Uno sguardo socialista polanyano sulla crisi

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di Federico Repetto

Le parole “socialista” e “socialismo” sono inattuali ormai da un paio di decenni: “comunista” per lo meno si usa come insulto, “socialista” e “socialismo” invece semplicemente non si usano. Nonostante la loro storia tortuosa (ma non lo è di meno la storia del termine “liberalismo”), queste parole hanno un significato ben più ricco e coinvolgente del termine “sinistra”, sul quale invece si continua a discutere. Il riferimento qui è non solo all’eguaglianza, ma ancora di più all’interesse comune, al destino comune. Il socialismo (credo in tutte le sue molteplici accezioni) implica l’idea che l’interesse comune non sia semplicemente la somma o la media degli interessi individuali, ma l’interesse collettivo dell’intera società o perfino dell’intera umanità. E la democrazia, per il socialismo, è quel sistema politico che persegue effettivamente l’interesse comune: essa non può essere che democrazia sostanziale, per dirla con Stupendoman. Chiameremo socialdemocrazia, liberalsocialismo, o in altri modi simili, quel socialismo che accetta le procedure e i vincoli della democrazia liberale, senza assegnare in modo definitivo ad un solo partito la visione dell’interesse comune.

Il socialismo è forse un punto di vista metafisico, se si assume il punto di vista per cui “la società non esiste, esistono solo gli individui” (così insegnava la Thatcher, sulla base di Von Hayek; con ben altra finezza Kelsen e Schumpeter consideravano privo di senso il concetto roussoiano di volontà generale).

Eppure proprio la società globale, con la crisi economica, con l’esaurimento progressivo delle risorse del pianeta e con il cambiamento climatico, impone agli individui, più che in passato, un destino comune, a cui possono sottrarsi solo alcune élite (ma non si sa quante generazioni dei loro discendenti potranno farlo).

La “terza guerra mondiale a pezzi” in corso sembra nascere proprio dal tentativo delle grandi (e anche medie) potenze di accaparrarsi risorse strategiche, o posizioni strategiche, per meglio fronteggiare queste crisi. Come nei casi evocati da Stupendoman, anche in questo caso la democrazia è un rito odioso: i media mainstream ci assicurano che i nostri eserciti, o i nostri aerei, difendono o esportano la democrazia, o salvaguardano i più deboli dal totalitarismo terroristico, e i cittadini (o almeno i cittadini mainstream) evitano di chiedersi se le guerre riguardino le risorse indispensabili ai loro consumi e se ci sia davvero una differenza tra i profughi di guerra e i migranti per fame. Ma la logica del “rispediamo i migranti a casa loro” prepara quella del “abbiamo diritto al petrolio e alle materie prime perché noi siamo civili”, cioè, mutatis mutandis, la logica nazista dello “spazio vitale”.

Tuttavia la chiusura dei confini, o l’accaparramento manu militari delle risorse, mentre consolidano il potere delle élite forti e decisioniste, fanno solo provvisoriamente l’interesse dei singoli popoli che le hanno volute/accettate. Sia la crisi economica sia la crisi climatica necessitano di una governance globale, basata sulla trattativa, sul compromesso e sulla programmazione. Il senso di un’Europa socialdemocratica, con il suo straordinario mercato interno, starebbe proprio nella capacità di rilanciare i consumi e di contribuire in modo significativo ad un nuovo avvio della macchina economica mondiale. Ma il rilancio dovrebbe essere guidato dai poteri pubblici per quanto riguarda la qualità dei prodotti (cioè in termini di valori d’uso): è ormai chiaro che il modello di crescita neoliberista non è sostenibile per l’ambiente, tanto sociale (ineguaglianza, povertà, esclusione) quanto naturale. Questa prospettiva socialdemocratica purtroppo appare oggi utopistica non perché sia materialmente impossibile, ma perché richiederebbe una grande trasformazione culturale.

Questo, credo, è ciò che vede uno sguardo socialista. Ma non più propriamente marxista. È certo positivo che in qualche parte del mondo (purtroppo non in Italia) Marx sia tornato di moda. Molti analisti non marxisti hanno ammesso che egli aveva proposto un valido schema di spiegazione generale della crisi capitalistica a livello dei grandi aggregati, anche se non era in grado di spiegarne il livello microeconomico. Il suo limite maggiore, dal punto di vista di Karl Polanyi, non fu economico, ma storico-cuturale. Infatti Marx considerava l’economia liberista, al cui centro sta l’idea della concorrenza illimitata e non controllata, come un risultato necessario della crescita della borghesia. Le politiche di intervento statale, volute anche da conservatori come Beveridge e da liberali come Keynes (ma anche da Mussolini e da Hitler, e prima ancora da Bismarck ecc.) mostrano che l’economia liberista di concorrenza illimitata non è l’unica compatibile con il capitalismo, e che quello liberista (l’unico analizzato da Marx) è solo uno dei capitalismi possibili.

Partendo da questa prospettiva di socialismo polanyiano cercherò di riflettere sui libri presentati dalle recensioni di questo numero di “Nuvole”.

 

Streeck e Dardot-Laval

La recensione di Biasco a Streek e ai foucaultiani Dardot e Laval si intreccia con interessanti considerazioni dello stesso Biasco. Tutti e quattro gli autori insistono giustamente sul fatto che la restaurazione neoliberista è stata frutto anche di una grande offensiva culturale e non di una semplice risposta economica ai problemi posti dalla crisi precedente. E Polanyi, citato da Biasco, è sempre nell’aria. Per Polanyi il liberoscambismo radicale è una specie di malattia endemica della nostra cultura, che tende a ripresentarsi ciclicamente, e a produrre guasti nel tessuto sociale, con catastrofiche reazioni di rigetto. In questo senso il “tempo guadagnato” (Streek) dal capitalismo prima della crisi catastrofica procrastinata è anche tempo di accumulazione di miseria e di risentimento. Che, nell’analisi di Polanyi, sono il brodo di cultura dei movimenti totalitari.

Ma tornando a Biasco, è interessante la sua ricostruzione delle origini della riconquista liberista dell’opinione pubblica, fatta a partire dagli anni 80 sulla base dell’insoddisfazione reale dei ceti medi contro lo Stato e contro i sindacati e probabilmente avendo in mente la realtà italiana. Dice molto bene che all’inizio, ai tempi della “rivolta del bazar”, “guadagnano favore le narrazioni (anche se non proprio le politiche) neoliberiste dei mali della società”. Vengono in mente le prime manifestazioni contro le tasse degli anni ottanta, oltre al referendum sulla scala mobile, evocato da Biasco. Ma queste reazioni viscerali, per diventare cultura legittimata, hanno avuto bisogno della liberalizzazione delle tv commerciali in tutta Europa e, in maniera particolarmente brusca, in Italia. Le tv e gli altri media hanno prima di tutto amplificato e legittimato ciò che il ceto medio sentiva e hanno così precostituito un capitale culturale e politico che qualcuno avrebbe fatto fruttare. Il rapporto tra oligopoli mediatici privati e neoliberismo comincia a costituirsi allora, e la storia di Murdoch da questo punto di vista è ancora più significativa di quella di Berlusconi. Comunque la tv commerciale, più ancora del cinema, ha promosso la penetrazione dei prodotti culturali americani in Europa, e in particolare in Italia, ai tempi di Dynasty e di Dallas.

Merito di Biasco è quello di un’attenzione al particolare storico contingente e non deducibile dalla tendenza. Da questo punto di vista sa cogliere le incoerenze tra la cultura e la pratica della politica economica neoliberista. E alla fine arriva perfino a immaginare la prosecuzione della pratica neoliberista attraverso ulteriori compromessi, “persino senza che l’ideologia sia più dominantemente neoliberista”. Anche per questo non ritiene che il timore di Streek di un ulteriore svuotamento della democrazia sia fondato. Ma questo può essere vero per quanto riguarda l’occidente più ricco e meglio amministrato, in cui forse può bastare qualche aggiustamento in senso sociale e una certa ripresa produttiva con il conseguente “sgocciolamento” sui ceti bassi (vedi la ripresa Usa attuale) . Ma l’effetto totalitario già c’è stato dove il tessuto sociale ed economico è più fragile, e il Califfato ne è un caso fin troppo evidente, con un’agghiacciante ripetizione della storia narrata da Polanyi (le democrazie tollerano o usano i totalitarismi finché non sono coinvolte nei conflitti). Se l’occidente, almeno quello più ricco, può “sopportare ancora dell’altro capitalismo” (Crouch) e “guadagnar tempo” (Streek) non è detto che possano farlo gli anelli deboli della catena, né che lo stesso Occidente ricco possa sopportare più di tanto la guerra.

La rivoluzione culturale prospettata da Dardot e Laval, che cambi il nostro regime di valori e di consumi, rendendoli compatibili con quelli dei paesi arretrati e coll’ambiente, forse non è probabile, ma è indispensabile. Anche se Biasco ha ragione a dire che una politica di contrasto al neoliberismo deve passare dall’azione della Stato, e per questo ha bisogno anche di un’organizzazione partitica.

Comunque, anche in occidente, sul medio-lungo periodo la gestione della crisi economica e climatica (e dei conflitti internazionali collegati) si intreccerà necessariamente con il problema della gestione della democrazia. Come ha mostrato Marshall e come ha insegnato Dahrendorf, i diritti civili, politici e sociali si sono sviluppati tutti insieme (o come diceva Kautsky, la democrazia “borghese” non l’ha promossa la borghesia, ma il proletariato). Una democrazia plutocratica (e quella americana lo è già da tempo) non solo non è rappresentativa degli interessi popolari, ma non è nemmeno un vero stato democratico di diritto. Obama non ha tolto le leggi antiterroristiche del 2001, né Guantanamo, né la libertà di porto d’armi – lo stato americano non ha il monopolio weberiano della violenza legittima!- e alla fine non riesce nemmeno a frenare il ritorno alla discriminazione razziale. Penso anch’io, come è stato detto da alcuni che il senso della democrazia per noi socialisti siano i diritti sociali. Ma lo stato sociale liberaldemocratico è un tutt’uno, le cui parti si sostengono reciprocamente.

 

Piketty

Per Piketty, che dedica gran parte del suo libro alla storia economica, la condizione “normale” del capitalismo è sempre stata quella di una bassa crescita del Pil e di un alto rendimento del capitale – con l’eccezione del periodo 1915-1975.

Ma forse sarà bene distinguere tra il capitalismo a concorrenza incontrollata e illimitata come modo di produzione dominante, e le società in cui il modo di produzione capitalistico è semplicemente presente, insieme ad altri modi di produzione. Il secondo caso per molti secoli a partire dall’invenzione della moneta è stato la condizione normale delle società umane, compresa quella occidentale. Le narrazioni di Marx, di Weber e di Polanyi mi sembrano concordi sull’idea che, prima dell’Ottocento, il potere politico, la società e la cultura limitassero la penetrazione della modernizzazione-razionalizzazione capitalistica, impedendo alla dimensione mercantile-capitalistica di dominare la vita quotidiana. Per dirla con Polanyi, per quanto il libero scambio potesse essere penetrato nel tessuto sociale, tre merci restavano tutelate dallo Stato, o dalla comunità, ed escluse dalla concorrenza illimitata: la terra, il lavoro e il capitale-denaro (come oggetto di prestito). Lo specifico dell’individualismo liberista fu appunto quello di togliere queste tutele. La mercificazione senza controlli di queste tre risorse avrebbe distrutto ovunque i vecchi legami sociali e identitari, riducendo gli individui a puri soggetti isolati senza permettere a nuovi legami di formarsi, se interventi antiliberisti (la limitazione della giornata lavorativa, i prestiti agevolati ai contadini, l’istruzione popolare obbligatoria e gratuita, ecc.) non le avessero tutelate anche nei momenti di maggiore offensiva liberista.

La differenza tra Polanyi e Marx, come si diceva, è che il secondo vedeva nell’ideologia liberista il risultato essenziale dello sviluppo delle forze produttive capitalistiche moderne, mentre per il primo essa è una cultura specifica, in sé contingente, ma che di fatto si è sviluppata in modo particolare ad un certo momento della storia occidentale (naturalmente nella storiografia non dogmatica di Polanyi, come nella sociologia classica weberiana, la cultura è autonoma dall’economia).

Secondo Polanyi, la specifica razionalizzazione promossa dall’economia liberista porta a guasti enormi nel tessuto sociale, con reazioni profonde sia da parte degli strati sociali colpiti sia da parte delle identità culturali offese. Due guerre mondiali, lo sviluppo dei totalitarismi e la “guerra civile europea” sono il risultato dell’aggressione liberista alla società occidentale.

Dunque i trenta anni gloriosi 1945-1975 erano anormali anche perché la democrazia sociale aveva corretto il liberismo, la concorrenza non era più incontrollata e il modo di produzione capitalistico era inserito in una società culturalmente politicamente e culturalmente non-liberista.

La ripresa della cultura neoliberista, e con essa della concorrenza incontrollata, è stato forse un ritorno alla condizione “normale”, ma questa normalità prepara verosimilmente una nuova sindrome totalitaria.

Certo le risorse di coesione sociale (costituite dalle istituzioni di welfare, dai patrimoni privati dei ceti popolari, dalla cultura della collaborazione e della cooperazione), da bruciare in questo nuovo fuoco competitivo sono immense, data la crescita delle forze produttive e della società occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Ma la direzione del cammino non è cambiata. La novità semmai è che il neoliberalismo promuove attivamente la trasformazione dell’uomo in “imprenditore di se stesso” (Foucault) e trasforma tutti gli ambiti dell’amministrazione pubblica in imprese concorrenziali (secondo la magistrale ricostruzione di Dardot e Laval di cui parliamo in questo numero). E che la CE è dominata da questa logica, mentre gli stati sono espropriati della loro sovranità e ridotti alla logica d’impresa anche nei loro rapporti reciproci.

Tuttavia le istituzioni della governance neoliberale (il Fmi, la Banca Mondiale, le Banche d’America, d’Inghilterra, di Giappone e della CE, la stessa Commissione Europea), anche se sono responsabili della crisi presente, hanno forse ancora la capacità di “guadagnar tempo”, cioè di far sopravvivere il capitalismo. Come dice Biasco, “il carattere duttile della regolazione attuale può incorporare varianti che consentano una manutenzione della ‘macchina’ senza intaccare il principio pervasivo della regolazione competitiva, in altre parole la governance neoliberale”.

Non sono d’accordo però con Biasco quando ritiene che non sia necessario che peggiorino la qualità della democrazia in Occidente (e ovunque).

 

Crouch

Indubbiamente nel 2013, quando è uscito in inglese, il libro di Colin Crouch aveva un senso come proposta perché si poteva sperare che il corpaccio politico della socialdemocrazia europea avrebbe reagito alla crisi economica con un mutamento di politica e con una linea europea comune. E la proposta di attivare insieme alla politica istituzionale una sorta di nuova coalizione sociale, che correggesse molti vecchi errori di una politica e di un sindacato sclerotizzati, sembrava convincente. Ma che prospettive ci sono dopo l’estate 2015 e l’insensibilità evidente dei partiti socialdemocratici di fronte al destino della Grecia di Tsipras e a quello dei migranti?

In effetti il nodo che il libro non affronta è quello della soggettività politica dei partiti socialdemocratici. Crouch certo è genericamente consapevole che essi 1) sono inquinati dall’influenza dei poteri forti finanziari 2) sono condizionati (anche elettoralmente) dai media mainstream che in gran parte rispondono a quei poteri 3) sono poco creativi, sclerotici e culturalmente subalterni. Ma fino a che punto? E che chances aveva la proposta Crouch? Su ciò mancava un’analisi. Ma l’estate 2015 offre una rozza risposta. Certo, non ci si poteva aspettare una svolta di 180° gradi, ma almeno significative spaccature interne, accesi dibattiti nel Parlamento Europeo e in quelli nazionali, attacchi alla linea della Merkel, aperture a forze anti-liberiste (i sindacati, la Linke e i verdi, gli ecologisti francesi, SEL ecc.). Qualche risposta positiva è arrivata, ma dall’esterno dell’apparato socialdemocratico. Forse Podemos sta spostando a sinistra il PSE di Sanchez. Forse Corbyn e la base laburista sposteranno i parlamentari laburisti, in grande maggioranza anti-Corbyn. Ma la proposta Crouch oggi è davvero in salita.

 

Mazzucato

Credo di dover ricordare solo un punto in margine alle considerazioni della Mazzucato: lo Stato americano ha giocato un ruolo decisivo nella creazione di Internet e di tutto l’apparato di hardware e di software che ha trasformato il sistema produttivo alla fine del Novecento e ha rivoluzionato la produttività (insomma il neoliberismo non ha più l’innocenza del liberismo manchesteriano raccontato da Polanyi nella Grande trasformazione). Manuel Castells ha ricostruito questo intervento già alla fine degli anni novanta, e ha messo anche in rilievo come il decollo industriale dei paesi asiatici sia stato legato all’intervento dello stato sia nelle infrastrutture, sia nell’istruzione pubblica. Insomma, l’attuale capitalismo neoliberista globale è integralmente figlio di quell’intervento dello stato, nel cui piatto sputa (o finge di sputare). Anche David Harvey ha mostrato in modo convincente il legame a fil doppio tra il neoliberismo e lo Stato. Sono i media semmai che lo rimuovono.

 

Muirhead

Mi sembra che la posizione di Muirhead sia molto vicina alla filosofia politica di Habermas. Per quest’ultimo il senso dei partiti è quello di proporre una visione della società (e delle sue trasformazioni future) che ha pretese di universalità, e di argomentare queste pretese nel dibattito pubblico. In questo modo la volontà generale cessa di essere un concetto metafisico (come lo chiamava Kelsen) e diventa il risultato in divenire di discussioni e negoziazioni. Nella società neoliberista invece è la stessa nozione di bene comune che è messa in dubbio – e ne è un sintomo la frase citata di Reagan sul fatto che lo stato sia solo un problema (come la citata frase della Thatcher per cui la società non esiste). E questo modo di pensare comporta appunto la fine delle ideologie e la riduzione tendenziale di ogni forma di partisanship a low partisanship, alla conquista cioè delle postazioni in cui semplicemente si decide. Questa fine delle ideologie e della partisanship ideale era già nel dna (è il caso di dirlo) del PD alla sua nascita, visto che lo statuto permetteva le primarie aperte non solo per i candidati a cariche pubbliche, ma anche per la carica interna più importante, quella di segretario. Non c’è da meravigliarsi poi se Renzi ha tenuto convegni politici (tutte le Leopolde) e fatto intere campagne elettorali senza usare personalmente i simboli di partito: per lui il cittadino sceglie direttamente il decisore, senza altre mediazioni importanti. I partiti per lui sembrano essere nulla di più del team dei meccanici ai box della corsa.