Per una critica sintomatica al modello sociale del Libro Bianco del Welfare – Dario Rei

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Per una critica sintomatica al modello sociale del Libro Bianco del Welfare

di Dario Rei

 

1. Premessa

Un aspetto della questione della democrazia è il suo rapporto con le politiche di welfare, che vorrei esaminare nel senso di chiedermi: se i sistemi democratici rappresentativi, dell’Occidente sono cresciuti insieme, ed in parallelo, con le politiche di cittadinanza e protezione sociale, che cosa ne è di tale qualità democratica, quando quelle politiche attraversano, come ora, processi di destrutturazione, crisi o vera e propria decomposizione?

Il welfare classico è stato costruito su una sequenza lineare di tappe della vita: nascita – formazione – lavoro – matrimonio – casa – famiglia – figli – pensionamento – morte. Ciascuna di queste tappe è diventata in sé più fragile, la loro sequenza più contingente. È mutata la relazione fra composizione sociale, percezione dei bisogni, genesi delle domande, sistema delle tutele. Si dice tuttavia che sia più facile mettersi d’accordo sui contenuti delle riforme economico sociali che sulle regole delle riforme istituzionali ed è perciò più semplice riformare in molti aspetti il sistema di welfare e le prestazioni che rende. Ma è proprio così?

 

2. Il vitalismo socioeconomico

Il problema ha dietro di sé una letteratura di proporzioni gigantesche, di cui mi limito a segnalare il mio personale punto di partenza, che fu il convegno torinese del 1981 della Fondazione Basso.1 In questa sede, mi soffermerò invece solo sul Libro Bianco presentato dal governo italiano nel settembre 2009, con il titolo La vita buona nella società attiva: documento politico e non teorico2. E mi occuperò di un solo punto che ritengo centrale, ossia l’idea di vitalismo, che percorre ed anima il testo3, anche se viene assunta in senso differente da quello di uso più corrente nel lessico politico4.

Alla base dell’assetto di welfare ridisegnato dal Libro Bianco si trova l’idea che: “la persona cerca prima di tutto di potenziare la proprie risorse per rispondere al bisogno, la persona vive in maniera responsabile la propria libertà e la ricerca di risposte alle proprie insicurezze” (p. 10). Proprio autodeterminazione e autorealizzazione delle persone segnano, nel lavoro e nell’impresa, il tratto caratterizzante uno sviluppo “inteso non esclusivamente in senso materialista” (p. 6).

Ciò posto, il vitalismo si biparte in un doppio versante, socioeconomico e bioetico, che delineano complementari percorsi di analisi e proposta. Il primo percorso riprende, e ripropone, alcuni dei ragionamenti che da almeno un quarto di secolo si vedono ricorrere intorno alla crisi dei sistemi di welfare:

A) evitare che una fornitura di prestazioni senza contropartite crei dipendenza, esigere la partecipazione attiva degli attori alle opportunità loro offerte, imporre l’assunzione di responsabilità in ordine alle scelte della loro vita;

B) evitare prestazioni assistenziali troppo generose, che determinano l’intrappolamento dei bisognosi in una condizione di esclusione sociale e mantenimento passivo (p. 16);

C) non imbrigliare i movimenti degli individui all’interno del mercato del lavoro in regole rigide, promuovere l’occupabilità e la mobilità attraverso l’apprendimento e la formazione.

 

3. Problemi

La discussione specifica su ciascuno di questi punti porterebbe lontano. Mi limito a segnalare tre questioni, che restano problematiche per ogni vitalismo socioeconomico, che muova, per così dire, “dal basso” e dalle persone singolarmente intese.

A) Come contrastare i rischi presenti in quell’area grigia di vulnerabilità, che avvia a derive di povertà condizioni sociali già protette, rese più deboli dall’attenuarsi delle garanzie e dalla intermittente partecipazione al mercato del lavoro, o le consegna direttamente a questa condizione in assenza di adeguate tutele. Punti critici della questione sono il sostegno da fornirsi alla disoccupazione, conseguente alla perdita del rapporto di lavoro, e perfino il modo di qualificare la disoccupazione e quantificarne l’incidenza. Su questi temi è ingaggiata tempo una querelle statistico-politica fra Ministero del Welfare e Banca d’Italia. Il governatore stimò che fuori degli attuali ammortizzatori, anche allargati “in deroga”, stessero in caso di licenziamento circa 1,2 milioni di lavoratori dipendenti da piccole imprese che non dispongono di Cig e 450 mila lavoratori parasubordinati. Più di recente l’Istituto ha calcolato che le persone “sottratte non per loro volontà al processo produttivo” siano ben 2,6 milioni. Conclusioni numeriche diverse e inferiori si ottengono se la cassa integrazione viene qualificata in via “legale” come sospensione dal lavoro con conservazione del rapporto; ma ciò che conta, a ben vedere, non è se i cassaintegrati rientrino fra i disoccupati legali, quanto la condizione che si prospetta agli 800 mila in Cig, sospesi fra riassorbimento ed espulsione, e, indirettamente, a tutti gli altri che di Cig neppure dispongono.

Il punto politico riguarda la prospettiva di estendere in via strutturale gli ammortizzatori sociali alla totalità dei rapporti di lavoro. Il governo respinge, con le stime, anche le proposte, obiettando che: “in tempo di crisi non sono opportune riforme strutturali che possano mettere a repentaglio la coesione sociale”, oppure che non è il caso di condurre “esperimenti sugli ammortizzatori sociali”. In queste resistenze si legge anche il rifiuto di prendere atto di come, alla maggior flessibilità introdotta in entrata sul mercato del lavoro (per le innovazioni normative approvate fra il 1997 ed il 2003) corrisponda oggi – con un classico effetto “usa e getta” – la minor tutelabilità dello stesso in uscita. Vi è soprattutto il rifiuto di guardare ad una misura di tutela della disoccupazione fruita su base generale, che oltre a ridurre l’incertezza del reddito delle famiglie in caso di perdita di lavoro, consoliderebbe una rete di sicurezza stabile, utile sia all’equità sociale che all’efficienza produttiva attraverso una più accettata flessibilità del lavoro. Non a caso viene preferita la bilateralità contrattata della protezione all’introduzione di una protezione universalistica garantita da automatismi non trattabili5. Qual è l’opzione più adeguata ai conclamati bisogni di autodeterminazione delle persone?

B) Una seconda questione, ancora interna al discorso della sicurezza sociale, riguarda i modi per fronteggiare il mutamento dei bisogni di cura all’interno delle famiglie, in primis per il diffondersi della non autosufficienza anziana e conseguente cronicizzazione delle patologie, cui consegue la necessità di redistribuzione del lavoro di cura fra generi e generazioni e fra interventi informali e servizi formali6.

L’estendersi di patologie cronico-degenerative di lungo decorso pone sfide di dimensioni inusitate alle politiche di welfare soprattutto locale, e minaccia la stessa “solidarietà intergenerazionale”, su un versante simmetrico a quello della precarietà giovanile. Trasferire il trattamento della non autosufficienza dagli aspetti relazionali – propri alla sfera familiare-informale e connesse pratiche di care – in criterio generale di equità ed equilibrio “di sistema” è un compito arduo, che mostra come l’appello all’autoprotezione sociale “dal basso” sia insufficiente e, anzi, (come spesso ricordato da Saraceno) configuri il rischio di una sorta di welfare per abbandono. Altrettanto dicasi per l’eventualità di riconoscere e risarcire per via fiscale la famiglia, quando assume e trattiene al suo interno compiti di care, che proprio per questo non vengono più predisposti e offerti dai servizi formali.

C) Una questione di fondo concerne la natura degli spazi e dei contenuti di libertà concreta, riconosciuti agli attori produttori e fruitori di prestazioni entro il welfare mix. Pur ammettendo che i modelli di prestazione basati sulla sola componente pubblica non siano più interamente adeguati alla complessità e differenziazione dei bisogni, occorre intendersi su cosa propriamente sostanzi, in un contesto plurale, la libertà di scelta personale. Diverso infatti è articolare dispositivi che, in previdenza e in sanità, accrescono la possibilità di scegliere da chi ricevere una prestazione formalizzata dal lato dell’offerta: “il rigoroso postulato della centralità della persona nel nuovo welfare comporta inesorabilmente una maggiore libertà di scelta e la conseguente creazione, ove possibile, di regolati mercati competitivi dell’ offerta” (p. 19, cors. agg).

Altra cosa – e non vale esclusivamente per quel campo dei servizi alla persona, dove un ruolo peculiare è assegnato alla promozione delle relazioni primarie, a partire dalla famiglia – è la libertà di includere moti e risorse della soggettività nella produzione delle prestazioni: che significa, altrimenti, dire che il diritto alla salute riflette la centralità della persona, e il soddisfacimento di questo diritto non può avvenire “considerando i bisogni delle persone in modo anonimo, prescindendo dalle preferenze delle persone e dalla trama delle relazioni, come avveniva nel vecchio modello di welfare” (p. 8). Non indebolire la capacità dei singoli e delle reti di aiuto; valorizzare il lavoro di cura comunque svolto; elevare i tratti di continuità e flessibilità nei trattamenti; favorire i passaggi fra strutture, territorio, domicilio; governare e individualizzare i percorsi assistenziali: sono tutte esigenze che richiedono non minore, ma più ampia e adeguata, capacità di governance, disegno e regolazione dell’intero campo delle prestazioni di tutela e lo sviluppo di competenze cognitive, organizzative e operative oggi carenti a molti livelli.

Per questo la retorica della supplenza umanizzatrice attribuita come compito al terzo settore organizzato (pp. 6, 23) è ambivalente. Positiva se invita ad attingere ad un patrimonio civile spendibile in una politica innovatrice. Perversa se porta i soggetti – civili, sociali, solidali – a salutare con paradossale favore l’estendersi di bisogni e di domande di aiuto a loro rivolte, che conseguono in linea diretta all’incremento non regolato di incertezze e precarietà diffuse in una società più insicura .

Ciò chiarisce inoltre come l’elogio dell’economia e politica delle relazioni necessiterebbe sempre di un’avvertenza a premessa: le relazioni non sono un bene in sé, ma lo sono solo a condizione che producano “beni” (relazionali, appunto) anziché mali (dipendenza, irresponsabilità, corruzione, abbandono).

 

4. Il vitalismo bioetico.

I tratti brevemente accennati, che alludono all’inadeguatezza del vitalismo socioeconomico al fine di una protezione sociale efficace e generale, sono per molti versi scontati. Li vorrei tuttavia iscrivere in una cornice che fornisce loro senso e legittimazione in una direzione meno attesa. Mi riferisco a quelle che sono chiamate politiche integrate della vita (p. 11), ovvero, rovesciando una terminologia foucaultiana, biopolitica. Per biopolitica si intende la politica investita da problemi che, in relazione all’evoluzione della scienza e dei comportamenti sociali, impongono di regolare i problemi della vita con criteri “fondati sul riconoscimento della vita in tutte le sue forme”.

Sostenere che “la tutela della inviolabilità di ogni vita umana costituisce il primo limite alla autorità pubblica e allo stesso tempo il suo fine ultimo” (p. 7) sembra perfino ovvio. Più decisivo appare il rifiuto, che si fa derivare in linea retta dal principio, circa la impossibilità di assumere la scelta soggettiva come diritto esigibile (“diritto” al figlio sano o “diritto a morire”), in quanto: i) comporterebbe un sottomettersi al nuovo “mercato dei desideri”, che si costruisce intorno al corpo umano, ii), rimuoverebbe il compito di vagliare offerta e contenuti delle prestazioni (sanitarie e non solo) nel rispetto dei criteri del bene comune7.

 

5. Principi e realtà

Una contraddizione sembra emergere. Mentre in campo socioeconomico si pretende di accrescere e massimizzare l’autonomia e la libertà del soggetto singolo nei confronti di una dominanza pubblica di regolazione e prestazione, presentata come burocratica asimmetrica invasiva, e costantemente lo si richiama al dovere di una responsabilità autoassunta rispetto ad ogni pretesa di welfare eteronomo e provvidenzialista, in campo bioetico si avanza l’antitetica esigenza di sottomettere l’autonomia e la responsabilità del soggetto ad un qualche superiore criterio detto di bene comune, che la include e sovrasta, e di cui la politica legiferante è chiamata a farsi tramite e garanzia.

Intendiamoci, a scanso di equivoci: in questione non si può certo porre il principio che: “l’uomo non è in funzione dello Stato, ma questo in funzione dell’uomo … prima di ogni altra considerazione relativa ai costi, alle risorse, ai calcoli, alle convenienze” (p. 7). Ma affermare che il valore di ogni singola persona viene prima di ogni considerazione politica finanziaria è principio di grande importanza, che non si enuncia alla leggera, senza porre tutta l’attenzione che merita al registro assiologico in cui esso si colloca, e sul quale vengono fatte poggiare le basi delle scelte individuali e sociali. È lo stesso registro su cui, a ben vedere, riposa ogni connessione che si intenda sensatamente porre, per legare fra loro giustizia sociale e vita personale, mondi vitali e politiche di welfare, antropologia teorica e pratica sociale.

Non si può allora non rilevare come, muovendo dall’assunto di una antropologia teoricamente una ed unica (“un denominatore comune per l’intera umanità”, viene autorevolmente chiamata), si finisca tuttavia per sottomettere la varietà dei comportamenti sociali concreti ad apprezzamenti e attenzioni stranamente difformi, quando non decisamente divergenti.

Il trattamento di fine vita solleva controversie politiche e legislative di prim’ordine: inizio e fine sono considerati giustamente “momenti fondamentali della persona”. Diversamente vanno le cose per certe implicazioni vitali della crisi economica, dove ai suicidi e alle sofferenze da ristrutturazione aziendale e perdita del lavoro si aggiungono casi recenti (anche in Italia, anche ieri) di piccoli imprenditori o dirigenti, che si sono tolti la vita per sfuggire alla necessità di licenziare i loro dipendenti o chiudere le loro imprese. Qui prevale invece la tendenza minimalista a derubricare queste “fini di vita” a conseguenze spiacevoli, inevitabili, tutto sommato private della crisi (i 35 suicidi Telecom France furono banalizzati come “moda” da un incauto manager; ricordo posizioni analoghe ai tempi della grandi crisi torinese da cassa integrazione dei primi anni Ottanta, di cui trattò una nostra ricerca del momento (cfr. L’ombra del lavoro). Oppure subentra una retorica non meno corriva, volta a mostrare che “anche gli imprenditori hanno un cuore”, variante intra-crisi del vecchio schema “anche i ricchi piangono”. Sarebbe più rispettoso e coerente sostenere che alcuni degli atti prima menzionati andrebbero elevati allo stesso livello dove di solito si pongono grandi esempi di non violenza e di auto sacrificio”, altri invece additati a carico di quella “piramide del sacrificio” (Berger), imposta da chi si pretende immune da qualsiasi vincolo superiore anche auto attribuito, di responsabilità sociale e personale

Quando si afferma (anche nel Libro Bianco), con non poca enfasi, che la vita è degna di essere vissuta sempre, o al reciproco si sostiene che la vita è da vivere sempre, ma in modo degno, circoscrivere la portata di asserzioni siffatte entro un campo specifico, un trattamento definito, un servizio specialistico, una prestazione settoriale, finisce per apparire un atto di selezione in ultima istanza arbitrario, e non esente perfino da derive nichiliste.

Viene da chiedersi, in altri termini, se il valore attribuito alla vita sia sempre il medesimo, invariabile, certo, ultimativo; oppure se libertà e responsabilità non siano invocate con un certo tasso di camaleontica flessibilità, in relazione a differenti contesti e situazioni.

Delle connessioni tra comportamenti e decisioni, che hanno per comune orizzonte la tutela della vita, si dovrebbe invece pensare quello che una volta si affermava delle diverse libertà: esse stanno tutte insieme, la differenza nel modo di intenderle è data nel modo della loro connessione, modo che a sua volta non può sottrarsi ad una valutazione eticamente sensibile. Dove più aspetti del welfare sono situati al punto di intersezione fra una pluralità di scelte e problematiche etiche, la coerenza delle connessioni si impone, né è affatto certo che “una connessione vale l’altra”.

 

6. Quale benessere?

Concludo. Alla critica convenzionale del welfare state sembra oggi sfuggire che non è lo Stato ad essere sotto tensione (come opina ancora largamente il Libro bianco). ma piuttosto l’idea stessa di benessere.8

Se l’idea del benessere cambia, perdono di peso molte delle critiche presenti nel tradizionale discorso pubblico anti-welfare ed acquista per contro diversa rilevanza la domanda in che cosa consista il “ben-vivere” sociale.

La base valoriale tradizionale dei sistemi di welfare fu riposta nell’idea di universalizzare le relazioni nella comunità, facendo della vita buona, giusta e decente dei singoli cittadini la condizione e l’esito di una società buona giusta e decente. Peraltro il criterio della giustizia nel modello sociale della società attiva, fondata sulla responsabilità delle singole persone verso se stesse, risulta poco evidente, mentre la retorica insistita sulla autodeterminazione/autorealizzazione si espone anche a connessioni ambivalenti con sindromi narcisistiche9.

È propria del pensiero neoconservatore la duplice convinzione che a) la modernizzazione liberi “in massa” l’individualismo delle scelte e lasci all’individuo il giudizio di ultima istanza su ciò che è bene per sé, e che b) l’esistenza di comunità di legame volontariamente fondate (in primis la famiglia) mantenga il “calore” delle relazioni intersoggettive al riparo da poteri esterni invadenti e intrusivi, compresi quelli istituzionali che si muovono secondo i criteri formali della cittadinanza. (Verrebbe però da ironizzare sui tanti svalutatori delle istituzioni pubbliche, che non lo sono mai fino al punto di non essere, al tempo stesso, grandi estimatori del potere che ambiscono – in esse e per loro tramite – esercitare).

Gli individui sarebbero quindi, da una parte, emancipati dalla sudditanza a vincoli tradizionali, dall’altra liberi di scegliere e mantenere (e anche di scegliere se mantenere) i loro impegni di legame. Le due convinzioni stanno insieme finché si riesce ad additare con successo un comune avversario in quello Stato prepotente, che – forse per la sua sola esistenza – si “si fabbrica” i cittadini come individui solitari al servizio dell’ apparato pubblico.

Altro collante di rilievo di questa concordia discors è il fatto che la condivisione di valori venga attribuita alle “radici del nostro popolo”, sociologicamente collocate in una Italia profonda, lontana dalle elite metropolitane (mondialiste e apolidi verrebbe da aggiungere). Da qui la volontà auto attribuita di “trovarsi in sintonia con il senso comune del popolo, piuttosto che con il luogo comune di quelle che si definiscono elite”10. Manzoni ci ricorda la distinzione (illuministica?) fra senso comune e buon senso. Personalmente eviterei di impancarsi a difesa delle pretese elite, anziché porre la vera domanda: dove si trovi, cosa senta, come viva questo popolo “fatto di gente semplice e vitale e dai valori solidi e quieti”.

Spesso la difesa di questo popolo introvabile vien fatta in nome di un principio di sussidiarietà. Certo non è sussidiarietà sostituire un liberalismo autoritario con un comunitarismo intollerante; lo è invece costruire e abitare luoghi in cui si riconosca “la carne del sensibile, a cui tutti apparteniamo, e in cui reciprocamente ci apparteniamo” che rende comunicabile e partecipabile ogni nostra esperienza” (Merleau-Ponty). Se questa carne sociale “viene a male”, gli individui diventano inquilini di un mondo di estranei, senza empatia né reciprocità. E allora, per dirla con Szymborska: “Sui valichi tragici /il vento porta via i cappelli/e non c’è niente da fare/lo spettacolo ci diverte”11 Un mondo poco desiderabile anche come posto per viverci.

 

Note

1. E. Fano, S. Rodotà, G. Marramao, a cura di, Trasformazioni e crisi del Welfare State, De Donato, Bari, 1983

2.  Il testo ha avuto due interessanti collocazioni al di fuori delle sedi ufficiali, che indicano una qualche “opzione preferenziale”, pur da non enfatizzare. È apparso infatti come inserto speciale all’interno del giornale della Confindustria (13 settembre 2009) col titolo Libro bianco del Welfare e una presentazione redazionale dal titolo “Un nuovo equilibrio tra pubblico e privato” ed in allegato ai settimanali aderenti alla Federazione Italiana Settimanali Cattolici (FISC), pubblicato con il logo ufficiale del Ministero ed il titolo originale (mi rifaccio al numero della “Gazzetta d’Asti” del 6 novembre 2009. Le citazioni del Libro Bianco si riferiscono al documento pubblicato da “Il Sole/24 Ore”.

3.  “E’ ormai da tutti riconosciuto che le società più dinamiche sono quelle demograficamente più vitali “ (M. Sacconi, “La Stampa”, 26 gennaio 2009,p.6). “Non ci può essere sviluppo sociale ed economico in una società scettica circa il valore della vita” (Id., “Gazzetta d’Asti”, cit. p.4): concetto ribadito in una intervista al “Corriere della Sera”: “la stessa possibilità di costruire uno sviluppo sostenibile dopo la crisi non può prescindere dal riconoscimento del valore della vita. Non ci può essere vitalismo economico e sociale in una società scettica a tale riguardo”.

4.  Bobbio distingue nell’irrazionalismo una versione di origine fideistica ed una di origine vitalistica … “Vita vuol dire nascita, crescita, morte. Se tu parti da una concezione vitalistica non puoi naturalmente ammettere il progresso indefinito” Il senso del vitalismo introduce i concetti di decadenza e di nichilismo (Lezione al Centro Gobetti del 8 marzo 1985 recentemente ripubblicata “Micromega”, 2, 2010, pp. 216-217). Implicate non troppo indirettamente nel neo-vitalismo appaiono anche le categorie (politiche?) di amore e odio, di recente riproposte a qualificare il proprio e gli altrui partiti in una riedizione populistica della vecchia dicotomia amico-nemico. Diversa idea di vita traspare nel concetto di natalità che Hannah Arendt (Vita Activa) applica al processo politico, posto come equivalente alla condizione umana del metter al mondo i figli, allevarli e poi lasciarli andare; il che si potrebbe altrettanto bene e forse meglio definire generatività.

5.  Una misura di reddito di base garantito è sostanzialmente assente nel nostro sistema, benché proposta fin dai tempi della Commissione Onofri (1997) come istituto sostitutivo di molte forme di assistenza economica. Nel principio di anteporre la contrattazione (asimmetrica) alla legge (generale) rientra anche la preferenza a forme di risoluzione per via arbitrale del rapporto di lavoro. Interessante in sede comparativa che la Corte federale di Karlsruhe abbia giudicato il sussidio, introdotto col cd. pacchetto Hartz IV (che ingloba sia il sussidio di assistenza economica sia il sussidio alla disoccupazione) troppo basso, e perciò “incompatibile con l’articolo 1 della Costituzione che garantisce il diritto a un’esistenza dignitosa”. L’importo attuale è di 359 euro al mese per un adulto, le persone che ricevono il sussidio sono 6 milioni.

6.  In Italia, la spesa pubblica per assistenza continuativa a persone anziane è composta per il 49% dalle indennità di accompagnamento (percettori il 9,5% degli over 65), per il 28% dall’assistenza residenziale (ospiti di strutture residenziali il 3,0 degli over 65) e per meno di un quarto (23%) da servizi domiciliari (di cui usufruiscono il 4,9%). Alla spesa pubblica si deve tuttavia aggiungere il costo delle strutture a finanziamento interamente privato e il sempre più diffuso care arrangement consistente nell’impiego di badanti ( cui ricorre il 6,6% degli anziani: dati in Network Non Autosufficienza, L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia. Rapporto 2009, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2009)

7. Il rimando è ovviamente alla discussione legislativa in corso, sulla qualificazione del trattamento del paziente in stato vegetativo, la compatibilità con l’art.32 della Costituzione del cd. accanimento terapeutico, il concetto di beneficio apportato dal trattamento o sua inutilità e futilità, gli spazi per i diritti alla decisione da parte di famigliari, medici e, per quanto riguarda il paziente stesso, della sua volontà preventivamente dichiarata.

8.  Un segnale significativo al riguardo sono le critiche al Pil come indicatore massimo del benessere, basato sul reddito che le persone producono e spendono per i loro consumi, quali che essi siano e quali ne siano le conseguenze. Le proposte alternative (si vedano tra gli altri le conclusioni della Commissione Sarkozy www.stieglitz-sen-fitoussi.fr/en/index.htm.) includono fra gli indicatori la decenza e la protezione del lavoro, la qualità e i costi ambientali, la riduzione delle esternalità negative (ingorghi, inquinamenti, catastrofi artificialmente prodotte ), la disponibilità di servizi per generazioni noncentrali (bambini e anziani), la qualità delle attività escluse dal mercato e proprie della sfera domestica, incluse le relazioni ed i tempi di care (per una utile presentazione si v.il dossier Il Pil non fa la felicità, in “East” , 27, 2009 pp. 103-143 con scritti di D. Speroni, E. Giovannini, J. E. Stieglitz, R. Layard ).

9.  Mi limito a richiamare P. Ricoeur, Il giusto, SEI, Torino, 1991; A. Masullo, Filosofia morale, Editori Riuniti, Roma, 2005; M. Mancia, Narcisismo. Il presente deformato dallo specchio, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.

10.  Intervista a Sacconi, cit.

11.  W. Szymborska, La realtà esige, in La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, Milano, 2009, p. 513.