggi si è immersi fin dalla nascita e che comporta un approccio all’apprendimento, ai processi di astrazione e di concettualizzazione che non è più quello tradizionale.

 

 

Microazioni diffuse e processi ricorrenti

In quest’ottica le metodologie si traducono in microazioni specifiche e processi ricorrenti, informali e diffusi che generano e, contemporaneamente, sono generati da una molteplicità di stati mentali: credenze e atteggiamenti dell’insegnante verso il proprio compito e il proprio pubblico; credenze e atteggiamenti degli allievi verso i pari e la scuola stessa.

L’insegnamento cooperativo, per esempio, non viene qui visto come un metodo o una tecnica da applicare ogni tanto e casualmente, ma un momento in continua alternanza con momenti individuali e una sensibilità permanente alla dimensione relazionale e motivazionale. La didattica metacognitiva è un’attenzione diffusa che punteggia qualsiasi momento di qualsiasi attività, fino a tradursi nella metacompetenza cognitiva di monitorare il proprio operato attraverso processi cognitivi superiori: riconoscere, valutare, ragionare e riformulare le proprie strategie operative e mappe mentali di sé, della vita quotidiana e del mondo.

Bastano, a volte, una serie di piccoli elementi ludici distribuiti, apparentemente, a pioggia – possibilità di scegliere, di agire e di muoversi, un po’ di rischio e di competizione anche informale e con eventuale attribuzione di punteggio, presentazione di materiali incompleti o incongruenti, sfide, tolleranza dell’errore, fare squadra e dare spazio al divertimento – per agire sulla motivazione, che è uno stato mentale attivo e non passivo.

Attraverso un’orchestrazione attenta di questi livelli ed elementi si può creare un ritmo, da combinare anche con l’alternarsi di fatica e riposo, velocità e lentezza, rottura e continuità, formale e informale, novità e tradizione, routine e fantasia.

La realizzazione di opere, la capacità di risolvere problemi e la conquista di competenze da esibire pubblicamente (non solo in mostre e spettacoli ma anche in una prova d’esame), oltre a essere oggetto di valutazione sia formale che informale, costituiscono motivatori allo studio abbastanza forti, ma bisogna tener conto anche del carico di fatica che comportano.

Anche l’accoglienza non può limitarsi alle attività di inizio anno, la presa in carico della dimensione emotiva dell’apprendimento è un atteggiamento costante: uno stile.

 

 

La spirale dell’inclusione

La crescita ha le sue esigenze formali… una di queste è soddisfatta (in senso matematico, ideale) dalla forma a spirale.

(Gregory Bateson)

Partire dall’assunzione dei bisogni dei ragazzi, così come vengono vissuti, è fondamentale. Nella fascia d’età dell’obbligo, il bisogno di far parte del gruppo dei pari è ineludibile. La prima e spontanea richiesta, quando si pone un problema da risolvere o un esercizio da svolgere, riguarda il poterlo fare insieme. Subito dopo i bisogni primari e prima dei bisogni di cultura e autorealizzazione, vengono i bisogni di sicurezza, autostima, riconoscimento e appartenenza. Imparare insieme è percepito dai ragazzi come divertente, nel significato, anche etimologico del termine, di allontanamento, sollevamento dalla fatica e dalla preoccupazione.

Risolvere problemi in due o tre, in un contesto di competizione tra gruppi e collaborazione fra individui, facilita la partecipazione di tutti e relativizza le ansie e le difficoltà individuali. Un po’ di competizione non va demonizzata ma inclusa, in quanto percepita come elemento ludico e inclusivo.

 

 

 

La leva della cooperazione

Una cooperazione leggera dentro un contesto competitivo altrettanto leggero, vissuta in modo informale e diffuso, monitorata in modo altrettanto informale e diffuso dall’insegnante, produce diverse categorie di risultati: • esiti emotivi/affettivi: riduce l’ansia e la paura individuale di sbagliare, alleggerisce la fatica che viene così condivisa, allena a riconoscere e gestire le emozioni per sintonizzarsi sulle emozioni degli altri;

  • esiti cognitivi/conoscitivi/metacognitivi: moltiplica la produzione delle idee, incoraggia il confronto e la co- costruzione del sapere, libera la creatività e la ricerca di soluzioni diversificate; • esiti relazionali/intenzionali: sprona ad assumersi la responsabilità nel fare la propria parte (soprattutto quando si lavora in due), sollecita a esprimersi nel perimetro di norme socialmente condivise, facilita l’appartenenza al gruppo e l’instaurarsi di rapporti di amicizia.

L’apprendimento cooperativo si presta a essere la prima e più immediata leva motivazionale, soprattutto quando la disaffezione alla scuola è la disposizione prevalente.

 

 

La leva della comprensione

La seconda leva, legata alla prima, è la comprensione: «C’è quel momento in cui non sei concentrata e non riesci a capire un procedimento di qualsiasi genere e dici: “Basta! Non lo capirò mai”. E poi magari, quando lavori in gruppo, lo capisci anche senza accorgerti». È la testimonianza di una ragazza dodicenne. Lavorare in gruppo non solo alleggerisce la fatica: permette di dialogare, confrontarsi, imitare gli altri, assumere punti di vista diversi.

Il capire ha implicazioni emotive e motivazionali forti. «Sono qui, in questa classe, e finalmente capisco! Quando non succede, quando non capisco niente, mi sfaldo, mi disintegro in questo tempo che non passa, mi riduco in polvere e un soffio basta a disperdermi». Questa volta la testimonianza è di Daniel Pennac in Diario di scuola. Com-prendere: afferrare con la mente, ognuno individualmente e con la propria mente. Si fa e si discute insieme, ma si capisce individualmente. I processi di comprensione implicano un coinvolgimento attivo, in prima persona, da protagonisti. Cosa possibile quando il compito implica diverse soluzioni tra cui scegliere, soprattutto discutendo con altri e provando e riprovando diverse combinazioni.

Ascoltare una lezione frontale è un compito che solo un adulto, esperto ascoltatore, può affrontare con la consapevolezza di non essere passivo. Ridurre i tempi della lezione-esposizione non esautora l’insegnante (poche informazioni, se essenziali, sono sufficienti), in compenso gli consente di trasferire tutto l’impegno nell’assistenza personalizzata ai singoli e ai gruppi durante le attività: l’esemplificazione (più che la semplificazione) di un esperto crea quell’ambiente di apprendimento che a buon diritto chiamiamo artigianale e laboratoriale, anche quando si tratta di artigianato cognitivo. In questo contesto gli strumenti “compensativi” dimostrano la loro forza di strumenti che facilitano i processi di pensiero, ricerca e ragionamento e la loro universalità.

In conclusione: la cooperazione attiva e rinforza la motivazione, la motivazione libera la concentrazione necessaria e la disposizione alla comprensione (facilitata anche da strumenti e tecnologie), la comprensione incrementa la motivazione che, a sua volta, facilita la partecipazione attiva e cooperativa. Ecco un ordito complesso e a spirale, una possibile struttura per una probabile, ma mai scontata, esperienza di inclusione.

La motivazione è l’elemento centrale, rispetto al quale la scuola può svolgere un’azione di sostegno (spesso non lo fa), che rimane tuttavia insufficiente senza una cooperazione (non sempre presente) con i contesti familiari e sociali. Infine, la riflessione come pratica argomentativa, frequente e generalizzata, conferisce consapevolezza e significato a tutto il sistema di processi, può contribuire ad arginare la reattività istintiva, a predisporre al ragionamento critico e a promuovere l’assunzione di autonomia e responsabilità.

Attraverso la riflessione metacognitiva il pensiero, da inesperto e inconsapevole, può diventare esperto e consapevole; da istintivo e primordiale, può trasformarsi in evoluto e ragionato, da opaco può divenire trasparente.

 

* Insegnante di scuola secondaria di primo grado e ricercatrice in campo pedagogico