Recensione a M. Franzini e M. Pianta, “Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle”

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Fin dal titolo, il saggio di Franzini e Pianta annuncia una tesi esplicita “Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle”. Si deduce che le disuguaglianze esistano, invadano molti aspetti della vita, dalla salute al lavoro, e sarebbe meglio contrastarle. Perché sono ingiuste, certo,

ma anche perché sono improduttive. Con dovizia di dati e di analisi, il libro dimostra che la forbice sempre più larga tra agio e disagio non è affatto l’esito del libero dispiegarsi dei talenti, dello spirito auto imprenditoriale, della adrenalina della competizione, ma il riprodursi asfittico dei privilegi. Quando i profitti aumentano più dei salari; quando i rendimenti del capitale sono più alti dei tassi di crescita; quando un’espansione finanziaria porta a rendite elevate che mettono sotto pressione la distribuzione funzionale del reddito, riducendo la quota dei salari; allora la diseguaglianza aumenta (pagg. 114 e 115).

Gli autori individuano più motori della diseguaglianza: il potere del capitale sul lavoro (la distanza di trattamento economico tra manager e operai in U.S.A. passa da 30:1 del 1978 a 296:1 del 2013); l’effetto delle rendite monopolistiche anche attraverso politiche protezionistiche e, simmetricamente, la progressiva debolezza della rappresentanza del lavoro, dalla frammentazione dei contratti all’offuscamento delle identità sociali, nonché l’arretramento delle politiche di welfare degli Stati. Saremmo quindi di fronte a una oligarchia dei ricchi, per nulla moderna casomai in salsa contemporanea, che induce gli autori, dopo aver esaminato le tutele dei privilegi, comprese quelle di ricchezza ereditata ben protetta dall’andamento favorevole delle tasse di successione, a parlare di “neo feudalesimo”. Lecito domandarsi, allora, che senso abbiano e abbiano avuto le politiche di pari opportunità, fondate sull’assunto per cui le garanzie di accesso ai punti di partenza avrebbero consentito il libero dispiegarsi delle capacità, quindi l’aumento di ricchezza collettiva. Nel testo si rintracciano numerosi esempi. Ad esempio, persistono le diseguaglianze nella speranza di vita e in proposito vengono riportati i dati epidemiologici dei quartieri attraversati dalla metropolitana di Londra secondo i quali nei passaggi si attestano popolazioni con attese meno favorevoli, man mano che ci si avvicina alle periferie. Analogo esito si è riscontrato esaminando le condizioni di salute e le cause di mortalità nei quartieri percorsi dalla linea 3 di Torino, da piazza Hermada a corso Toscana a Vallette. Si deduce che origini familiari, condizioni di lavoro più o meno esposte a rischi professionali, competenze culturali utili ad accedere ai servizi generino ancora differenze rispetto alla tutela della salute e all’accesso alle cure, pur in un sistema universalistico quale quello italiano.

Un altro indicatore significativo riguarda il coefficiente di elasticità intergenerazionale, ovvero il famoso ascensore sociale capace di portare i figli più in su dei propri padri. I dati riportati non lasciano spazi all’interpretazione. In Italia i figli dei dirigenti hanno una probabilità più che doppia rispetto agli altri di conseguire una laurea e, a parità di istruzione, il figlio di un manager guadagna il 26% in più del figlio di un operaio. Le cosiddette competenze informali, cioè le relazioni sociali che contano, sembrano avere una forza rilevante. Insomma, il soffitto di cristallo resiste e il paracadute sociale forse non lascia cadere del tutto, ma certo non garantisce un atterraggio morbido. Poiché questo quadro non produce benessere, anzi riproduce privilegi su quote sempre più ristrette, dovrebbe essere un interesse generale cercare di invertire la rotta. Il Fondo monetario internazionale e l’OCSE se ne sono accorti e cominciano a suggerire il rovesciamento delle politiche neoliberiste per favorire, invece, la riduzione delle diseguaglianze, parlano di salario minimo giuridicamente vincolante per contrastare il lavoro povero, di miglioramento delle relazioni industriali, di superamento della segmentazione nel mercato del lavoro, di rafforzamento delle istituzioni pubbliche. A questo punto gli autori, sulla scia di Pikketty, ci ricordano che la storia della distribuzione del reddito è profondamente politica e non può essere ridotta a meccanismi economici. La palla ritorna alla politica; agli autori il merito di aver posto il tema, con documentazione scientifica e analisi incalzante, in una epoca in cui il tema delle diseguaglianze sembra scomparso dall’agenda della policy. Al massimo ci si occupa di povertà, cioè degli effetti, non della rimozione delle cause.

Eleonora Artesio