L’intellettuale di Gerusalemme Meron Benvenisti ha un messaggio per gli Israeliani: smettetela di piagnucolare

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di Ari Shavit

[1]Meron Benvenisti fu il mio primo direttore. Agli inizi degli anni Ottanta, Ariel Sharon istituì più di cento insediamenti in Giudea, Samaria e Gaza. Agli inizi degli anni Ottanta, Meron Benvenisti fondò un centro di documentazione con sede a Gerusalemme per monitorare gli insediamenti che Sharon aveva istituito. Agli inizi degli anni Ottanta, io ero molto giovane ed ero un volontario entusiasta di Peace Now, secondo cui –giustamente- gli insediamenti creati da Sharon e monitorati da Benvenisti avrebbero portato Israele alla rovina. Così mi ritrovai a lavorare per l’impetuoso Meron.

In un piccolo appartamento sul confine del quartiere Rehavia di Gerusalemme, ruggiva con voce tonante mentre io documentavo ogni nuovo insediamento nei territori, ogni nuova strada, ogni zona industriale. Urlava e strepitava quando mi accorgevo di un’espropriazione di terre e poi di un’altra espropriazione e di un’altra ancora. I giornalisti più importanti del paese vennero e se ne andarono. E i più importanti giornalisti americani vennero e se ne andarono e le ambasciate straniere richiedevano informazioni, la cui compilazione veniva finanziata (a stento) da fondazioni straniere. Ma quando il tumulto diminuì, appuntai il mio sguardo sull’uomo che aveva causato una tempesta mediatica sostenendo che l’occupazione era irreversibile. Un ragazzo troppo cresciuto. Un ragazzo troppo cresciuto e delizioso.

Era nato nel 1934 a Gerusalemme. Andò a vivere in un kibbutz (Rosh Hanikra) per sua realizzazione personale e poi lasciò il kibbutz. Studiò all’Università ebraica di Gerusalemme (storia delle crociate) e poi lasciò l’Università ebraica. Collaborò con Teddy Kollek (Ministero del Turismo, municipalità di Gerusalemme) e poi lasciò Teddy Kollek. Dopo aver concluso la sua carriera di vicesindaco della città e non essere riuscito ad entrare alla Knesset, andò ad Harvard, completò un dottorato in gestione dei conflitti e fondò la West Bank Data Base Project (progetto di database per la Cisgiordania) a Gerusalemme, per documentare la creazione di insediamenti. Nel frattempo, Benvenisti scrisse libri sui crociati, su Gerusalemme, sul conflitto e sui cimiteri. Per 18 anni, ha tenuto una rubrica su questo giornale. Ora si divide tra Caesarea e la città in cui è nato, in cui sarà sepolto e per la quale si affligge.

Mi dichiaro colpevole di avere un debole per Meron. Amo il suo temperamento vulcanico e amo la sua autenticità e il suo essere insopportabile. Amo la sua essenza ebraica e la sua ruvidità e amo l’intensità del suo tragico romanticismo. Benvenisti non è solo una persona fuori dagli schemi; è una persona fuori dal sistema, fuori da ogni stampo, fuori da ogni convenzione. Essendo irresponsabile, immaturo e incontrollabile, non si sente legato ad alcuna soluzione o corrente di pensiero. Essendo tutto sfrontatezza, provocazione e litigiosità, non appartiene a nessun gruppo. Ma è precisamente quella selvaticità da lupo solitario intellettuale che lo rende così affascinante. Serio e non serio, logico e illogico, Meron Benvenisti riassume in sé tutte le contraddizioni, le vicissitudini e i contrasti della terra con cui è impegnato in un perenne incontro di wrestling.

Sono passati dieci anni da quando ci incontrammo l’ultima volta. L’uomo che mi apre la porta è più vecchio e meno in salute dell’uomo che conoscevo. Dopo due operazioni cardiache importanti, è più magro, raddolcito e un po’ più conciliante. Quando entro, non mi dice cosa pensa dei miei articoli, del mio percorso o della mia visione del mondo. Mi fa un regalo, invece: una breve lettera scritta con una grafia raffinata che la zia di mia madre scrisse al padre di Meron nel villaggio di Zichron Yaakov 92 anni fa. Sorprendentemente, questa lettera delicata fa da incipit all’autobiografia sovversiva (“The Dream of the White Sabra”, -Il sogno dell’ebreo bianco”- 2012, Hebrew) del sionista sovversivo che sono venuto ad ascoltare. Perché, quando tutto è stato detto e fatto, ciò che è importante per questo sionista sovversivo è dichiarare che lui proviene da qui. Dall’interno. Da questa terra. Dalle viscere della storia contro la quale impreca.

 

Cosa stai dicendo, Meron? Che siamo come il Sudafrica? Che siamo coloni bianchi come i Boeri e che reprimiamo i nativi proprio come i Boeri e che siamo destinati a collassare come i Boeri?

Il paragone col Sudafrica è sbagliato, semplicistico e pericoloso. Lì esisteva qualcosa che qui non esiste: il razzismo biologico. I bianchi costituivano solo il 17%, mentre i neri l’83%. Ma, d’altro canto, bianchi e neri condividevano la stessa religione, convivevano e i neri non venivano espulsi. Quindi, non accetto l’accusa che Israele sia un Stato fondato sull’apartheid. Perfino ciò che accade nei territori non è esattamente apartheid. Ma ciò che sta prendendo forma qui non è meno grave. Questa è una democrazia fondata su un popolo dominante; in tedesco, una “democrazia Herrenvolk”. Siamo un paese che si comporta come una democrazia fondata sulla purezza di sangue, ma abbiamo un gruppo di servi –gli arabi- a cui non applichiamo la democrazia. Il risultato è una situazione di estrema disuguaglianza.

C’è una società di coloni che espropria gli altri, impossessandosi delle loro terre, scacciandoli e creando un sistema unilaterale di leggi migratorie. Il sistema non può sopravvivere. Alla fine, i buoni Israeliani non saranno in grado di sostenere la tensione tra i loro valori liberali e la brutalità della realtà in cui vivono. Se ne andranno. Hanno già iniziato ad andarsene. Quindi, c’è bisogno di una transizione verso un paradigma differente. Lo Stato-nazione ebraico è condannato: imploderà. Il solo modo di vivere qui sarà creare un’uguaglianza fondata sul rispetto tra noi e i Palestinesi. Riconoscere il fatto che qui esistono due comunità nazionali che amano questa terra e il cui dovere è indirizzare un conflitto inevitabile tra di loro verso un processo di dialogo per una vita insieme.

 

Scusa un attimo. Stai dicendo più di ciò che riesco a capire. Non contesto la questione degli insediamenti e dei coloni. Ma la soluzione a due Stati fu concepita appositamente. È esattamente la ragione per la quale la maggior parte degli Israeliani sono disposti ad una soluzione di spartizione. Ci vorrà tempo, sarà dura, ma alla fine noi avremo uno Stato nazionale ebraico qui e loro avranno uno Stato nazionale palestinese lì. Questo è il modo, il solo modo.

È tempo che tu e i tuoi amici a Tel Aviv capiate che è impossibile dividere questa terra. Impossibile. Non si può dire agli arabi di dimenticarsi di Jafra e Acri. Non dimenticheranno. E non si può convincere nessun Palestinese a dare il consenso alla “fine del conflitto”. Non firmeranno. E la Linea Verde, che è stato il grande alibi della sinistra, non esiste più. La Linea Verde è morta. Il muro di separazione: questo è vero apartheid. La separazione è apartheid. Gli abitanti di Tel Aviv non vogliono capire che la Terra di Israele è un intero. È un’unità geopolitica singola. Ne consegue che è impossibile spartirsi questa terra. È impossibile geograficamente, fisicamente e psicologicamente. La soluzione che proponi è impossibile. Perfino in Spagna, Canada e Belgio, le strutture binazionali si stanno rompendo e stanno crollando. Ti aspetti forse che, fra tutti i luoghi, proprio in Medioriente i fanatici ebrei e i fanatici arabi saranno in grado di vivere sotto lo stesso tetto?

 

Stai sognando, Meron. Sei più avulso dalla realtà di ogni altra persona di sinistra a Tel Aviv.

Prima di tutto, non sto proponendo soluzioni. Non è il mio lavoro. Sto dicendo che il paradigma dominante è una menzogna e lo sto combattendo. Sto proponendo un paradigma alternativo basato sull’uguaglianza. Sto suggerendo una nuova terminologia e un modo differente di guardare la realtà; perché l’approccio da “villa nella giungla” non funzionerà. Se causi una spartizione ingiusta e forzata, finirai per creare uno Stato palestinese zoppo, ferito e arrabbiato, che diverrà violento. La destra ha ragione su questo punto. Hai visto cos’è successo a Gaza. Il ritiro non ha risolto nulla e ha portato Hamas al potere. E in futuro, saremo responsabili di qualcuno peggiore di Hamas in Cisgiordania. Ecco perché la divisione non è una soluzione al problema, ma è un’esacerbazione del problema. È vero che il Medioriente non è un luogo confortevole. Ma siamo venuti a viverci. Perciò, cosa diciamo adesso: “Scusate, è stato un errore, facciamo i bagagli e andiamocene”?

Io non ho intenzione di andarmene. Non ho un passaporto straniero e non ne avrò uno. Sono figlio di nativi e sono nato qui. Provengo da qui. Ecco perché so che sono emerse due comunità nazionali che vivono insieme nello stesso posto, una nell’altra. In questa situazione, la divisione non è un’opzione. C’è stato un tempo in cui era possibile, ma non lo è più. Questo paese è una terra condivisa, un’unica terra natia.

 

Bene, lo capisco. Ora torniamo indietro, al fondamento. Il sionismo è nato nel peccato?

Il sionismo non è nato nel peccato, ma nell’illusione. L’illusione dell’arrivo in un terra in cui non ci fossero gli arabi. E quando l’abbiamo compreso, abbiamo polverizzato il paese degli arabi in cinque gruppi differenti: gli arabi d’Israele, gli arabi di Gaza, gli arabi della Cisgiordania, gli arabi di Gerusalemme, i rifugiati arabi. Siamo riusciti a creare un sistema basato sul “divide et impera” che ci ha permesso di governarli e di conservare il nostro potere egemonico tra il Mediterraneo e il Giordano.

Non voglio dire che il sionismo sia razzista, ma lo considero una costellazione di vari tratti sviluppati qui che generalmente vengono identificati col razzismo, sebbene manchi l’elemento biologico. Siamo imbevuti di una combinazione di odio per i gentili[2], ereditata dai nostri avi e odio per gli altri in cui ci siamo imbattuti qui. Il risultato è quello che vediamo oggi. In un largo segmento della popolazione persiste un elemento di razzismo contro gli arabi, sebbene non ci definirei tutti razzisti. Ciò che ci caratterizza collettivamente mi pare sia un insieme di odio etnico, disgusto etnico, disprezzo etnico e paternalismo etnico. Invece del progresso, il sionismo ha portato la reazione. È diventato un movimento di espropriazione basato su valori non universali e non ugualitari.

 

Quando avvenne questa deviazione, nel 1967 o nel 1948?

Nel giugno 1948, il momento in cui furono create le istituzioni statali, ritenute in accordo con valori universali. Fu il momento in cui la rivoluzione sionista dovette smettere di agire per mezzo della forza rivoluzionaria e dare vita ad un normale Stato occidentale. Ma [David] Ben-Gurion, che fino a quel momento era il capo di un gruppo etnico, non interiorizzò il fatto di non essere più il capo di un gruppo etnico. Trasformò il nascente Stato in un continuatore della lotta etnica. Così, gli arabi che rimasero all’interno dei confini dello Stato furono immediatamente soggetti a discriminazione etnica. La discriminazione fu istituzionalizzata per mezzo del governo militare, delle espropriazioni terriere, della disuguaglianza delle risorse e del perdurare di organizzazioni come il Fondo Nazionale ebraico – Jewish National Fund- e l’Agenzia ebraica – Jewish Agency- che erano al servizio degli ebrei soltanto.

Nel 1967, questa situazione distorta, che era implicita nello Stato, fece un balzo notevole. Non si trattava più della giudaizzazione della Galilea, ma dell’implementazione di una selvaggia politica di espropriazione lungo la Linea Verde. Confisca di terre, insediamenti: la creazione di una situazione dichiarata in cui esistevano una legge per gli ebrei e un’altra legge per i Palestinesi. Oslo fu un preteso tentativo di porre finire a questa situazione dilagante. Si arrivò ad un riconoscimento reciproco tra le nazioni, cosa importante. Ma in pratica, risultò che non fu Yossi Beilin a modellare il processo, bensì coloro che videro in Oslo un’opportunità di continuare l’occupazione in maniera indiretta e conveniente. Si creò, perciò, una situazione neocoloniale nei territori. Vogliamo mantenere un mercato di schiavi che ci arricchisca tutti.

Ad oggi, stiamo parlando di circa 350.000 coloni; o, se si prende in considerazione anche Gerusalemme, 550.000. Tutti oggi capiscono ciò che andavo affermando 30 anni fa: è una situazione irreversibile. Ehud Barak, Ehud Olmert e Tzipi Livni possono dire ciò che vogliono, ma è irreversibile. Non c’è via d’uscita da questo casino.

Il sionismo, che non intraprese una metamorfosi nel 1948 e non desistette nel 1967, divenne una sorta di rivoluzione in divenire e quindi diventò come le altre rivoluzioni in divenire del XX secolo. Forgiò una situazione in cui un liberal-democratico non può vivere e che non può accettare. Questa situazione non può durare indefinitamente.

 

Ti dirò in cosa differisci rispetto alla sinistra sionista. Per molti di noi, il concetto chiave è lo “Stato di Israele”. Per come la concepiamo, l’impresa sionista intendeva dare vita ad un luogo in cui il popolo ebraico avrebbe costituito la maggioranza e potuto esercitare la sovranità. Se non c’è maggioranza, non c’è sovranità né Stato ebraico democratico; non ha senso tutto questo. È più conveniente vivere come minoranza a Manhattan. Invece, per te, il concetto fondamentale è quello di “Terra di Israele”. In questo senso, assomigli alla destra e ai Palestinesi. Hai il feticcio della terra. Vieni dalla terra, vivi la terra, parli in nome della terra.

È vero che vivo la storia della terra. Vivo l’intero paese e mi preoccupo per le persone che vivono qui. Ecco perché so che la terra non può tollerare nessuna spartizione. E so che soffre ed è arrabbiata. Dopotutto, quali due grandi monumenti abbiamo costruito nello scorso decennio? Uno è la barriera di separazione e l’altro è il terminal dell’aeroporto Ben-Gurion progettato dall’architetto Moshe Safdie. I due monumenti hanno qualcosa in comune: sono pensati per permetterci di vivere qui come se non fossimo qui. Sono stati costruiti in modo da non vedere la terra e non vedere i Palestinesi, vivendo come se fossimo connessi alla parte finale dell’Italia. Ma ho visto estirpare i frutteti per costruire il muro e tagliare a metà le colline per costruire il muro. Il cuore piange, piange in nome della terra. Per me, la terra è un essere vivente. E sto assistendo alla tortura della terra, della terra natia, da parte della guerra. Mi dispero per i tormenti della terra natia.

Per anni, abbiamo costruito contro gli arabi. Abbiamo prosciugato la Valle di Hula, distrutto Gerusalemme, sventrato la Giudea e la Samaria. Ma poi gli arabi hanno iniziato a costruire contro di noi. Non sono migliori di noi. Noi abbiamo stuprato la terra ed essi hanno stuprato la terra e ora la terra è violata. Ma io so che alla fine sarà la terra a ridere di noi: perché non possiamo esistere senza di essa ed essa non può esistere senza di noi.

Nel passato, moltissime nazioni hanno pensato di essere riuscite a controllare la terra. Nessuna di esse voleva condividerla; volevano la terra per sé e hanno tentato di impadronirsene come si fa con una giumenta. Ma quel nobile e selvaggio stallone se le è scrollate di dosso. Il punto è che se vuoi vivere qui, non puoi vivere da solo e non puoi vivere senza prestare ascolto alla terra. Devi sapere che la terra respira e ricorda. Se non capisci questo, non sei veramente un nativo. Il tuo posto non è qui.

 

Abbiamo raggiunto il cuore della faccenda: l’essere nativi. Hai un’ossessione per i nativi, Meron. E devo dirti che c’è qualcosa di pericoloso nella tua venerazione per la terra e ammirazione per i nativi, qualcosa di non democratico, illiberale e oscurantista. Perché questo disprezzo per i migranti? Qual è la giustificazione al rifiuto di quanti cercano un porto qui? Percepisco in te una preferenza nascosta per la storia palestinese rispetto a quella israeliana, perché sei ammaliato dal fatto che i Palestinesi sono nativi di qui.

Sono attratto dagli arabi. Amo la loro cultura, la loro lingua, il loro approccio alla terra. Il nostro amore per la terra è un amore acquisito. Guarda il progetto sull’eredità culturale del Ministro dell’Istruzione Gideon Sa’ar e del Segretario di Gabinetto Zvika Hauser: è pacchiano. Prima abbiamo definito un qualche tipo di teorica Terra di Israele e poi ci siamo innamorati di quel concetto; poi abbiamo distrutto tutto ciò che non rientrava in quella categoria. Abbiamo distrutto il paesaggio palestinese, scavato per trovare i resti di Erode e di re Davide per giustificare la nostra esistenza e ci siamo inventati un paesaggio di asfalto e centri commerciali che nemmeno ci piace. “L’uomo è un albero nel campo”, ma noi non siamo così. Il nostro amore per la terra è un amore che abbiamo imposto ed esatto dalla terra. Per gli arabi è l’opposto. Il loro amore per la terra scaturisce davvero dalla terra. Amore per il fico, per l’albero, per la casa.

È vero che siamo riusciti a rovinare anche loro. Stanno facendo cose terribili a Ramallah. Ma amo il loro amore per la terra natia. Amo ciò che ne scrive [il poeta palestinese] Mahmoud Darwish e ciò che ne scrive [lo scrittore israeliano] S. Yizhar. Vedo una grande vicinanza tra Darwish e Yizhar. Credo in un futuro in cui i nipoti e i pronipoti di Darwish e Yizhar vivranno insieme. Perché, come scrisse Yizhar: “Nel profondo, la terra non dimentica”. Solo coloro che sono in grado di ascoltare l’indimenticabile silenzio di questa terra tormentata, da cui tutti abbiamo origine e a cui tutti torneremo, ebrei e arabi, hanno il diritto di chiamarla terra natia. Ci credo con tutto il mio cuore. Secondo me, chi non ci crede non può dirsi sionista.

 

Dopo tutto ciò che hai detto qui, su dominazioni, espropriazioni e repressioni, ti consideri ancora un sionista? Può un sionista essere contro lo Stato nazionale ebraico? Può un sionista essere favorevole ad uno Stato binazionale?

A dispetto di tutto, il sionismo è stato un successo. Ha creato qui una comunità nazionale ebraica, che è viva e vegeta. Ha forgiato una nazione israelo-ebraica che non c’era. Ecco perché tutti vogliono essere sionisti, essere parte di questo successo. E non concederò ai Revisionisti e ai membri del Likud il piacere di dire che loro sono sionisti e io non lo sono. Secondo me, Revisionisti e membri del Likud sono bravi solo a parlare. Parlano e basta. Guarda il Primo Ministro: tutto ciò che sa fare è sputare banalità. Andare alle Nazioni Unite, parlare un Inglese eccellente e mostrare qualche disegno ridicolo. In questo senso, è assolutamente figlio di suo padre. Parlano e basta. Non affrontano mai la vita reale. E mi disturba profondamente che questi membri del Likud siano riusciti a trasformare l’eccezionale progetto in fieri della Terra di Israele in qualcosa di viziato. Perché, al di là delle mie critiche, sono molto orgoglioso del mio passato nel kibbutz. Sono molto orgoglioso dello United Kibbutz Movement (Movimento dei Kibbutz Uniti) e del socialismo e di tutto ciò che siamo riusciti a fare. Sono emozionato quando ascolto “L’Internazionale” e canto “L’Internazionale”. Cosa sono i Revisionisti, dopotutto? Qualche migliaio di separatisti che pretendono di aver espulso i Britannici. Sono solo bravi a parlare. Solo parlare.

Ed è lo stesso con i Mizrahim[3]. Non accetto tutto questo piagnucolio da parte loro. Cosa avrebbero fatto se non ci fossimo stati noi qui ad accoglierli? Cosa sarebbe successo loro se non avessimo creato l’ “israelianità” alla quale si sono legati e che hanno trasformato in una sorta di fumetto? Se non fosse stato per noi, i Mizrahim sarebbero rimasti un miscuglio di culture migranti. È vero, abbiamo commesso molti errori. Ma abbiamo preso una decisione eroica quando li abbiamo accolti. E con quella decisione abbiamo commesso un suicidio. La nostra cultura ebraico-israeliana si è dissolta nel flusso dell’immigrazione. Ecco perché ora abbiamo il Likud al governo e sentiamo costantemente i Mizrahim lamentarsi. Ma non accetto né uno né l’altro. Sono orgoglioso di essere un ebreo bianco. E non permetterò a nessuno di espellermi dal gruppo sionista. Sono uno dei fondatori di questo posto. Provengo dal Mayflower sionista. E non permetterò a nessuno di trattarmi da non sionista.

 

Quindi, da una parte sei sionista, ma dall’altra parte vuoi completa giustizia e completa uguaglianza per i Palestinesi. Ma come funziona nel mondo reale? Si fanno evacuare gli insediamenti o no? Si accolgono i rifugiati o no? Si accetta il diritto al ritorno o lo si respinge?

Gli insediamenti non mi interessano per niente. I delinquenti devono essere espulsi. La legge in Giudea e Samaria dovrebbe prevedere la completa uguaglianza tra coloni ebrei e Palestinesi. Dopo 45 anni non è più possibile nascondersi dietro l’espressione “occupazione militare”. L’occupazione militare è temporanea. Ma così come ci sono coloni che vivono lì, gli arabi dovrebbero poter tornare ai loro villaggi qui. Ci sono 140 villaggi palestinesi nello Stato di Israele in cui non si è costituita alcuna comunità, ma che sono stati trasformati in riserve naturali e parchi nazionali. Almeno alcuni di essi potrebbero essere ricostruiti. La gente di Ikrit e [Kafr] Bir’im [in alta Galilea] dovrebbe poter tornare alle proprie terre. Non c’è nulla che giustifichi l’occupazione di così tanta terra da pascolo da parte del kibbutz Baram. I Palestinesi devono poter pregare nelle moschee abbandonate. E ogniqualvolta qualcuno guadagna miliardi dalle terre che appartenevano agli arabi, una certa percentuale dovrebbe andare ai rifugiati. I Palestinesi dovrebbero ricevere parte dei profitti che si accumulano quando tutti quegli enormi centri commerciali vengono costruiti sulle terre di kibbutz e moshavim [comunità agricole cooperative]. E di sicuro i 250.000 “presenti assenti” che vivono in Israele devono vedere riconosciuti i proprio diritti: costruire una casa, collegarsi alla rete elettrica, non dover vivere in “villaggi non riconosciuti”.

Non spaventarti per i villaggi palestinesi e per le moschee di cui parlo. Non c’è ragione per la paura demografica. La maggior parte dei rifugiati non vuole nemmeno tornare. Dobbiamo disinnescare la situazione esplosiva del diritto al ritorno, creando una serie di atti di conciliazione che affrontino il trauma e muovano verso qualche nuova forma di intesa più equa. Non credo che sarà possibile vivere in uno Stato secondo il principio “una testa, un voto”. In quel caso, la parte che raggiunge la maggioranza sfrutterà la sua maggioranza per impossessarsi dei centri di potere e reprimere l’altra parte. Dobbiamo trovare una struttura che non sia né uno Stato nazionale ebraico né uno Stato nazionale palestinese, ma una costruzione condivisa all’interno della quale le due nazioni continueranno a litigare, ma su un piano di uguaglianza. Base che consiste nel mio riconoscimento della loro storia e nel loro riconoscimento della mia storia, con un tentativo di raggiungere un equilibrio ragionevole dei due.

 

Quando ti è accaduto tutto ciò? Dopotutto, tuo padre fu uno dei primi insegnanti sionisti ad insegnare geografia locale [in Ebraico, “conoscenza della terra”] e a predicare l’amore per la terra. Tu eri uno dei leader studenteschi di Mapai, il partito dominante all’epoca e precursore dell’attuale Partito Laburista. Il vice di Teddy Kollek e uno degli unificatori di Gerusalemme. Quando hai improvvisamente reciso il cordone ombelicale che ti univa alla classe dirigente sionista e sei diventato una figura anomala che propone idee bizzarre che fanno infuriare sia la destra sia la sinistra?

Il sottotitolo del mio libro è “Un’autobiografia della disillusione” e si tratta esattamente di questo. Ho completato un processo interessante. Mio padre voleva che diventassi una delle pietre angolari di questo paese. Voleva che le piccole piante dei piedi di suo figlio toccassero questo suolo e nessun altro. Provò a plasmare in me –e in molte migliaia di altri cui fece da insegnante- un sentimento di assoluta appartenenza alla Terra di Israele. E ci riuscì. Ecco perché andai a vivere nel kibbutz Rosh Hanikra negli anni Cinquanta e provai la sensazione eccezionale di lavorare in una piantagione di banane. Senza notare che, per piantare i banani, stavo sradicando gli ulivi millenari di un villaggio palestinese.

Questo è il motivo per il quale, negli anni Sessanta, pagai gli arabi per rimuovere centinaia di tombe dal cimitero musulmano sulla costa di Tel Aviv, per poter liberare la terra su cui oggi sorge l’Hilton. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, ero con Teddy [Kollek] e “Chich” [il generale maggiore Shlomo Lahat, in seguito sindaco di Tel Aviv] quando insieme decidemmo di sgomberare le 106 famiglie del quartiere di Mughrabi [a Gerusalemme] per creare la grande piazza del Muro occidentale. Ricordo i bulldozer e le nuvole di polvere che si alzavano nell’aria e la vecchia signora che rimase sepolta sotto una delle case.

In tutti questi casi e in tutto quel periodo ero un carrierista. Non capivo il significato di ciò che stavo facendo. Ma quando iniziai ad avere a che fare con gli arabi di Gerusalemme Est, cominciai a capire. Vidi che il problema non riguardava solo i diritti individuali dei Palestinesi, ma anche i loro diritti collettivi. E quando monitoravo ciò che Arik Sharon[4] stava facendo quando istituì 120 insediamenti in Cisgiordania, improvvisamente capii che era irreversibile. Finito. La Linea Verde era finita e finita anche la speranza di uno Stato ebraico qui. Dopotutto, la nozione di “Stato ebraico democratico” è un ossimoro e la soluzione a due Stati non è una soluzione. Anche i termini usati dalla sinistra –“pace”, “occupazione”, “Linea Verde”- sono menzogneri, semplici intercalari. Il loro solo scopo è regalare la sensazione ai liberali israeliani di non essere responsabili dell’ingiustizia, delle espropriazioni e dei terribili atti che il loro paese sta compiendo. Io ho deciso che non voglio più far parte di questa truffa. Non voglio prendere parte al trasferimento astratto [della popolazione] tipico della sinistra. Non sono il David Grossman de “Il vento giallo”, che andò a descrivere l’occupazione in Cisgiordania come il capitano Cook che descriveva la vita dei nativi di qualche paese remoto. Non sono Ze’ev Sternhell, che aspetta perennemente l’arrivo di qualche deus ex machina, che si chiama Barack Obama, per costringere Israele ad una pace che non avrà mai luogo.

Il fatto è che, alla fine, poiché mio padre desiderava così tanto che fossi un nativo, sono genuinamente nativo. E come nativo, capisco tutti i nativi che vivono qui –sia nativi israeliani sia nativi palestinesi. Non ne ho paura né li temo e nemmeno li tratto in modo paternalistico. Credo nella possibilità che troveranno un qualche modo imperfetto di convivere sulla stessa terra natia.

 

Stranamente sei meno pessimista di molti reduci della sinistra. Proprio tu, fra tutti, non stai affermando che il paese è finito ed è tutto perduto. Pensi che la tua generazione abbia vinto o fallito?

La mia generazione ha sia vinto sia fallito. Soprattutto fallito. Appartengo a quella fetta di popolazione che era qui nel 1948, persone che avevano 6 anni o poco più prima della creazione dello Stato e che furono perciò formate dal sionismo pre-statale. Ora siamo una specie in estinzione. Ma se guardi indietro, vedrai che abbiamo giocato un ruolo eccezionale nel plasmare questa società e questa comunità nazionale. Allo stesso tempo, vedrai che abbiamo perso tutte le guerre che abbiamo combattuto. Abbiamo perso la battaglia nella creazione di una persona nuova, nella creazione di una cultura nuova, nella creazione di una società nuova. È finita in maniera piuttosto schifosa per noi. Tutto si è corrotto. E noi, a causa del nostro stile di vita borghese, abbiamo lasciato che altre forze prendessero il sopravvento e ci sconfiggessero. E la ragione per la quale ci sconfissero è che erano più saldi e noi eravamo più viziati.

Oggi vivo in una bolla. Gerusalemme fuori dalla mia bolla è una città completamente disintegrata, sta per morire, non esiste. Ed è troppo doloroso per me. Quando viaggio per il paese, non capisco esattamente cosa stia succedendo. Tutto è diverso. Non come lo volevamo; qualcosa che non riesco a comprendere. Ma tutto questo scompare di fronte alla nostra enorme conquista: la fondazione, qui, di una comunità nazionale ebraico-israeliana che, a dispetto di tutto, è viva e vegeta. Ecco perché non accetto le lamentele dei Mizrahim e non accetto nemmeno le lamentele dei veterani israeliani bianchi. Non è un caso che la mia autobiografia si intitoli “The Dream of the White Sabra” (“Il sogno dell’ebreo bianco”). Come ebreo bianco, non mi vergogno di niente. Ho commesso errori e li ho ammessi, ma alla fine sono orgoglioso di essere un figlio dei padri fondatori. Mi sento più sionista di ogni altro. A volte, mi sembra perfino di essere l’ultimo sionista.

 

[1] Haaretz, 11 ottobre 2012.

[2] Non-ebrei.

[3] Ebrei originari dell’Europa orientale o del Nord-Africa.

[4] Ariel Sharon è anche conosciuto col soprannome di Arik.