Prefazione al libro di Nello Pacifico, I balilla di Corso Parigi

Print Friendly, PDF & Email
di Fausto Bertinotti

 

Più volte, mentre leggevo, partecipe, questo racconto di una vita irripetibile, mi sono venute in mente le parole di una canzone d’autore composta negli anni della speranza, credo proprio nella città dove si svolge questa storia. Le parole sono di Italo Calvino e questo è l’inizio: «O ragazza dalle guance di pesca / o ragazza dalle guance d’aurora / io spero che a narrarti riesca / la mia vita all’età che tu hai ora. / Coprifuoco la truppa tedesca la città controllava, siam pronti: / chi non vuole chinare la testa / con noi prenda la strada dei monti. / Avevamo vent’anni e oltre il ponte / oltre il ponte ch’è in mano nemica / vedevam l’altra riva, la vita / tutto il bene del mondo oltre il ponte. / Tutto il male avevamo di fronte / tutto il bene avevamo nel cuore / a vent’anni la vita è oltre il ponte / oltre il fuoco comincia l’amore». Non so se a rammentarmele sia stato il rinvio a una parola chiave del vocabolario calviniano, leggerezza, o la cifra di una narrazione che sembra eleggere a proprio lettore un ragazzo o una ragazza nascosti dietro il velo dell’ignoranza, giovani innocenti. La leggerezza di Calvino non è un esodo o peggio una fuga, ma è un impegno sorvegliato dall’intelligenza critica e dalla grazia.
Nello Pacifico ce ne offre uno scampolo, dissimulato da un pudore antico, da una certa torinesità. «Torino operaia, democratica e antifascista» era la chiamata che dagli altoparlanti invadeva, regolarmente, la Piazza San Carlo delle grandi manifestazioni; mentre taceva e sottintendeva «comunista». Anche in quella piazza, ai più smaliziati, qualche volta, quello sembrava un esercizio retorico che poteva indurre a una qualche pigrizia intellettuale rispetto alla necessaria lettura di ciò che stava cambiando nella produzione, nella città, nella sua popolazione, nella sua cultura. Eppure a quella chiamata ha corrisposto un mondo reale, per un lungo periodo; un mondo di donne e di uomini, diversi tra loro ma legati, assai più che da un’ideologia o da una comune appartenenza politica, da un comune destino, che trova nell’atto finale della vita, nella perdita, la più tragica conferma. Dopo la morte c’è l’esercizio della memoria. Il racconto ce lo mostra bene, con l’attenzione che dedica alle onoranze funebri celebrate tra i compagni, nella cura che viene messa a descriverlo, nelle attese di veder chiudere bene la partita e nel lento ma inesorabile declino del funerale medesimo. C’è l’idea di un lascito, che vive, anche quando le forze si riducono, in un ricordo che si fa «nostro». Quel mondo reale è stato a lungo vivo e vitale, contagioso, affascinante. Quella promessa di nuova umanità a Torino aveva una propria mappa della città, con la sua cattedrale, le sue chiese, i suoi oratori (e i suoi riti). Nulla era però stato copiato da altri, tutto era stato costruito in proprio secondo una definita e originale cultura, quella operaia; mattone su mattone, lotta su lotta, dalla fine dell’Ottocento, a tutto il Novecento. Neppure il fascismo era riuscito a cancellarne le tracce, i solchi profondi, come è bene messo in luce nei lavori di Luisa Passerini, e come se ne dovette accorgere direttamente persino il duce Mussolini. La Resistenza, la Liberazione, la nascita della Repubblica, la rinascita dei partiti di massa e delle organizzazioni sindacali la riportò alla luce. La città sepolta prendeva nuova e diversa vita. La casa dove aveva vissuto Gramsci in piazza Carlina introduceva ad un percorso che dalla V lega di Mirafiori raggiungeva la Camera del lavoro, le sedi sindacali, la federazione del Pci e del Psi, la sede dell’Unità, le Case del Popolo, l’Unione culturale, la sede dell’Anpi, per guardare in via Biancamano all’Einaudi, all’Università di Palazzo Campana, al Politecnico. Poi potevi aggiungervi qualche piola, una birreria di compagni un po’ più su, qualche libreria, gli Imbianchini sotto la collina, vicino alla casa di Salgari, qualche galleria d’arte e il Teatro. Il rapporto tra quella Torino operaia, sempre un po’ eretica, e la sua intellettualità ne è stato un tratto caratteristico, fondamentale (e controverso). Nello è parte di quella Torino che gli ordinovisti avrebbero voluto operaia e intellettuale. Perciò mi piacerebbe che questo racconto arrivasse a una «ragazza dalle guance di pesca».
È quello di Nello un racconto autobiografico, comincia ai Balzi Rossi dove fu scoperta la presenza dell’uomo primitivo. Chissà che qualcosa voglia dire. Esso è appena celato dietro l’artificio del protagonista di voler scrivere un libro sottoponendo la scelta se farlo o no e il suo sviluppo al parere e al contributo dell’amico di una vita, e di una vita condivisa fin dall’infanzia, nati com’erano entrambi in una grande casa di ringhiera nel quartiere «cinese», una periferia di Torino dove il suo corso non riuscirà mai più a chiamarsi, come un tempo, Parigi. L’artificio serve a non usare mai nel racconto la prima persona singolare. L’operaio, democratico, antifascista e, qui va detto esplicitamente, comunista non ama l’io; e non ha intenzione di adattarvisi neppure ora che l’individualismo si è fatto parte dell’ideologia dominante. Questo racconto narra di un «noi», di una specie umana e politica che ha attraversato il Novecento dentro e a ridosso della fabbrica, in una città-fabbrica, forse la sola del paese. Essa aveva ancora la memoria della prima industrializzazione, della grande guerra, della prima immigrazione, quella che affollò i ballatoi delle periferie dove ci si dava del lei anche dopo decenni di conoscenza, e si parlava solo in dialetto, della rivoluzione industriale che portò alla produzione di serie, del Bedaux e delle imponenti lotte operaie, degli interminabili scioperi, come quei novanta giorni dello sciopero a scacchiera, e, soprattutto, di quell’occupazione delle fabbriche degli anni venti in cui tutto era sembrato possibile e la cui demolizione aveva spianato la strada al fascismo. È in noi che diventa il protagonista diretto dell’antifascismo in fabbrica, della lotta di Liberazione e poi dei «Trenta anni gloriosi», in una Torino che cambia pelle ma che, anche dopo la sconfitta degli anni Cinquanta e la vergognosa repressione antioperaia della Fiat che trasforma la fabbrica in un vero e proprio regime autoritario, resta Torino operaia, democratica e antifascista (e comunista).
A testimoniarlo, in quegli anni chiusi e duri, rimarrà il Primo Maggio di un popolo la cui memoria ancora condanna il tradimento dei chierici, il silenzio degli intellettuali, la complicità della grande stampa. Soprattutto, resteranno loro in fabbrica a mantenere aperta la grande storica contesa tra la classe operaia e il padrone: rimarranno i Michele. «Poco per volta, lentamente, era riuscito a capire che quel mondo, sia pure arrancando, riusciva a macinare perché i Michele erano tanti e il loro denominatore comune prima di ogni altra cosa era l’onestà. Molte volte, e ne parlava con Lice, si chiedeva quali parole avrebbe saputo usare nel libro per significare il contributo che aveva ricevuto da quella indimenticabile stagione delle Ferriere, che risulterà come la più esaltante della sua vita.
Chissà dov’erano tutte quelle facce sporche, le più pulite che lui incontrerà nel resto della vita». A loro si rivolge e da loro era nato un giornale di fabbrica come L’Acciaio per aiutarsi a resistere e ad andare avanti. Intendiamoci, anche sugli operai, sui suoi compagni di una vita, Nello non concede nulla, non nasconde nulla, neanche le paure, gli opportunismi, le diserzioni. Come in quel giorno in cui si deve accorgere che in una lotta decisa da tutti insieme, una lotta dura e difficile, quasi impossibile, una gran parte dei lavoratori si sfila e tradisce la fiducia dei compagni. «Un giorno miserevole che lui non riuscirà a dimenticare malgrado il tanto tempo trascorso, squallido come ogni volta sono le guerre tra poveri, ove non vince mai nessuno e perdono tutti eccetto i padroni, che si godono impuniti lo spettacolo».
Ci saranno poi la grandezza e il dramma in quelli che Pugno e Garavini chiameranno, nel loro bel libro, Gli anni duri della Fiat. Andrebbero letti insieme quello e questo libro, per conoscere una pagina molto significativa, eppure misconosciuta, dell’intera storia del Paese. Sarebbe anche un buon esercizio morale e intellettuale per saggiare criticamente la consistenza delle recenti celebrazioni dei centocinquanta anni dell’Unità d’Italia. Da due angoli visuali diversi e convergenti, il primo, quello della direzione sindacale della Fiom e della Cgil torinesi così dentro la realtà operaia e, il secondo, quello degli operai nelle fabbriche, così indissolubilmente legati a quel sindacato, a quel partito, esce la storia esemplare, da un lato, della distruzione di umanità prodotta dal dominio padronale nella fabbrica e, dall’altro, la fatica, il coraggio, il prezzo pagato e la lungimiranza di chi, per difendere la dignità di tutti, la dignità degli operai, per tutti resiste, anche quando gli altri, i più non ce la fanno. Si capisce meglio l’indignazione di quegli uomini per chi, da una posizione di privilegio che garantiva loro ben altre possibilità di libertà di giudizio e di espressione rispetto agli operai, non ha voluto vedere, sentire, parlare. L’atto di accusa nei confronti di tanta parte dell’intellettualità, così cinicamente complice dell’oppressione, e dei facitori di pubblica opinione dovrebbe far riflettere non solo sul passato. Perciò ha ragione l’autore quando si chiede: «Perché non far sapere ai futuri giornalisti che, grazie a un patto tacitamente accettato, i padroni della Fiat, negli anni più malavitosi, hanno sempre esercitato il diritto di pretendere dal direttore del giornale aziendale e dai cronisti l’obbligo di non vedere, non sentire e non parlare, e a volte anche di mentire e scrivere il falso, come quando i morti ammazzati sul lavoro si spegnevano ‘…durante il trasporto all’ospedale…’ per evitare inchieste che avrebbero imposto insopportabili e fastidiose fermate della produzione». Per fortuna non senza eccezioni, come testimonia l’attenzione e l’intervento di Ernesto Rossi.
Banfo, Michele, loro stessi erano uomini speciali? Erano uomini speciali quelli buttati dalla Fiat al confino dell’«Officina sussidiaria ricambi», meglio conosciuta come «Officina Stella Rossa»? Forse, presa da questo angolo della storia e del mondo la, qualche volta stucchevole, questione della diversità dei comunisti (qui sta per militanti del movimento operaio) prende una torsione più interessante. Sì, in un certo senso, erano uomini speciali; frutto di un incontro, chissà come determinatosi, tra una propensione personale (alla ribellione, all’avversione a ogni forma di ingiustizia e di sopruso, alla libertà) e una ideologia (la lotta di classe, il superamento del capitalismo, il socialismo). Erano anche tra loro molto diversi, si vedano le differenze tra due «fratelli», come l’autore e Lice. Nel sindacato e, soprattutto, nel Pci si sono trovati in tanti per dare vita a quell’ideologia, a quell’aspirazione. Viene fuori da questo racconto un Pci un po’ diverso da quello della storia alta. A me questa sembra più ricca, più coinvolgente. Si capisce meglio così il dramma della fine di una storia (non della storia). Ma si è costretti ad interrogarsi anche su punti di quella storia che a molti di noi non provocherebbero dubbi. Sull’Ungheria, come poi ancora più acutamente e definitivamente sarà per Praga, si consuma, per chi scrive, come per tanta parte della sua generazione politica, un errore drammatico del Pci. Eppure non riesco a mettere da parte l’angosciata domanda di Nello: «La storia era stata più grande di loro […] Perché non si doveva cercare di capire cosa avevano pensato i compagni in quelle drammatiche ore dell’invasione dei carri armati a Budapest? […] Quando cercavano di ricordare il tormento di quelle ore, lui rivedeva Nicola e Comollo [due leggendari militanti, n.d.r.] che non avevano esitato a piazzarsi davanti alla sede dell’Unità, e lì erano rimasti di guardia, armati di tutto punto, per fronteggiare un’eventuale sortita di fascisti… E loro, i giornalisti dell’Unità [di Torino, n.d,.r.], cosa avrebbero dovuto dire? ‘Cari Nicola e Comollo grazie di tutto… noi lasciamo il giornale e andiamo a cercare la libertà… se non vi scannano, spegnete la luce prima di uscire…’»? È lo stesso interrogativo che Nello pone ricordando la lettera drammatica di un gruppo di operai a Italo Calvino. Sembra di risentire le parole con le quali Sartre replica a Camus difendendo la sua scelta di non criticare l’Urss: «Pour ne pas désespérer Billancourt». Con una non piccola differenza: che loro, i torinesi, erano proprio Billancourt.
Verrebbe da dire a Nello, secondo la formula di Fidel Castro: «La storia vi assolverà». Dubito, invece, che lo farà con il Pci e la sua direzione. Ma il racconto di Nello, la storia di quelle donne e quegli uomini che si snoda dai balilla del quartiere cinese alla vita del quartiere popolare, con le sue ricche relazioni umane di vita, all’esperienza di fabbrica, alla Resistenza, al diventare comunisti, ci parla di una comunità, il Pci, che trascende le questioni della sua linea politica, della formazione dei suoi gruppi dirigenti, della sua organizzazione e persino della teoria. Esso parla di una comunità scelta, di una comunità in cui la politica si impasta indissolubilmente con l’esistenza di uno, di cento e di mille e con mille altri, che di quel mondo non fanno parte, entra in comunicazione forte e viva. Sarà anche quel Pci il luogo d’incontro dei più curiosi e dotati di quel suo mondo con gli intellettuali, con la cultura e con l’arte. Di quella storia, la storia di una scalata al cielo, che dopo la riscossa operaia e studentesca del ’68-69 prenderà un altro, prorompente sviluppo, mentre altre diventeranno anche le figure sociali protagoniste all’interno della stessa compagine operaia, le donne e gli uomini che qui sono raccontati narrano l’epopea dell’operaio di mestiere. Dopo ci sarà in quella comunità una continuità e una discontinuità. Ivar Oddone, un partigiano, medico del lavoro, psichiatra dirigente del sindacato torinese, intellettuale di punta, amico di Calvino e di più degli operai, ci ha insegnato, quando noi insistevamo sull’egualitarismo portato dall’operaio comune di serie, quanto un operaio fosse diverso dall’altro e come, per trasformare il lavoro e la fabbrica, e per conquistare la partecipazione e il protagonismo dei lavoratori, si dovesse puntare sulle eccellenze, sui migliori, per seminare conoscenza e possibilità di riscatto per tutti. Chi è Nello pacifico, in origine Otello, lo dice meglio di ogni ritratto che si volesse fare in qualche riga questo avvincente racconto. L’autore è uno di quelli che hanno fatto la «Torino operaia, democratica e antifascista» (si intende comunista).
Ora ne scrive da lontano, nel tempo, ma sempre dall’interno, uguale e diverso da come vi è nato e cresciuto. Sempre dalla stessa parte. Si capisce che l’unica cosa che non sopporta sia la disinvolta dimenticanza e la cinica ipocrisia di chi da quella storia si è separato e fa come se non fosse esistita. Eppure questo vecchio, fattosi ormai saggio, non rinuncia a capire, a farsi, e a farci, le domande più difficili, attorno a quella storia e a noi che l’abbiamo vissuta. Lice, del resto, che quelle domande ha tanto cercato, non gli perdonerebbe l’omissione. Le sue risposte, quando sono possibili, sono come avvolte in un velo di malinconia che non è solo quello di chi ha fatto tanta strada e si sente un po’ stanco. Stanco, ma non vinto, tanto meno pentito. Quella malinconia diffusa, che dal presente investe la previsione del futuro di sé e dei suoi, poggia ancora sull’orgoglio dell’ouvrier. È stato il nostro autore «operaio, manovale e giornalista». È stato alla Grandi Motori, al Lingotto, alle Ferriere, all’Osr, ma anche nella redazione dell’Unità, a scrivere di operai, di consigli comunali e di football. È stato in fabbrica, ma anche vicepresidente del Teatro Stabile. Ha tenuto in casa per anni, insieme ai quadri degli amici dell’Arte povera, un’opera di Fontana. Gilberto Zorio, uno tra i più valenti di quella scuola, ha chiesto di disegnare la copertina del libro. Non aveva dato retta a Krusciov neppure sull’estetica, sulla lettura dell’arte contemporanea. L’ironia, questo dono dell’intelligenza, e anche un po’ del bar Casalegno, è stato il suo modo di vivere il proprio tempo, tempo grande e terribile. Nella lotta di classe lui e i suoi hanno cercato il mondo nuovo. Lui ha trovato la dignità della persona e la libertà di pensiero che leggiamo in questo libro.
Nello Pacifico è direttore responsabile di Nuvole il suo libro è uscito nel 2012 dall’editrice Ediesse di Roma.

* Si ringrazia Fausto Bertinotti, Presidente della Fondazione della Camera dei Deputati, per l’autorizzazione a ripubblicare la sua Prefazione al libro di Nello Pacifico, I balilla di Corso Parigi. Storie di schiene dritte e no, Ediesse, Roma 2012.