BRICS: economie emergenti, società divise

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di Vittorio Valli[1] 

Quando si guarda retrospettivamente a ciò che è successo negli ultimi decenni nei paesi che vengono comunemente chiamati BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) si trova un indubbio, ma assai diversificato, successo economico, a cui corrispondono tuttavia differenti forme di disagio sociale.

Il successo economico è noto a tutti, ma è importante ricordare che è stato profondamente diverso tra gli stessi paesi BRICS, sia nella durata sia nell’intensità.

L’accelerazione del tasso di crescita economica tendenziale si è avuta già dal 1978 in Cina; dalla seconda metà degli anni 1980, e in particolare dal 1991 in India; dal 1999 in Russia e in Sud Africa; e dal 2001 in Brasile.

Per intensità, fra i BRICS, la Cina e l’India hanno avuto, nel loro periodo di rapido sviluppo, il tasso di crescita nettamente più alto. In Cina il PIL reale pro capite medio annuo è cresciuto del 7,4% dal 1978 al 2013, mentre in India è salito del 5,2% dal 1992 al 2013. Negli anni 1978-2013 in Cina il PIL reale è salito dell’8,6% all’anno, mentre dal 1992 al 2013 esso è salito in India del 6,5%. Seguono, come ritmo di sviluppo, ma a notevole distanza, la Russia, dopo il crollo economico degli anni 1990, il Sud Africa, dopo la lunga stagnazione degli anni 1980 e 1990, ed infine il Brasile degli anni 2000.

 

Cina e India 

La Cina è quindi il paese che dal 1978 è cresciuto nettamente di più e per un periodo assai più lungo, ma partendo dalle posizioni di partenza peggiori[2].

Come mostra la tabella 1, nel 1978 la Cina aveva tra tutti i paesi BRICS il PIL pro capite in parità di potere d’acquisto più basso, pari al 3% di quello degli Stati Uniti e un poco inferiore a quello dell’India.

Dopo l’avvio nel 1978 di un lungo processo di profonde riforme economiche, la Cina ha avviato un periodo di crescita economica straordinaria, superando, come livello di PIL pro capite, nei primi anni 1980 l’India e negli anni recenti anche il Sud Africa ed il Brasile e raggiungendo un livello superiore ad un quinto di quello americano ed a un terzo di quello italiano.

 

Tabella 1. PIL pro capite in parità di potere d’acquisto (USA = 100) 

Paese 1950 1978 1990 2000 2013
Cina 2,6 3,0 4,6 6,7 21,1
India 4,4 3,5 3,8 4,5 8,0
URSS fino al 1990, Russia dal 2000 29,7 35,7 29,7 21,8 35,3
Brasile 20,8 22,9 19,1 16,8 19,4
Sud Africa 29,0 24,8 18,1 14,9 19,0

 

Fonte: Conference Board-GGDC (PPA EKS) (2014). Per l’URSS valori in parità di potere d’acquisto (PPA) con metodo Geary Kamis (GK), in % di quelli analoghi USA, non perfettamente confrontabili con quelli in PPA con metodo EKS (Elteto, Koves, Szulc).

 

 

Come, tuttavia, i chiari contributi di Elisa Chinellato e di Veronica Vercesi mettono in luce, tale processo si è accompagnato a diseguaglianze economiche e sociali fortemente crescenti sia tra le famiglie che tra le provincie cinesi.

La povertà assoluta è progressivamente e fortemente diminuita, ma le diseguaglianze tra le famiglie in termini di redditi e di consumi sono aumentate da un livello iniziale assai basso ad un livello nettamente superiore a quello di un’economia capitalistica ad elevata diseguaglianza come gli Stati Uniti.

In Cina il riconoscimento di fatto dagli anni 1980, e di diritto dal 2007, della proprietà privata e la rapida crescita delle imprese private, dei compensi dei top manager e dei proventi della corruzione per non pochi politici o amministratori pubblici hanno condotto alla formazione di una quota ristretta di super-ricchi e di una crescente classe media. Sono, tuttavia, rimasti due enormi gruppi di persone che vivono malamente: i contadini delle zone agricole interne più povere e gli immigrati interni illegali. Questi ultimi, cioè gli emigrati dalle campagne alle città senza una formale autorizzazione al trasferimento, sono stimati essere oltre 160 milioni di persone e hanno mediamente salari assai più bassi, condizioni di lavoro peggiori e, in molte città, l’assenza totale o la grave mancanza di prestazioni sociali (pensioni, sanità, istruzione pubblica per i figli). Va inoltre ricordato che, a causa del rapidissimo aumento dei prezzi delle abitazioni nelle grandi città, i lavoratori immigrati interni a basso reddito in genere non dispongono di un’abitazione decente e sono costretti a vivere in squallide periferie urbane con conseguente grande aumento dei costi di trasporto e del tempo perso sui mezzi pubblici e una forte riduzione nella qualità della vita.

Nonostante il PIL pro capite e il salario medio della Cina siano ancora assai lontani da quello degli Stati Uniti e dei più ricchi paesi europei, il divario si sta rapidamente riducendo. Come mostra la tabella 1, il PIL pro capite cinese è salito dal 3% di quello degli USA nel 1978 al 21,1% nel 2013.

Se invece usiamo, come rozzo indicatore delle dimensioni complessive di un’economia, il PIL totale espresso in parità di potere d’acquisto, possiamo vedere (Tabella 2) che la Cina ha rapidamente avvicinato, e si accinge presto a superare, il livello degli Stati Uniti, mentre l’India ha scavalcato il Giappone come terza maggiore economia mondiale e la Russia, il Brasile e il Sud Africa stanno limando il loro grande distacco.

 

Tabella 2. PIL totale in parità di potere d’acquisto (USA=100) 

Paese 1950 1978 1990 2000 2013
Cina 9,5 12,9 20,7 29,9 90,1
India 10,3 10,3 12,8 15,9 30,8
URSS fino al 1990, Russia dal 2000 35,0 41,9 34,3 11,3 15,8
Brasile 5,5 12,1 11,5 10,5 12,5
Sud Africa 2,6 3,1 2,8 2,5 2,9

 

Fonte: Conference Board-GGDC (PPA EKS) (2014). Per l’URSS valori in parità di potere d’acquisto (PPA) con metodo Geary Kamis (GK), in % di quelli analoghi USA, non perfettamente confrontabili con quelli in PPA con metodo Elteto, Koves, Szulc (EKS).

 

Nonostante il lungo periodo di rapido sviluppo, la Cina risente ancora di notevoli problemi sociali e politici, che i contributi di Chinellato e Vercesi mettono bene in luce. Non solo le diseguaglianze sono cresciute, ma anche l’inquinamento, mentre diverse forme di copertura sociale degli anni 1970 sono state parzialmente smantellate. Le grandi città cinesi sono tra le prime del mondo per la cattiva qualità dell’aria. Altissime concentrazioni di CO2 e di polveri sottili e, nel nord del paese, periodiche tempeste di sabbia, rendono l’aria difficilmente respirabile e responsabile di non pochi tumori o malattie polmonari. L’inquinamento dell’acqua e del suolo è anch’esso assai elevato, soprattutto nelle zone ad alta concentrazione industriale. I costi crescenti delle cure mediche rendono più difficile l’accesso di tutti alla salute. La notevole riduzione della copertura pensionistica e del numero dei figli (per la politica del figlio unico) rende più incerto il destino degli anziani, obbligando le famiglie a risparmi inusitati e quindi ad una grande compressione dei consumi correnti. I costi crescenti dell’istruzione di qualità rendono assai difficile l’accesso all’istruzione universitaria per i figli dei contadini poveri e degli immigrati illegali. Vi è inoltre, il problema dell’eccessiva dipendenza del sistema produttivo dalle esportazioni, che la crisi globale degli anni 2008-2013 ha pesantemente messo in luce.

Vi è stato quindi il tentativo, finora piuttosto timido, del governo centrale cinese di combattere l’inquinamento, di intervenire a sostegno delle zone più povere del paese e di sostenere maggiormente i consumi interni e le spese di welfare. Rimane, tuttavia, il deficit democratico del paese, che rende più difficile l’espressione del disagio sociale e più ineguale l’azione di contrasto.

Sull’India le analisi sono in un certo senso ancora più complesse[3]. Abbiamo qui due saggi assai interessanti, di Matilde Adduci e di Tommaso Bobbio. Il primo fa un bilancio degli ultimi due decenni dell’ India, il secondo tratteggia la complessa e controversa figura del nuovo premier indiano Narendra Modi. La tesi principale dell’Adduci è che le politiche neo-liberiste e favorevoli alla globalizzazione seguite dall’India dal 1991 in poi, se hanno contribuito ad accelerare il tasso di sviluppo economico, hanno anche condotto a non poche contraddizioni, soprattutto sul piano sociale. Nonostante la rapida crescita economica, si è raggiunto un assai modesto livello dell’indice dello sviluppo umano, vi è ancora un grandissimo numero di poveri, vi è stata una crescita del tutto insufficiente di posti di lavoro dignitosi nell’industria, si è allargato lo spazio dell’economia informale, dove i lavoratori sono meno pagati e hanno meno protezione sociale. Sono inoltre spesso peggiorate le condizioni di vita di molti piccoli contadini e degli addetti ai servizi più umili. Come Matilde Adduci ha ricordato, e Elisabetta Basile ha più nel dettaglio mostrato in un suo recente volume,[4] non si è potuto, o non si è politicamente voluto, ridurre il ruolo e l’estensione dell’economia informale, anche per l’intreccio di quest’ultima con le forti divisioni castali e sociali. L’economia informale assorbe gran parte dell’occupazione dell’economia indiana e serve da supporto alla grande industria ed alle famiglie per molti beni e servizi a basso costo, ma ha livelli di produttività estremamente bassi e spesso stagnanti e può quindi offrire redditi assai modesti ai propri addetti.

Tommaso Bobbio ha concentrato la propria attenzione sulla figura di Narendra Modi, il vincitore, col suo partito, Bharatiya Janata Party (BJP), delle elezioni politiche indiane del maggio 2014. Come è noto, il BJP è un partito di destra indù e Modi è stato per tre mandati il primo ministro dello stato di Gujarat, che ha conseguito, durante la sua guida, buoni risultati in termini di crescita economica, ma che ha permesso nel 2002 sanguinosi pogrom anti-musulmani. Bobbio ha mostrato come la figura politica di Modi si basi sull’intreccio tra tradizione e modernità, sui riti yoga e il piglio manageriale con cui egli tenta di attrarre capitali internazionali ed accelerare lo sviluppo economico del paese. Tale politica gli ha permesso di catturare il consenso di una parte importante dei ceti medi e del grande capitale indù, ma ha creato divisioni laceranti con la minoranza musulmana, che conta oltre 181 milioni di persone, ossia circa il 14,4% della popolazione. Divisioni profonde si sono anche create con una parte importante dei poveri delle aree rurali e degli slum urbani e con i ceti medio-bassi dell’economia informale, alcuni dei quali, tuttavia, delusi dalle deboli riforme tentate dal partito del Congresso, hanno votato per un uomo forte, autoritario, che promette al contempo maggiore crescita ed efficienza e grande rispetto formale delle tradizioni religiose indù.

La crescita economica, vigorosa dal 1991, ma un poco appannata nell’ultimo biennio, si è quindi accompagnata in India a un aumento delle già forti divisioni economiche, sociali, etniche, religiose e politiche che contraddistinguono il grande subcontinente indiano. 

 

La federazione russa

Vi è ora un terzo paese BRICS, la Federazione Russa, a cui è dedicato il bel saggio di Cristian Collina.

Prima di occuparci di questo saggio è necessaria una breve premessa. Se la Russia è stata inserita dall’inizio nell’elenco dei BRICS è stato per la notevole ripresa economica successiva al 1998, ma come erano andati i nove anni precedenti, dal 1989 al 1998 ?

Va naturalmente ricordato che nel 1989, al momento della caduta del muro di Berlino, vi era ancora l’URSS e solo nel 1991 vi è stata la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la rinascita della Russia, sotto forma di Federazione russa. Utilizzeremo tuttavia i dati in parità di potere d’acquisto della Repubblica Russa prima della dissoluzione dell’ URSS e poi quelli della Federazione russa, per rendere il confronto omogeneo nel tempo.

Con i dati esposti nella tabella 3 possiamo rispondere al nostro quesito. L’andamento economico degli anni 1989-1998 è stato disastroso, addirittura peggiore di quello che era successo agli Stati Uniti nel periodo della grande depressione degli anni 1930. Gli anni della transizione, assai malamente governati dall’ultimo Gorbaciov e poi da Eltsin, hanno condotto a un crollo del PIL reale e del PIL pro capite di oltre il 44% e a una perdita di oltre un quarto degli occupati totali. Anche la produttività del lavoro è scesa in quei nove anni di oltre un terzo, spingendo fortemente all’ingiù anche i salari reali.

Rispetto al 1998 la ripresa economica, sostenuta dai proventi del petrolio e del gas russo venduti all’estero, è stata abbastanza buona, con una crescita annua del PIL reale del 4,9%, ma se noi confrontiamo il dato del PIL reale del 2013 con quello del 1989 il progresso è stato minimo, dell’ordine dello 0,5 % all’anno. Del resto solo nel 2008 la Russia ha superato il livello del PIL reale del 1998.

Naturalmente la struttura produttiva attuale è profondamente mutata rispetto a quella del 1998. La caduta del potere del Partito comunista e della stessa Unione Sovietica e diverse ondate di liberalizzazione, di privatizzazione e di ristrutturazioni, in genere mal gestite, hanno condotto negli anni della transizione a una sconvolgente caduta della produzione e dell’occupazione e all’accaparramento da parte di pochi oligarchi di molte tra le più ricche imprese del paese. Si sono in tal modo create grandi ricchezze private, mentre molte persone soffrivano per la perdita del lavoro, o per la perdita dei risparmi di una vita, erosi da periodi di iper-inflazione e di crisi finanziarie, o per la drammatica caduta del potere d’acquisto dei propri salari o delle proprie pensioni.

 

Tabella 3. L’economia della Russia negli anni 1989-2013 (1989 =100) 

Indicatori Anno iniziale 1989 Anno di minimo 1998 Anno finale2013
Livello del PIL reale 100,0 55,4 113,8
Livello del PIL reale pro capite 100,0 55,1 117,7
Livello della produttività (a) 100,0 65,9 111,6
Livello dell’occupazione 100,0 84,1 102,0

 

  • PIL reale / persone occupate. Fonte: Conference Board-GGDC (2014). I dati delle prime tre righe sono in PPA EKS.

 

Le maggiori dosi di libertà e democrazia conquistate hanno avuto perciò un prezzo assai elevato. La completa disorganizzazione e l’elevata corruzione dello Stato nell’era di Eltsin ha inoltre aperto la strada all’avvento di Putin che, promettendo uno stato più forte e più ordine nel paese, ha abilmente inoculato forme autoritarie e elementi nazionalisti nel gracile corpo della nascente democrazia russa.

Cristian Collina, nel suo saggio, ha centrato la sua analisi soprattutto sui problemi politici, partendo dalla fallacia della tesi di Fukuyama relativa alla fine della storia. Nella lettura di Collina, vi era stato negli anni della transizione una sorta di atrofia dello Stato e un difficile rapporto dello stesso con la costruzione della democrazia. L’insoddisfazione di molti cittadini russi è stata tale da rendere poi relativamente agevole per Putin realizzare una riforma centrata su un modello verticale del potere, basato sulla centralità dello Stato e del governo centrale nei confronti dei soggetti politici e economici centrali e periferici. Vi è stato così in un certo senso sia il ritorno della Russia sulla scena mondiale, sia il ritorno della storia.

Collina mette inoltre in luce le criticità di tale modello verticale del potere. Vi è innanzitutto una parziale erosione della democrazia, così faticosamente conquistata: la trasformazione della fragile e caotica democrazia di Eltsin in una democrazia guidata, o sovrana, o verticale, con seri elementi autoritari. Vi è inoltre l’eccessiva dipendenza del sistema produttivo russo dal settore energetico e minerario e dal complesso militare-industriale, messo in ginocchio nella fase della transizione, e ristabilito dalla politica di potenza di Putin. Vi è infine l’aumento e il consolidamento delle diseguaglianze economiche e sociali già generatesi negli anni della transizione.

Quest’ultimo aspetto merita un approfondimento. L’Urss degli anni 1980 aveva livelli di diseguaglianza nei redditi delle famiglie molto contenuti, a parte i grandi privilegi, monetari o in natura, di cui godeva il gruppo, relativamente ristretto, dei membri della Nomenklatura. Negli anni della transizione e nell’era di Putin la diseguaglianza economica è fortemente cresciuta, per cui la Federazione russa appare oggi avere un indice di concentrazione dei redditi assai elevato, superiore a quello degli Stati Uniti. Se poi avessimo dati adeguati, alla Piketty, sulla misura dei redditi e, soprattutto della ricchezza, che vanno all’ 1% più ricco della popolazione, vedremmo probabilmente una concentrazione assolutamente abnorme di ricchezza in relativamente poche mani: i grandi oligarchi privati non messi in prigione da Putin, i gestori delle maggiori banche e di gigantesche imprese pubbliche, come Gazprom e Rosneft, e probabilmente anche i capi delle mafie russa e cecena.

Vi è stato quindi in Russia, nell’ultimo quarto di secolo un grande aumento delle divisioni economiche e sociali.

Se la crisi ucraina e della Crimea, l’embargo occidentale nei confronti della Russia e l’attuale forte discesa dei prezzi del petrolio e del gas stanno profondamente mutando i termini della questione russa ed i suoi rapporti con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, non va scordato che tutto ciò può ricompattare il paese su pericolose derive nazionalistiche.

 

 Il Brasile

Spostandoci ora al grande continente Latino-Americano prendiamo in esame il caso del Brasile, illustrato dall’interessante saggio di Alfredo Saad Filho.

L’autore conduce un’analisi serrata delle due principali fasi della politica economica seguite in Brasile, quella basata essenzialmente sull’import-substitution (sostituzione delle importazioni con produzione interna) e quella del neo-liberalismo, e dei rapporti tra queste due fasi e la struttura di classe sottostante. Come è noto, la prima fase fu dominante in Brasile fino agli anni 1980, per poi essere sostituita dalla fase neo-liberista soprattutto sotto le presidenze di Fernando Collor (1990-1992) e di Fernando Henrique Cardoso (1994-2002). Successivamente le amministrazioni dei presidenti Lula (2002-2011) e Dilma Roussef (dal 2011 ad oggi) mantennero, per l’autore, diversi aspetti della politica neo-liberista temperandola tuttavia con importanti interventi di carattere sociale che contribuirono a ridurre le abissali diseguaglianze economiche e sociali esistenti nel paese.

Saad Filho ha cercato di spiegare il passaggio tra le due fasi, e anche le gravi, ma disarticolate, esplosioni di protesta di massa del giugno-luglio 2013, con le caratteristiche e le trasformazioni della struttura di classe del paese. Quest’ultima si articolerebbe in 5 gruppi principali: la borghesia, a sua volta divisa in borghesia neo-liberale ed in borghesia interna; la classe lavoratrice; il proletariato informale; la classe media. E’ la dinamica complessa di queste classi nel tempo che contribuirebbe a spiegare sia le profonde trasformazioni nel modello di sviluppo economico del paese, sia la recente presenza di vivaci e aggressivi movimenti, soprattutto giovanili, che dimostrerebbero la tendenza verso una “lumpenizzazione” della politica e la “facebookizzazione” della protesta.

Alcuni aspetti importanti dell’economia brasiliana vanno qui ricordati.

Il Brasile è, come diversi paesi dell’America latina e dell‘Africa subsahariana, un paese caratterizzato da altissimi livelli di diseguaglianze dei redditi e, ancor di più, della ricchezza.

Pur con i suoi tanti limiti, l’indice di Gini ci consente di misurare i livelli e le tendenze della concentrazione dei redditi. L’indice varia da 0 (perfetta eguaglianza) a 1 (massima concentrazione) e varia normalmente nei paesi più industrializzati da 0,23 a 0,45. In Brasile questo valore era invece nel 2001 di 0,553, tra i più elevati del mondo, per poi scendere con le amministrazioni Lula e Roussef al 0,519 nel 2012.

Un secondo aspetto, in parte associato al primo, è la grande dimensione dell’economia informale. Se questa è già notevole in Italia, in Brasile tale fenomeno ha dimensioni assai più estese, anche se nettamente inferiori a quelle dell’India. Secondo le stime dell’ILO, nel 2009 vi erano in Brasile circa 32,5 milioni di occupati nell’economia informale extra agricola, pari al 42,2% dell’occupazione extra agricola totale[5].

Ora, un maggior peso dell’economia informale, associata a molti lavori precari e mal pagati e a un’elevata diseguaglianza dei redditi, contribuisce a determinare una forte frammentazione sociale, espressa, ad esempio, dalla coesistenza in diverse città di misere e pericolose favelas con grattacieli e diversi complessi residenziali cintati e sorvegliati per i ricchi.

La buona crescita economica brasiliana in una parte degli anni 2000, seppure recentemente appannatasi, è tuttavia in notevole misura dovuta al boom dei prezzi di diverse materie prime, quali lo zucchero, il caffè, le granaglie, il cotone e il nichel, di cui il Brasile è grande produttore e esportatore. Quindi molto dipende dalle oscillazioni nei prezzi di questi beni. La fase di crescita dei prezzi delle materie prime ha comportato tra l’altro una certa sopravalutazione della moneta brasiliana, che ha ostacolato la crescita delle esportazioni dell’industria manifatturiera. Negli anni 2000 quest’ultima è cresciuta discretamente, ma si è diversificata in maniera insufficiente, data le carenze della politica industriale del paese e il ritardo nelle spese in ricerca e sviluppo e nel processo innovativo rispetto ai maggiori concorrenti mondiali. Le spese in Ricerca e Sviluppo in % del PIL, sebbene tendenzialmente in crescita, erano, ad esempio, nel 2008 l’1,1%, contro il 2,9% degli USA, il 3,5 % del Giappone e il 3,4% della Corea del Sud.

Il quadro finale che ne esce è quindi in chiaroscuro, con dei progressi, ma anche molte ombre. Resta ancora il problema delle ancora troppo elevate diseguaglianze economiche e, come per gli altri BRICS, della grande frammentazione sociale. 

 

Il Sud Africa 

Giungiamo ora al Sud Africa, il solo rappresentante tra i BRICS del grande continente africano.

Va detto subito che l’andamento macro-economico del Sud Africa nell’ultimo ventennio non è stato particolarmente brillante. Ciò non stupisce per nulla, per le grandi difficoltà di un paese nel superare i postumi della rovinosa politica dell’apartheid, definitivamente oltrepassata solo con le elezioni politiche del 1994. In ogni caso negli anni 2000 il Sud Africa, ricco di risorse naturali, ma piagato da una struttura economica e sociale disperatamente diseguale, ha intrapreso un discreto ritmo di sviluppo economico. Il tasso di crescita medio annuo del PIL reale è stato dal 1999 al 2013 del 3,4% mentre il PIL reale pro capite cresceva del 2,8%.

Nel frattempo, tuttavia, le diseguaglianze economiche rimanevano enormi. L’indice di Gini sulla distribuzione del reddito che nel 1993, secondo le stime della World Bank , era già tra i più alti del mondo e vicino a quello del Brasile, e cioè 0,59, saliva ulteriormente a 0,65 nel 2011.

In questo numero di Nuvole le vicende del Sud Africa sono ripercorse da Sam Ahman e Nicolas Pons-Vignon. I due autori svolgono un’analisi essenzialmente politica centrata sul ruolo di un importante e combattivo sindacato NUMSA (The National Union of Metalworkers of South Africa) nella possibile costruzione di un fronte unico della sinistra, che svolga una politica più incisiva nei riguardi dei grandi problemi economici e sociali del paese rispetto a quella svolta dal partito che regge dal 1994 le sorti del paese, cioè l’African National Congress di Nelson Mandela e Jacob Zuma.

È difficile prevedere se le intricate vicende sindacali e politiche del grande paese africano avranno una soluzione positiva. Resta il problema dell’inadeguatezza delle politiche del recente passato, anche tenendo conto delle assai difficili e turbolente condizioni sociali e politiche del paese nel periodo post-apartheid.

 

Conclusioni 

I saggi presentati in questo numero di Nuvole danno un’idea di quanta differenziata sia stata la performance economica e sociale dei paesi che nel 2001 sono stati battezzati quali BRICS da un esponente della Goldman Sachs[6]. L’acronimo ha avuto grande fortuna, tanto è vero che dal 2009 si svolgono annualmente vertici politici dei paesi BRICS, che fanno da contraltare, in un certo misura, ai vertici dei G7.

La performance economica dei vari BRICS è stata molto diversa, sia nella durata sia nell’intensità. La capacità dei cinque paesi di far fronte ai loro problemi sociali più importanti è stata anch’essa notevolmente diversa, ma i BRICS denotano ancora oggi divisioni sociali ed economiche assai forti. Queste sono enormi in Sud Africa e in Brasile, ma in quest’ultimo paese le presidenze Lula e Dilma Roussef le hanno in parte attenuate. In India, nonostante la buona performance economica, le divisioni sociali sono assai grandi e persistono enormi sacche di estrema povertà oltre a profonde divisioni castali e religiose. In Cina e Russia nell’ultimo ventennio le divisioni sociali si sono molto approfondite, incrinando la solidità dei risultati economici, ottimi in Cina e solo discreti in Russia.

 

Riferimenti bibliografici 

– Adduci M. (2009), L’India contemporanea. Dall’indipendenza all’era della globalizzazione, Carocci, Roma

– Balcet G. e Valli V. (a cura di), Potenze economiche emergenti. Cina e India a confronto, Il Mulino, Bologna

– Basile E. (2014), Capitalist development in India’s informal economy, Routledge, New York

– Basu S.R. (2009), Comparing China and India. Is the dividend of economic reforms polarized? “European Journal of Comparative Economics”, vol. 6, n.1

– BRICS (2014), BRICS Joint Statistical Publication

– Chiarlone S. e Amighini A. (2007), L’economia della Cina, Carocci, Roma

– Goldstein A. (2011), BRIC. Brasile, Russia, India, Cina alla guida dell’economia globale, Il Mulino, Bologna

– ILO (2013), Women and men in the informal economy: a statistical picture, Ginevra

– Musu I. (2011), La Cina conteporanea, Il Mulino, Bologna

– Naughton B.J, (2007), The Chinese Economy. Transitions and Growth, MIT Press, Cambridge, Mass

– Torri M. (2007), Storia dell’India, Laterza, Roma-Bari

– Valli V. (2015) , The Economic Rise of China and India, di prossima pubblicazione

– Valli V., Saccone D. (2009), Structural Change and Economic Development in China and India, “European Journal of Comparative Economics”, vol. 6, n.1, pp. 101-129

 

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[1] Professore emerito di Politica economica all’Università di Torino. Docente di sviluppo economico comparato. Membro dell’Osservatorio sulle economie emergenti di Torino. (vittorio.valli@unito.it).

[2] Sullo sviluppo economico della Cina, si veda, ad esempio, Musu (2011), Naughton (2007), Chiarlone e Amighini (2007). Sul confronto Cina e India: Balcet e Valli (2012), Basu (2009), Valli e Saccone (2009). E’ di prossima pubblicazione un mio volume, The Economic Rise of China and India.

[3] Sull’India si vedano, ad esempio, Torri (2007), Adduci (2009), Basu (2009).

[4] Vedi Basile (2013) e il commento di Torri (2014).

[5] Vedi ILO (2013), table 2.1. In India nel 2009/10 la percentuale in questione era dell’83,6%,in Cina nel 2010 era del 32,6%.

[6] I paesi BRIC erano inizialmente quattro (Brasile, Russia, India e Cina), ma successivamente è stato aggiunto il Sud Africa, per cui l’acronimo è diventato BRICS. A margine delle conferenze annuali dei BRICS è pubblicata una assai utile Rassegna statistica (vedi BRICS, 2014). Sull’andamento dei primi quattro paesi, si veda anche l’interessante volume di Goldstein (2011).