Appunti su crisi e trasformazione nella scuola

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di Enrico Manera

 

Discomfort Zone

Affrontare il tema della scuola vuole dire fare i conti con un disagio profondo per i nodi problematici a essa collegati. Un disagio che, in un dibattito pubblico spettacolarizzante,

male informato e macchiettistico, ha dimensioni note e chiare solo a chi lo vive quotidianamente.

La scuola – pubblica, repubblicana e laica – è uno spazio in cui si concentrano le contraddizioni culturali, economiche e sociali del presente, più marcate perché si manifestano in fasi di trasformazione che toccano in primo luogo i suoi soggetti principali, gli studenti: è un luogo di formazione e di scoperta individuale, un punto di intersezione tra cultura alta e bassa, libresca e di strada; di avvicinamento alla sfera politica, nel suo senso più ampio. È un luogo attraverso cui guardare le pratiche di democrazia e di cittadinanza vissuta nel quotidiano.

Ponte tra le generazioni e mezzo di comunicazione con gli adulti fuori dalle famiglie, la scuola è quindi un punto di incontro/scontro tra visioni della realtà; è luogo in cui si sperimentano e si mettono alla prova relazioni di genere e di appartenza, affetti ed emozioni all’interno del gruppo dei pari e si testano le differenze tra l’involucro dell’ovvietà familiare e il diverso da sé, in tutte le sue forme. Il confronto con fenomeni emergenti per l’Italia come le migrazioni internazionali rende inoltre la scuola un laboratorio di multiculturalità molto più vivace e attivo di quanto non emerga dai media e dalla loro narrazione ideologica e stereotipica.

La scuola è un microcosmo, in qualche modo protetto rispetto al contesto più ampio della società ma ancora capace di durezza: ospita sperimentazione, innovazione e accoglienza ma anche nozionismo, conservazione e privilegio di provenienza socio-culturale a seconda dei contesti; riflette quello che succede al suo esterno ed è un osservatorio privilegiato sul paese reale e su un mondo dell’adolescenza che i genitori non vedono nella sua integrità e che ogni adulto continua a pensare a partire dai propri ricordi.

La funzione educativa che la scuola ricopre in modo primario è anche il modo in cui la società riproduce se stessa, o intende riprodurre se stessa, anche perché nel frattempo è in essa che il cambiamento sociale si mostra prima che altrove. Da qui l’idea che le politiche della scuola siano sempre in ritardo: al centro di dinamiche sociali in rapida mutazione, il sistema-scuola reagisce con strumenti datati e dalla diversa e dubbia efficacia. Ragionare sulla scuola nell’Italia del 2018 significa dunque mettere al centro della riflessione una più complessiva crisi della nostra società e le possibilità di elaborare soluzioni per uscirne; ma occorre ricordare che essa è un organismo plurale e complesso, che non può essere governato in base a logiche che non le appartengono. Come un gigantesco animale che respira, la scuola segue ritmi propri e cicli stagionali. A volte sembrano le danze incomprensibili degli stormi di uccelli migratori in volo. Visti da lontano, sembrano altro.

Come parlare, ad esempio, di riforme di programmi e di metodi per un mondo che cambia quando non sono ancora risolti i problemi di sicurezza elementari dell’edilizia scolastica?

Molti si sono affrettati a sposare il mito dei “nativi digitali” antropologicamente diversi, a    santificare il tablet e a proporne l’adozione massiva, senza che sia chiaro quali sono gli effetti in campo cognitivo della diffusione del digitale tra le nuove generazioni, senza che ci sia una diffusa conoscenza di didattiche digitalmente aumentate e senza tenere conto dei dati elementari di infrastrutturazione tecnica. Il fatto che in Italia si abbia l’età media dei docenti più alta d’Europa, un corpo docenti precarizzato e falcidiato dai tagli di personale, in molti ambiti praticamente inesistente sotto i quarant’anni, non è solo un problema politico e sociale, ma ha effetti di cui tenere conto per l’adozione e la promozione di politiche educative.

La stessa classe dirigente e opinione pubblica, non necessariamente “conservatrici”, che periodicamente deplorano perdita di valori e ignoranza nelle giovani generazioni è quella che ha avallato politiche di desertificazione intellettuale, morale e culturale che ne sono all’origine ed è quella che di fatto ha contribuito all’impoverimento e all’umiliazione del corpo docenti e alla ridefinizione, in termini peggiorativi, dell’idea di pubblica istruzione. La scuola pubblica nell’ultimo ventennio, oltre a essere andata incontro a tagli pesantissimi per quanto riguarda risorse e personale (che se avessero riguardato l’industria privata sarebbe state considerate epocali licenziamenti di massa), è stata oggetto di una controffensiva ideologica volta a delegittimarla in modo direttamente proporzionale alle politiche neoliberali e neoliberiste che hanno inteso riformulare la nozione di “educazione” sostituendola con quella di “formazione permanente” e, in modo surrettizio e nel precipitato dei fatti, di “addestramento”.

Al netto delle migliori intenzioni riformistiche, la retorica delle competenze e dell’Europa ha esasperato nei fatti alcuni aspetti formalistici e burocratici svuotando di contenuti il meglio di molte esperienze pedagogiche. Il ruolo dei docenti, della loro formazione e condizione professionale (e psicologica) sono tanto importanti quanto sottovalutati; lo dimostrano gli studi internazionali comparativi che correlano successo formativo, qualità degli insegnanti, sviluppo umano di un Paese.

 

Quid noctis?

La Legge 107/2015, nota come Buona scuola, ha comportato elementi di discontinuità che non è facile valutare, anche se molte ragioni della sua impopolarità tra i docenti sono fondate. Segnato dalle circostanze di crisi politica e blindato per passare alla camere, il testo di legge sorprende (negativamente) a partire dalla sua forma: 1 solo articolo con oltre 210 commi, di cui alcuni lapidari e brevissimi (i commi 180 e seguenti) sottoarticolati in decine di punti. Con la formula della delega al governo si è rivista, attuandola progressivamente, la totalità delle norme relativa alla «codificazione delle disposizioni legislative in materia di istruzione»: riordino sistema, concorsi nazionali, formazione, classi disciplinari, sostegno, inclusione, disabilità, integrazione, educazione e istruzione dalla nascita fino a sei anni, diritto allo studio, promozione della cultura, valorizzazione del patrimonio, cooperazione internazionale, adeguamento della normativa in materia di valutazione e certificazione delle competenze degli studenti, esami di Stato.

Cifre e numeri, molto tecnici e poco decifrabili, non sono risultati chiari per modalità di tempi e erogazione, capitolati di spesa. Rispetto ai decenni precedenti è ritornato un finanziamento alla scuola, pur in misura insufficiente rispetto ai tagli precedenti, impressionanti e comunque maggiori rispetto a quanto disposto. Si è giunti a un’idea di autonomia scolastica, per certi aspetti potenzialmente virtuosa, ma che rischia di frammentare ulteriormente la realtà su base territoriale, concentrando poteri nelle mani di ciascun dirigente, in assenza di una solida tradizione di amministrazione in tal senso. L’impianto generale di ridefinizione di ambiti, organici e curricula è improntato a un’idea anglosassone, tecnocratica e meritocratica: una scelta di modernizzazione che si scontra con il fatto che nella società italiana (ma è possibile parlarne davvero al singolare?) tale sistema possa alimentare il clientelismo in diverse aree del paese e, ovunque, aumentare la polarizzazione tra scuole d’élite e scuole svantaggiate o disagiate dal punto di vista del territorio.

La legge ha espresso non solo le difficoltà politiche in cui è sorta, ma è anche l’immagine di un governo che ha fatto del racconto della scuola uno snodo del suo storytelling: una scenetta edificante, non esente dal kitsch, di un paese vecchio, malato e rigido in cui la scuola si fa luogo di svecchiamento, rinascita e crescita per tornare a “essere grandi” nel mondo e nella cultura. Inoltre sembra trascurare che la scuola sia un sistema plurale, risultato del lavoro collettivo di molti soggetti (studenti, docenti, famiglie, personale tecnico amministrativo), conservativo per struttura, minato al suo interno dai peccati di origine – la riforma Gentile, l’influenza della Chiesa cattolica, le ipoteche fascistizzanti e poi moralistiche, la mancata formazione pedagogica specialistica – confuso dalle mai compiute molte riforme intermedie, dai diversi sistemi di arruolamento del personale, gravato di burocrazia pesante, ma in realtà attraversato da larghe sacche di anomia e stravolto dai cambiamenti sociali che deve fronteggiare, da solo e contro tutti gli altri sistemi culturali.

A molti osservatori è parso che, se la narrazione scolastica nazionale reinterpreta le direttive europee – proprio laddove l’idea di Europa sta saltando ovunque –, manchi una chiara e coerente visione di cosa debba essere la scuola della Repubblica a 70 anni dalla Costituzione che la vede come elemento centrale.

 

Scuola e cittadinanza

La scuola è indiscutibilmente, nel suo esercizio quotidiano, un presidio di democrazia reale, inclusiva e partecipativa; è il caso di ricordare il vero e proprio deficit cognitivo che riguarda una cospicua fetta della società italiana: l’analfabetismo, di ritorno o funzionale, di generazioni che hanno vissuto le scuole autoritarie (è bene ricordarlo, quelle che secondo la vulgata generalistica funzionavano bene) si mescola con le difficoltà di scolarizzazione e formazione di buon livello che si osserva, non solo ma maggiormente, tra fasce sociali deboli e indebolite dalla crisi economica. Un cittadino su tre non è in grado di comprendere il significato di un discorso complesso, il numero di giovani neet (not in education, employment or training) impressionante. La ricerca sociale mostra che nella scuola la diseguaglianza continua a esistere: negli accessi, nell’abbandono, nella ripetenza e nel conseguimento dei risultati, rispetto agli esiti e alle competenze acquisite e in rapporto con la posizione sociale occupata. In termini storici, se per un breve periodo della storia, dagli anni Sessanta agli Ottanta, la scuola italiana è stata un fattore di mobilità sociale verso l’alto, da tempo essa non lo è più e riconferma differenze sociali che paiono sempre più ampie.

Non solo la scuola è in crisi: la crisi a scuola si sente, si vede più che altrove, semplicemente perché la società reale (non la sua rappresentazione mediatica e le astrazioni statistiche) passa dalle scuole, abitate da piccoli e giovani cittadini e cittadine che chiedono ogni giorno ragione della frattura tra il mondo ideale che i docenti spiegano e quello che essi vivono. La scuola non produce più cambiamento sociale ormai da tempo: quando va bene è in grado di arginare situazioni di disastro, in virtù dell’impegno umano e professionale di chi lavora. Contrariamente a quanto sostengono editorialisti nostalgici del loro liceo classico e scrittori di best-sellers di genere apocalittico-scolastico, la scuola non ha innescato il (presunto) declino: lo ha subìto e gli si è avvitata intorno in quanto (unico?) istituto di socializzazione e acculturazione pubblica settato su un modello antropologico-cognitivo che attribuisce valore emancipativo e sociale al sapere, più o meno resistente alla mercificazione e alla mediatizzazione.

Il sistema scolastico è stritolato da contraddizioni. Funziona come un meccanismo, a tratti ottuso e inceppato a volte creativo e libero, producendo e diffondendo saperi umanistici e scientifici in cui nessun altro soggetto istituzionale sembra più credere, salvo rilanciare slogan di retorica impacciata. E lo fa con programmi e metodi alla cui efficacia molti docenti non credono più, con margini di libertà e di felicità sempre più stretti.

Quanto di questa scuola serve ancora? In una società che sembra rifiutare la cultura, se non in alcune nicchie di industria culturale e spettacolarizzazione, in che modo possiamo insistere con il canone dei saperi ereditato? Se crediamo ancora nel suo valore formativo, quali sono le condizioni per la sua diffusione? Siamo sicuri che il canone novecentesco, gravato di ipoteche sui fondamentali della conoscenza, sia ancora integralmente valido proprio nel momento in cui le neuroscienze stanno cambiando il modo di vedere il vivente (anche nei saperi umanistici)?

Un’estrema concretezza suggerisce, a seconda dei contesti e dei bisogni, dei gradi di scuola e dei diversi livelli di sofferenza, che si tratti di socializzare alla cultura con sensibilità e attenzione i figli della middle class impoverita e i “nuovi cittadini” (figli di genitori non italofoni) che stanno cambiano il volto del Paese, accettando anche mediazioni sull’estensione dei contenuti in favore di un metodo efficace che renda le persone competenti, autonome e critiche: è decisivo per la tenuta degli elementi fondamentali per una partecipazione attiva alla cittadinanza. D’altro canto, è auspicabile ampliare il più possibile la fascia di studenti già molto competenti, che vengono (mediamente) da famiglie ad alto capitale culturale e/o sociale (statisticamemente a reddito medio-alto), sostenendoli verso l’innovazione e la ricerca, anche come risorsa strategica per il futuro e per evitare che la cosiddetta “fuga dei cervelli” si trasformi in “diaspora” intellettuale.

 

Fantasie di redenzione e bisogni reali

Il discorso dominante sulla scuola digitale risente, a mio avviso, di un’eccessiva fiducia nell’idea che i cosiddetti “nativi digitali” siano un fattore spontaneo di modernizzazione e progresso, al punto di trascurare il supporto alla formazione per l’innovazione di tutti i soggetti coinvolti. La dotazione di wi-fi e banda larga a tutte le scuole e le classi sarebbe certamente una condizione strutturale minima per una didattica attiva e la formazione di una cittadinanza critica, tra le priorità dell’insegnamento contemporaneo, in particolare nella scuola secondaria.

Qualora fossero risolti i problemi di investimento sull’hardware e sull’aggiornamento dei sistemi, rimane centrale il nodo della formazione e rimotivazione dei docenti (in modo particolare per il docente “medio”, formatosi in era pre-informatica, non specializzato in materie tecniche o professionalizzanti e non incluso tra le significative avanguardie che ci sono): tra insegnanti e studenti (e tra gli studenti stessi) è infatti presente un serio problema di digital divide, in termini tecnologici, ma anche un gap culturale generazionale sul senso di fondo di cosa sia la cultura.

La questione della formazione dei docenti è ancora insufficiente e correlata a quella contrattuale: inoltre la recente introduzione dell’obbligo di formazione annuale dei docenti appare in controtendenza rispetto agli anni precedenti, quando la spinta al risparmio per le sostituzioni dei docenti è stato un fattore che ha avuto un ruolo dissuasivo rispetto all’aggiornamento.

Sul tema della distanza tra intenzioni e realtà meriterebbe un discorso a parte la discussa Alternanza scuola-lavoro che, volta allo sviluppo di competenze in relazione al rapporto con il mondo esterno alla scuola, nei fatti e in dimensione massiva si è trasformata nell’utilizzo di studenti come manodopera dequalificata non retribuita. Per non dire degli strumenti di valutazione tratti dal mondo dell’industria e della certificazione della qualità, che non possono facilmente essere applicati a istruzione e apprendimento se non con la riduzione a una contabilità basata su nozionismo, quiz e correlati a un sistema di ranking discutibile ed epistemologicamente dubbio. Nella creatività, nella produzione scientifica come nell’apprendimento, che è sempre situato in contesti molto diversi, vi sono elementi difficilmente ponderabili, come il differenziale tra dati di ingresso e di uscita, che nessuna griglia potrà mai controllare e restituire completamente. È surreale piuttosto che i modelli di valutazione, già obsoleti e problematici nell’industria, possano essere adottati tardi e male, in modo fideistico e deterministico, in un sistema nel quale non sono pertinenti.

Se ritorniamo al rapporto tra scuola e agenda digitale, in estrema sintesi non è chiaro come nelle scuole si possa passare (posto che abbia senso farlo) da una prassi testuale e cartacea legata alla lezione frontale e un’ideale, digitale e produttiva, legata alla dimensione laboratoriale e performativa. Invece di additare un futuristico idillio tecnologico capace di sanare una scuola multi-problematica si tratterebbe di progettare ponti e strategie per avvicinare i lati dell’abisso che ancora separa le due dimensioni.

Come mostra un ampio dibattito, l’idea di una competenza digitale innata nelle nuove generazioni o di una rivoluzione antropologica è sostanzialmente un mito privo di fondamento. A fronte di stimoli multimediali continui la priorità è sostenere la capacità di effettuare ragionamenti complessi e di esercitare la critica: la scuola deve continuare a occuparsi di contenuti in relazione anche agli strumenti digitali, quando questi sono un valore aggiunto e semplificano il lavoro perché sono già strumenti di comunicazione tra gli interessati; deve sviluppare competenze di valutazione delle fonti applicate alla rete, affrontare sistematicamente l’educazione all’uso e alla frequentazione dei media, tradizionali e sociali; mettere a fuoco come problematici irradiazione, diffusione, condivisione delle informazioni; promuovere la decodifica dei percorsi di autorità, validazione e manipolazione e agevolare il riconoscimento di cause ed effetti sociali del sistema; educare alla gestione delle relazioni in rete, in particolare nel mondo dei pari e nel sommerso adolescenziale delle chat e delle reti legate agli smartphone (qualsiasi contrasto al “cyberbullismo” è altrimenti destinato al fallimento).

Tablet, Lim (lavagna interattiva multimediale), connessione continua e risorse open, scambi di comunicazione in ambiente social, non sono di per sé portatori di valori: sono ulteriori strumenti, delicati e complessi (anche per gli effetti socio-cognitivi poco noti che hanno) che devono essere inseriti in un progetto di scuola il cui fine sia trasmettere/accrescere il paradigma culturale della cultura italofona come bene comune; una peculiarità storica come risorsa (e non come “riserva”) rivolta all’Europa e alla mondializzazione, sia per le lingue che per il decentramento dello sguardo.

Usare in modo consapevole e realistico le tecnologie dell’informazione e comunicazione (TIC) significa prima di tutto trovare forme di integrazione tra quanto già esiste e funziona nella scuola, innovando non nel senso di un’irrealistica cyber-accelerazione, né con l’idea che basti convertire il manuale in formato pdf e proiettarlo su una lavagna interattiva. L’innovazione principale che l’uso delle TIC può supportare, in particolare nelle scienze umane, sta nelle opportunità insite nei dispositivi tecnologici volti a ricercare, editare e “produrre” materiali di testo e immagine, all’interno di una didattica che, ridimensionando la dimensione frontale, sia orientata in senso costruttivista.

Molte sono le cose da fare, tra le tante possibili e realizzabili: insistere sul metodo e sul come si conosce, scegliere con attenzione su cosa concentrarsi nella programmazione; rinunciare alla sola trasmissione e riproduzione codificata nel nesso lezione/interrogazione, in favore della ricerca e della dimensione attiva, della produzione cooperativa di sapere e dell’interdisciplinarietà, integrando forme diversificate di valutazione. Riscoprire i classici di ogni epoca e ambito e la loro presenza nel mondo della cultura digitale, valorizzare gli strumenti “classici” (romanzi, atlanti, matite, messe in scena, riscritture, attività visuali e musicali…) in una prospettiva che valorizzi la scoperta e lo scambio tra saperi, soggetti, generazioni, culture.

 

Verso dove?

In una situazione di crisi dell’educazione è utile rivolgersi a una pluralità di strumenti coraggiosamente diversi, dalla didattica in compresenza alla didattica laboratoriale, all’uso educativo delle nuove tecnologie comunicative. Da questo punto di vista, lo si è già detto, l’uso dei diversi media deve essere insegnato e integrato con quello tradizionale.

Ogni riforma deve tenere conto dei fattori extrascolastici e non può prescindere da un progetto di società più vasto e di ampio respiro: l’età media dei docenti è troppo alta, la permanenza nel sistema educativo troppo lunga; i carichi di lavoro sono sempre più gravosi e complessi, i cambiamenti sociali e culturali stridono con la sola didattica frontale e necessitano di un cambio di prospettiva nel senso di una discontinuità rispetto a strumenti e finalità dominanti nel passato. Le analisi comparate dei sistemi educativi internazionali confermano che, in sistemi molto diversi, i risultati migliori basati sulle competenze degli studenti sono correlati all’alta qualità dell’insegnamento, cioè quello professionalmente formato e retribuito, animato da senso di responsabilità nel raggiungimento di obiettivi condivisi e da una convinzione democratica, politica, civica e morale sottostante.

In questo senso sembra prioritaria la riconquista del ruolo intellettuale del docente, accompagnato a una didattica sensibile e digitalmente integrata, sensibile all’inclusione e all’emancipazione, che si associ a formazione universitaria il più possibile aggiornata dal punto di vista della ricerca.

Insegnando contenuti si insegna a imparare e decifrare la realtà: difficoltà, distanza e urto con la complessità vanno mantenute, si deve insegnare a affrontarle e a rispettarle. Per moltissime persone solo a scuola è possibile l’incontro con la contraddizione, l’utopia e il riscatto della scienza e dell’opera d’arte, una relazione con l’educazione estetica oggi più che mai tristemente assente. La scuola è il luogo in cui si dischiudono le possibilità del potenziale emancipativo dei saperi e del loro valore ricreativo. Deve poterlo fare anche senza la ricerca di un’immediata spendibilità lavorativa, che troppo spesso si trasforma in ricatto rispetto ai desiderata e alle scelte vocazionali al momento dell’orientamento.

La scuola è e deve essere inoltre il luogo in cui si renda chiaro, a più generazioni, che senza impegno, fatica e dedizione non si raggiungono risultati, quali che siano gli obiettivi. In questo senso la battaglia politica contro la dismissione dell’educazione pubblica è la difesa di un bene comune, radicato nell’idea che l’istruzione ha ruolo cruciale nella salute del Paese. La professione docente, senza intraprendere crociate o missioni, ha un peso decisivo nel poter indicare vie per la felicità della mente o nell’avvicinare gli studenti a qualcosa di diverso da ciò che da cui sono partiti.

Ripensare la scuola significa anche smontare l’idea che l’identità – chi si è, cosa si vuol fare, cosa si vuol diventare – sia qualcosa come una sostanza fissa e rigida già data. Le identità, personali, sociali, culturali, sono appartenenze riflessive e consapevoli, risultato di processi dinamici e plastici, di costruzione e ricostruzione. Prevedono lavoro, routine, errori, cadute, ripensamenti oltre che meraviglia, scoperte, risultati e soddisfazioni.

Quasi sempre, tutto inizia a scuola.

 

http://www.doppiozero.com/speciale/sala-insegnanti

 

  1. Ambra (a cura di), Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola, collana gli ebook de«Il lavoro culturale», 2015 http://www.lavoroculturale.org/teste-colli-lebook-buonascuola/

 

  1. Bonato, Sospendere la competizione, Mimesis, Milano 2015

 

  1. Caliceti, Una scuola da rifare, Feltrinelli, Milano 2011

 

  1. Casati, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Laterza, Roma-Bari 2013

 

  1. de Conciliis, Che cosa significa insegnare?Cronopio, Napoli 2014

 

  1. De Michele, La scuola è di tutti, Minimum Fax, Roma, 2010

 

  1. M. Cavaletto, A. Luciano, M. Olagnero, R. Ricucci, Questioni di classe, Rosenberg & Sellier, Torino 2015

 

  1. Galfré, Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia del Novecento, Carocci, Roma 2017

 

  1. Lorenzoni, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica,

Sellerio, Milano 2014

 

  1. Raimo Tutti i banchi sono uguali. La scuola e l’uguaglianza che non c’è, Einaudi, Torino 2017.

 

  1. Roghi, La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole,Laterza, Roma-Bari 2015

 

  1. Romito, Una scuola di classe. Orientamento e disuguaglianza nelle transizioni scolastiche, Guerini, Milano 2016

 

  1. Rossi-Doria con G. Tosoni, Insegnare. Intervista sulla scuola che ci meritiamo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2015

 

  1. Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio, Milano 2013