Recensione a Maurizio Franzini e Mauro Pianta, Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle, Laterza, Roma-Bari 2016

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di Adriana Luciano

 

In questo bel libro di agevole lettura, ricco di dati e di proposte politiche, gli autori ci propongono un affresco molto convincente del capitalismo del XXI secolo e

dei meccanismi economici che lo governano. Lo fanno sulla scorta di analisi poderose come quelle di Piketty e Atkinson con un intento allo stesso tempo divulgativo e orientato alla ricerca di risposte a quell’arretramento della politica che è causa e conseguenza dello strepitoso aumento delle diseguaglianze che caratterizza questo nostro tempo.

La critica al neoliberismo e ai suoi effetti sulla distribuzione del reddito, delle ricchezze e delle chances di vita della popolazione si articola nell’analisi di quattro fattori che hanno contribuito alla crescita delle diseguaglianze. Di questi il primo ha un’indubbia primazia sugli altri. È la sconfitta del lavoro nei confronti del capitale ad aver aperto la strada al prevalere del capitale finanziario su quello produttivo, ad un uso delle innovazioni tecnologiche che ha prodotto una crescente marginalizzazione del lavoro vivo, ad una radicale de-regolazione del mercato del lavoro.

Da questa storica sconfitta discendono quei processi che gli autori considerano come i principali motori della diseguaglianza. Il capitale si rafforza, si concentra e diventa un’oligarchia capace di estendere e difendere i propri privilegi e di trasmetterli alla propria progenie. Si spezzano le solidarietà collettive politicamente sconfitte e private delle condizioni materiali della loro riproduzione: precarietà, moltiplicazione di rapporti contrattuali, erosione di diritti. La politica è causa e conseguenza di questa grande trasformazione. Il neoliberismo ha messo al bando le politiche socialdemocratiche, ha reso culturalmente accettabile lo smantellamento del welfare, ha favorito la liberalizzazione dei mercati e la privatizzazione di beni pubblici e di beni comuni.

Il dubbio che può venire leggendo questo libro non è se le tendenze che vi vengono rappresentate siano o non siano empiricamente verificabili ma se, all’interno di queste tendenze che si possono cogliere in uno scenario internazionale, le singole realtà nazionali e, in particolare, la vicenda italiana non presentino caratteristiche peculiari che a quell’affresco mal si adattano.

Mi spiegherò con un esempio. Prendiamo la distribuzione del reddito. Se si calcola la quota di reddito dei più ricchi, l’Italia presenta una distribuzione non dissimile da quella degli altri paesi altamente industrializzati (sempre a qualche distanza da USA e Regno Unito che sono i paesi in cui sono più aumentate le diseguaglianze). Ma se il reddito dei più ricchi viene confrontato con il valore della mediana, l’Italia, insieme alla Svezia, mostra il valore più basso, un valore che si è ulteriormente ridotto dal 2000 al 2010. A indicare, probabilmente, che il processo di polarizzazione non ha completamente desertificato la zona intermedia della stratificazione sociale. Il punto è proprio questo: le analisi del capitalismo del XXI secolo a cui Franzini e Pianta si ispirano, portando ulteriori prove empiriche del processo di polarizzazione che ha investito le nostre società, ci mostrano completamente vuoto il centro della stratificazione sociale. L’attenzione è attirata sui ricchissimi e sui poverissimi. Ma il centro non è affatto vuoto, soprattutto in paesi come l’Italia che pure si contendono il primato delle povertà assolute. Il cosiddetto ceto medio, ancorché impoverito, continua ad essere la struttura sociale portante di una società che proprio perché non ha del tutto attraversato la grande trasformazione vede convivere nuovi e vecchi ceti medi, con i primi che stentato a farsi strada e i secondi che resistono nei loro fortini protetti da sistemi di regole che ne difendono piccoli e grandi privilegi. I tassisti – periodicamente all’onore delle cronache – sono solo il gruppo più chiassoso. Molto più silenziosi e protetti sono i notai, i commercialisti, gli avvocati, i quadri elevati della pubblica amministrazione, i politici di professione, ecc.

C’è poi uno strato di imprenditori, che secondo lo schema capitale-lavoro sta indubbiamente dalla parte del capitale, i cui comportamenti non possono certo essere ricondotti ai processi di finanziarizzazione e di arroccamento oligarchico, stile ancien régime, che hanno dato vita alla nuova classe dei grandi ricchi. Questi imprenditori sono stati protagonisti, soprattutto in Italia, di una fase dello sviluppo capitalistico in cui la piccola impresa e le reti di sviluppo locale sono sembrate in grado di proporsi come un modello di capitalismo, alternativo a quello delle grandi multinazionali, egualmente in grado di affrontare le sfide della globalizzazione. La crisi del 2008-2011 ha fortemente indebolito questo gruppo sociale. Il suicidio di alcuni imprenditori ha segnato drammaticamente la fine di un’epoca. Ma ancora oggi il capitalismo italiano sopravvive perché resiste un mondo di piccole e medie imprese che ha saputo innovarsi e che continua a produrre profitti, seppure in un contesto politico e sociale non particolarmente amichevole.

Di tutto questo mondo che si muove tra gli estremi della stratificazione sociale non meriterebbe far menzione in un’analisi che guarda a tendenze internazionali di lungo periodo se non ci si ponesse il problema delle politiche che possono contrastare l’aumento delle diseguaglianze sociali. Ma è proprio a questo che Franzini e Pianta traguardano la loro analisi. Il quinto capitolo del loro libro si intitola, infatti: “Quali politiche per una società egualitaria?” Il ricco inventario di proposte elencate in questo capitolo mette al centro le politiche pubbliche di tipo redistributivo. È un inventario di regole che dovrebbero porre limiti al potere finanziario, separando le banche commerciali da quelle di investimento e inasprendo la tassazione sulla ricchezza; trasferendo allo Stato e ai lavoratori una parte dei profitti che derivano dagli aumenti di produttività; imponendo tetti alle retribuzioni più elevate nel settore pubblico; introducendo maggiore progressività nel sistema fiscale. E altre ancora.

Ma è anche un inventario di politiche tese a ridurre le posizioni di rendita e a disincentivare meccanismi ascrittivi di trasmissione delle risorse in favore di meccanismi acquisitivi. Appartengono a questa famiglia di proposte quelle orientate a favorire opportunità di accesso all’istruzione, a rimuovere ostacoli alla competizione per i posti, a ridurre i privilegi, a favorire la contrattazione sindacale, a introdurre forme di salario minimo e di reddito minimo.

Alla realizzazione di questo ambizioso programma di redistribuzione di reddito e di messa in atto di meccanismi di tipo acquisitivo per l’accesso alle risorse economiche e sociali fanno da ostacolo – ci dicono i nostri autori – le resistenze di carattere culturale e la forza di quei soggetti che trarrebbero svantaggio dalle politiche egualitarie. E qui sta il problema. Chi sono i soggetti che trarrebbero svantaggio da politiche egualitarie? Non certo in primo luogo i ricchissimi, perché la loro ricchezza non conosce frontiere nazionali, si sposta velocemente là dove i vantaggi fiscali sono più alti e il sistema di regole più generoso. Le politiche egualitarie toccano gli interessi di numerosi gruppi sociali che trarrebbero vantaggio da alcune politiche e svantaggio da altre. Una scuola più aperta metterebbe a rischio il valore di credenziali educative già ora poco riconosciute dal mercato del lavoro, una maggiore progressività delle imposte colpirebbe i lavoratori dipendenti più degli autonomi, l’eliminazione di albi professionali che non hanno riscontro in altri paesi provocherebbe la forte resistenza di gruppi sociali che godono di elevata protezione politica. E così via. In società come la nostra in cui non dominano tanto gli individualismi quanto le solidarietà di piccolo raggio e le appartenenze comunitarie è più grande l’invidia sociale di corto raggio, quella che scaturisce dal confronto con gruppi limitrofi, di quanto non lo sia la disapprovazione sociale delle grandi diseguaglianze. Sono fenomeni ben noti, non solo ai sociologi, che spiegano perché ci si adiri di più di fronte allo stipendio di un superburocrate che non di fronte alla ricchezza e al potere di quel ristretto gruppo di persone che governano le fortune del mondo.

Di fronte alla constatazione che la politica ha rappresentato negli anni passati una delle leve che hanno favorito l’aumento delle diseguaglianze, Franzini e Pianta concludono il loro libro con un appello alla società civile perché si faccia portatrice dei valori dell’uguaglianza e attivi un processo politico capace di imporre democraticamente un’inversione di rotta. Questo richiamo alla società civile fa il paio con la conclusione dell’ultimo libro di Luciano Gallino (Il denaro, il debito e la doppia crisi) che, muovendosi lungo la stessa traiettoria critica, alla fine si appella a un ipotetico soggetto sociale capace di mettersi alla testa di un nuovo movimento di contestazione. Conclusioni entrambe deboli che fanno pensare al barone di Münchhausen alle prese con le sabbie mobili. Se è compito dell’analisi e della critica sociale indicare un cammino da percorrere, il lavoro da fare è ancora tanto.