La nuova Berlino ebraica tra memoria e futuro – Rita Calabrese

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La nuova Berlino ebraica tra memoria e futuro

di Rita Calabrese

 

Fino al 1989 anche l’ebraicità assume dimensioni diverse nei due stati tedeschi che nella Berlino divisa si contrappongono frontalmente. Tragicamente ridimensionata – i 150.000 iscritti alla comunità della capitale tedesca del 1937 si erano ridotti a 8.000 nel maggio 1945 – la vita ebraica berlinese riprende in pratica ad Ovest. Nella Fasanenstrasse, in quel quartiere di Charlottenburg dove tradizionalmente risiedevano molti ebrei emancipati ed assimilati della media e alta borghesia, viene inaugurata nel 1959 la sede della comunità. A Est rimane, inaccessibile dalla costruzione del Muro nel 1961, il vecchio cuore dell’ebraismo berlinese. Qui sono le tracce di Moses Mendelssohn e l’inizio del dialogo ebraico-tedesco all’insegna dell’Illuminismo, come pure la Nuova Sinagoga nell’Oranienburgerstrasse, dall’aspetto moresco con una sontuosa cupola verde e oro, segno tangibile dell’orgogliosa consapevolezza degli ebrei berlinesi e inaugurata nel 1866 nello Scheunenviertel, in simbolica contrapposizione tra l’ebraismo dell’assimilazione e quello della tradizione. Il “quartiere dei fienili”, infatti, popolato dagli immigrati dall’Europa dell’Est, tra Ottocento e Novecento divenne il centro dell’ebraismo ortodosso, assumendo il carattere di uno shtetl, la tipica cittadina ebraica dell’Europa orientale, con le sue bottegucce di rigattieri, i negozi kasher, le scuole talmudiche in un labirinto di viuzze strette e affollate, regno di ladri e prostitute e rimasto nell’immaginazione collettiva la Berlino oscura e pittoresca del malaffare anche dopo il suo risanamento ai primi del Novecento.

Per la sparuta comunità superstite rimane attiva a Berlino-Est soltanto la sinagoga della Rykestrasse, nel quartiere di Prenzlauer Berg. Negli anni Cinquanta i processi staliniani contro i medici ebrei inducono molti alla fuga o alla mimetizzazione. Il laicismo di stato inoltre non incoraggia manifestazioni di vita religiosa. Se non proprio di antisemitismo strutturale, si può senz’altro parlare di silenzio e cancellazione, ma anche di rimozione, che portano alla disgregazione della vita ebraica. Solo alla fine degli anni Ottanta, per ragioni di politica estera, inizia il riavvicinamento alla residua ebraicità e si avvia il restauro dell’antico quartiere ebraico abbandonato e in rovina.

Insieme a milioni di vite lo sterminio nazista ha posto fine a quello straordinario fenomeno che è stato la presenza ebraica nel mondo di lingua tedesca, distruggendo la convinzione appassionatamente coltivata dagli ebrei tedeschi per un più di un secolo di una simbiosi o almeno di un dialogo, rivelatasi poi una tragica illusione ma che in realtà ha lasciato tracce indelebili nella cultura. Per i sopravvissuti fu difficile riprendere a vivere nella patria diventata il paese degli assassini: molti di quelli che avevano lasciato la Germania durante il nazismo rimasero nei luoghi dell’esilio; quelli che scelsero di tornare non poterono più riconoscersi nella denominazione ufficiale ottocentesca «cittadini tedeschi di fede ebraica», oscillando ancor più nella seconda generazione nella propria auto-definizione tra ebrei tedeschi, tedeschi ebrei o ebrei in Germania. Un elemento inaspettato venne poi ad arricchire anche numericamente le comunità decimate o distrutte: gli apolidi, i cosiddetti Displaced Persons, ebrei dell’Europa Orientale reduci dallo sterminio, collocati in campi di raccolta per anni dopo la fine della guerra che, per scelta o per mancanza di alternative, finirono con il rimanere in Germania, ma che nulla avevano in comune con l’ebraismo tedesco. Tedeschi, quindi, per caso. Di passaggio, di ritorno. La diffidenza verso ogni appartenenza totalizzante e la presenza dello Stato di Israele, inoltre, si sono tradotti in un’ulteriore opzione tra pendolarismo e identità multiple, in una nuova forma di diaspora.

Il senso di sradicamento, la mancanza di identità comune e la ricerca di impervi percorsi individuali, fuori dai modelli tradizionali, ormai svalutati e stravolti dagli eventi, contraddistingue le generazioni più giovani. Queste ultime, a partire dagli anni Novanta hanno dato vita ad una produzione di grande interesse ormai definita “nuova letteratura ebraico-tedesca”, che annovera tra Germania e Austria nomi come quelli di Barbara Honigmann, Maxim Biller, Esther Dischereit, Lea Fleischmann, Gila Lustiger, Robert Menasse, Chaim Hans Noll, Robert Schindel, Rafael Seligmann.

Tutti hanno dovuto confrontarsi necessariamente con la Shoah, cercando di liberarsi di una pesante eredità di morte, osservando criticamente la realtà tedesca, rompendo provocatoriamente tabù ebraici, recuperando la tradizione o, come si nota sempre più di frequente, ricostruendo vere e proprie genealogie attraverso ilromanzo familiare. Tra la dimensione orizzontale dell’io nel presente e quella verticale del noi che si inserisce nella storia, riconfigurandola da una prospettiva ebraica, disegnano la multiformità del “mosaico mosaico”, in cui rimangono nette le distinzioni che sfuggono ad uno sguardo omologante esterno.

Oltre che dalla grandiosità dei palazzi del potere, la capitale della Germania riunificata è stata vistosamente contrassegnata da due realizzazioni ormai profondamente inseritesi nel panorama urbano e nell’immaginario cittadino, controversi luoghi di monito e memoria che svolgono la funzione ufficiale di confronto collettivo con la Shoah: il Museo Ebraico e il Monumento all’Olocausto, discutibile abbreviazione dell’ufficiale denominazione Monumento agli ebrei assassinati d’Europa. Il Museo, progettato da Daniel Libeskind, nelle sue linee spezzate che s’intrecciano, è volto a figurare la continuità interrotta della cultura ebraico-tedesca e il tentativo di ricucire lo strappo in una ritrovata convivenza, coinvolgendo i visitatori fisicamente e spiritualmente, con sensazioni fisiche di un percorso accidentato tra spazi aperti, chiusi e improvvise interruzioni, con stimoli multimediali di ricostruzione storica ed emotiva. Il Monumento, campo ondulato di 2711 parallelepipedi, fornito di un centro di documentazione sotterraneo, nelle immediate vicinanze di Brandenburger Tor e del Reichstag, con il suo messaggio volto al presente non immediatamente percepibile, rischia di irrigidire la memoria in un’anonima dimensione cimiteriale. Oltre al Museo e al Monumento già citati, tra gli innumerevoli luoghi della memoria che continuano a sorgere in tutta la città da ricordare il suggestivo Lo spazio abbandonato a Koppenplatz, la parete trasparente nel quartiere di Steglitz, i numerosi Stolpersteine, pietre d’inciampo, con i nomi delle vittime sparse in tutta la città ed il più recente gruppo bronzeo nella Georgenstrasse che ricorda i Kindertransporte.

Accanto a questa Berlino di pietra sempre più costellata di luoghi della memoria ebraica nasce una Berlino ebraica letteraria. Ritagliati nel contesto “altro” della maggioranza cristiana, i luoghi ebraici – reali, astratti, immaginari – presentano in tal modo caratteri originali insieme a zone intermedie ed esiti di incontri e mescolanze, tracciando nuove mappe della percezione urbana. Berlino appare come spazio di scrittura sognato e immaginato, luogo di ricerca identitaria e di confronto con la tradizione, come nelle parole di Jakob Hein che, ricostruendo la vita della madre ebrea, ricorda la desolazione dello Scheunenviertel senza più tracce di vita ebraica negli anni Ottanta. Da un’insolita distanza linguistica, oltre che geografica, i discendenti dei cosiddetti “Jeckes”, quei circa 50.000 tedeschi fuggiti in Palestina durante il nazismo, vanno ora recuperando il rapporto con la cultura tedesca. Scrittori come Ruvik Rosenthal, Nathan Shaham, Yoram Kaniuk evocano la metropoli della Repubblica di Weimar, mantenutasi intatta nel ricordo degli emigrati.

La costruzione di un’identità ebraica nella Rdt e la pratica quasi catacombale nell’unica sinagoga di Berlino Est, il trasferimento a Strasburgo per vivere a fondo il suo ebraismo ricorrono nelle opere di Barbara Honigmann, nata a Berlino Est nel 1949 da ebrei comunisti, sopravvissuti in esilio e tornati nel 1947, convinti di contribuire all’edificazione di una nuova e più giusta Germania. Evanescente e inconsueta ci appare la Berlino di Esther Dischereit, rivelatasi autentica virtuosa della parola in liriche, prose e in produzioni multimediali. Nelle sue opere si intrecciano piani narrativi, si sovrappongono le voci narranti, si superano continuamente i confini di tempo e di spazio, la narrazione si spezza in frammenti, le identità si confondono e si frantumano per ricomporsi senza mai fissarsi definitivamente. La città appare per scorci e da particolari angolature, non in statiche descrizioni ma in movimento come attraverso un montaggio veloce. Sulle tracce dei nonni deportati, la scrittrice registra la simultaneità del passato e del presente nelle case espropriate dai nazisti a Prenzlauer Berg, dove le voci dei vecchi abitanti si alternano con quelle degli aguzzini di ieri, in Auguststraße, dove tra le gallerie d’arte alla moda si ritrova la memoria delle antiche istituzioni ebraiche, come segno delle possibilità cancellate dalla storia.

Al momento della riunificazione la comunità ebraica di Berlino Ovest contava 6.400 membri e quella di Berlino Est circa 200. Nel 1998, secondo il congresso mondiale ebraico, le comunità ebraiche di Berlino erano quelle con il maggiore tasso di crescita al mondo fuori di Israele. Oggi la comunità ebraica liberale di Berlino conta più di 12.000 membri, rispetto ai 6.400 del 1989, una comunità ortodossa di nome “Adass Jisroel” si è insediata con la propria corporazione e conta qualche centinaio di membri. Dal 1996 rappresentanti dei “Chabad-Lubavitch” hanno pure iniziato il loro lavoro ed ancora si contano circa un migliaio di cittadini israeliani. Attualmente la città ha sette sinagoghe in funzione, ma anche giardini d’infanzia ebraici, nonché scuole primarie e secondarie, centri di incontro e comunicazione ben frequentati, biblioteche, teatri, musei, club sportivi e tutte le forme di vita ebraica associata. Appaiono due quotidiani, «Jüdische Allgemeine» e «Jüdische Zeitung». Le annuali Giornate della cultura ebraica, il Festival del cinema ebraico, concerti di musica klezmer, teatro in lingua yiddish sono diventati parte integrante della vita culturale berlinese. Un vero e proprio rinascimento avviatosi dopo la caduta del Muro, in quanto il 70% degli attuali ebrei di Berlino proviene dalla Russia e dalle ex-repubbliche sovietiche. Se questa massiccia immissione ha rivitalizzato l’ebraicità a Berlino o addirittura in altre città tedesche ha riportato in vita comunità estinte o sull’orlo del collasso, la presenza russa ha apportato anche profondi cambiamenti.

Gli ebrei russi in gran parte non solo preferiscono club e gruppi di interesse di lingua russa, ma anche tendono a sposarsi tra di loro. Molti, inoltre, hanno scelto la loro abitazione in quartieri ad alta densità russa, come Charlottenburg, che per questo è chiamato dagli abitanti russi Charlottengrad. Si può parlare di “enclave culturale russo”, di cui portavoce sono i media in lingua russa. Nella seconda metà degli anni Novanta si contavano in Germania più di una dozzina di giornali in lingua russa, a cui si è aggiunto con successo nel 2002 il settimanale «Jevrejskaja Gazeta».

Come negli anni Venti si è ricostituita a Berlino una vita russa di cui quella ebraica è la componente più evidente. Al suo interno vi sono grandi differenze, tra laici ed osservanti nelle varie forme. L’ampliamento numerico delle comunità tedesche e l’inizio di nuove forme di relazioni russo-tedesche sembra provocare anche l’inarrestabile declino e il definitivo tramonto della gloriosa tradizione dell’ebraismo tedesco a favore di un ebraismo di lingua russa, quanto questo sia vero dal punto di vista più strettamente religioso è ancora tutto da vedere nei suoi futuri sviluppi, anche se forte appare la presenza delle forme più tradizionali e ortodosse dell’ebraismo. Nell’ambito artistico e letterario cominciano a delinearsi nuovi panorami. Insieme alla zona rivitalizzata e molto turistica della Nuova Sinagoga della Oranienburgerstrasse, una nuova scena ebraica si va affermando nel quartiere di Prenzlauer Berg intorno a Kollwitzplatz ed alla restaurata sinagoga di Rykestrasse. Nel quartiere di Wedding è sorta una cerchia di pittori ebrei che ritraggono i grandi esponenti della tradizione ebraico-tedesca ed anche ebrei contemporanei, così come in ambito musicale accanto a riprese pedisseque della tradizione ebraico-orientale si assiste ad interessanti contaminazioni tra sonorità tradizionali orientali e forme moderne.

Russendisko di Wladimir Kaminer è stato salutato nel 2000 come la prima voce letteraria degli ebrei russi di Berlino. Diversamente da molti altri immigrati, Kaminer, nato a Mosca nel 1967, sembra muoversi con grande disinvoltura tra la cultura russofona del paese di origine, quella della minoranza ebraica e quella del paese di accoglienza con tono lieve ed ironico, non senza ammiccamenti al mercato, che ne hanno fatto un vero e proprio autore di culto. La sua Berlino è il luogo del continuo spiazzamento, dell’incessante cambiamento e della decostruzione e ibridizzazione delle identità. Egli stesso accetta le diverse definizioni di scrittore tedesco e di scrittore ebreo di origine russa, con una decisa preferenza per la prima. Il bestiario di Kaminer raccoglie personaggi stralunati, professionisti dell’imbroglio, maestri dell’arte di arrangiarsi nella giungla del capitalismo occidentale, come di destreggiarsi tra le ottusità dei funzionari sovietici. Difficoltà di inserimento, problemi identitari, shock linguistici e culturali diventano vignette divertenti di grande presa e di sicuro successo. Lo stesso tono di distaccata ironia è usato anche riguardo alle tematiche ebraiche, che lo scrittore sembra avere abbandonato per descrizioni berlinesi idilliche e surreali e per dissacranti rappresentazione della vita quotidiana nella ex-Unione Sovietica. Arrivato per caso senza precisa scelta, Kaminer vuole rimanere nella condizione di outsider, aggiornata metamorfosi dell’ebreo errante.

Ben lontano dalla leggerezza ironica di Kaminer, con il suo gusto dell’orrido, Willy Kramer può esserne considerato l’esatto opposto. Nato a Tel Aviv nel 1979 da genitori lettoni, nella sua prima prova letteraria Berlin Fucking City del 2007 esprime l’amore-odio per la città in cui vive fin dagli studi universitari d’arte ma che non riesce a sentire sua. Con tecnica topografica in cui ad ogni quartiere corrisponde una storia sfila dinanzi ai nostri occhi un’intera gamma di mostri urbani. Il libro diventa una guida letteraria ai lati oscuri della metropoli tedesca, con un particolare humor nero ne rivela miserie e tragedie, smaschera la violenza ed il vuoto celati dalle vetrine rutilanti dei marchi di moda. La Berlino di Kramer è abitata da ebrei reali, visti senza misericordia, neoricchi volgari di Charlottenburg, avidi commercianti di Westend, che, rasentando l’odio di sé, sembrano confermare i più vieti stereotipi. Anche la Shoah è spogliata di ogni retorica e vittimismo.

Pur criticando la mentalità tedesca riservata e conservatrice, completamente diversa da quella ebraica e da quella russa, ma senza risparmiare rimproveri a certa chiusura degli ebrei russi nei riguardi della società esterna, denunciando disagi e difficoltà di vivere, Kramer rende problematico omaggio alla vitale Berlino multiculturale del XXI° secolo.

 

Per saperne di più

 

A.A.V.V. (2004), Russische Juden und transnationale Diaspora, numero monografico della rivista “Menora”, 15.

Bertram, J. (2008), Wer baut, der bleibt. Neues jüdisches Leben in Deutschland, Frankfurt, Fischer Taschenbuch Verlag.

Calabrese, R. (a cura di) (2005), Dopo la Shoah. Nuove identità ebraiche nella letteratura, Pisa, ETS.

Calabrese, R. (2006), Ebrei tedeschi dopo la Shoah. Dall’autobiografia al romanzo familiare, in «Materia Giudaica», XI, 1-2, pp. 303-313.

Hein, J. (2004), Magari è anche bello, Roma, edizioni E/O.

Honigmann, B. (1989), Romanzo di un bambino, Torino, Einaudi.

Honigmann, B. (2002), Con tanto, tanto affetto, Venezia, Marsilio.

Kaminer, W. (2001), Militärmusik, München, Goldmann Verlag; trad. it. Militärmusik,Parma, Guanda, 2003.

Kaminer, W. (2000), Russendisko, München, Goldmann Verlag; trad. it. Russendisko, Parma, Guanda, 2004.

Kaminer, W. (2002) Die Reise nach Trulala, München, Manhattan Verlag; trad. it Berliner Express, Parma,Guanda, 2005.

Rosenthal, R. (2003), Rechov haprachim 22, Jerusalem, Kater Publishing House; trad. it Blumenstrasse 22, Firenze, Giuntina 2006.

Shaham, N. (1994), The Rosendorf Quartet, Auflage, Grove Pr; trad. it. Il Quartetto Rosendorf, Firenze, Giuntina, 2004.

 

Rita Calabrese insegna Letteratura tedesca all’Università di Palermo.