Oltre cortina, vent’anni dopo – Giuseppe Rutto

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Oltre cortina, vent’anni dopo

di Giuseppe Rutto

 

Marzo-Aprile 2009. I più importanti giornali europei e americani titolano allarmati: L’Est europeo sull’orlo del baratro. Berlino e Vienna pronte al soccorso; La Banca mondiale è preoccupata: l’UE rischia una nuova divisione; Allarme rosso per l’Europa centro orientale: si apre un nuovo fronte nella grave crisi mondiale. Sono ancora i giornali a registrare all’Est un crollo generalizzato degli ordinativi alle industrie e una consistente svalutazione delle diverse valute nazionali. Forti timori, inoltre, per i sistemi bancari locali, controllati in maggioranza da global players occidentali. Pare salvarsi solo la Slovacchia, entrata da poco a far parte dell’area dell’Euro. Robert Zoellink, presidente della Banca Mondiale chiede all’Unione Europea di attivarsi immediatamente. La Germania si dice pronta ad intervenire e l’Austria si fa promotrice di un’azione d’aiuto alla crisi finanziaria dell’Est europeo: non c’è da stupirsi o da chiedersi il perché di tanta sollecitudine: l’Austria riversa l’ottanta per cento delle sue capacità di investimento in Europa orientale, e poco meno fa la Germania. L’Europa pare tornare a disgregarsi e si prefigurano problemi difficili a risolversi. Ancora nel marzo del 2009 Tusk, premier polacco, propone un summit separato a margine dell’imminente vertice europeo; Klaus, presidente euroscettico della Repubblica céca spiega all’Europarlamento che l’Europa non gli piace e che per certi aspetti essa gli ricorda l’URSS. Il crollo degli ordinativi alla pur modernissima industria manifatturiera delle giovani democrazie diventa una sorta di leit motiv dei loro governi, che pure si compiacciono di aver trasformato le vecchie realtà, economicamente obsolete, dell’ultimo comunismo in nuove economie iperproduttive e tecnologicamente molto avanzate, nella Repubblica céca e Slovacchia, in particolare. I profitti sono in discesa vertiginosa, le banche, controllate da quelle occidentali, non hanno più di che investire e gli indici delle borse locali sono ovunque in caduta libera.

La Polonia è un caso emblematico: il paese che, con l’esperienza di Solidarnosc, negli anni ’80 aveva aperto la via ad un processo di democratizzazione, divenuta a partire dalla seconda metà degli anni ’90 una tigre economica dell’est europeo con una valuta fortissima, vede in questo ultimo anno e mezzo crollare il PIL dopo un lunghissimo periodo di sviluppo a tassi cinesi. Lo zloty, la moneta nazionale, perde il 25% del suo valore. Thatcheriana la risposta del governo: fortissimi tagli alla spesa sociale e rifiuto di pacchetti a sostegno della pessima congiuntura.

La Repubblica céca è tornata ad essere una prepotente realtà industriale europea. Non ai livelli strepitosi della “prima repubblica” di Masaryk, quando, se ci riferiamo ai dati della primavera del 1939, data dell’invasione delle truppe del Terzo Reich, la Cecoslovacchia era al settimo posto al mondo per prodotto interno lordo, ma certo in rimonta stupefacente rispetto al quarantatreesimo posto in cui si collocava il paese alla fine del 1989. La Skoda, in mano alla Volkswagen, e un’industria elettronica avanzatissima, sia pure a forte partecipazione tedesca (ma anche francese e asiatica), hanno visto nel giro di breve tempo esaurirsi gli ordinativi. Il sistema bancario regge, ma si paventa una recessione attorno al 5% e il pericolo di disinvestimenti da parte occidentale.

Più felice la situazione in Slovacchia, che vede anch’essa uno sviluppo esponenziale di produzione ad altissimo contenuto tecnologico (quanto lontani i tempi di Mecar, primo presidente nel ’93 della Repubblica slovacca uscita dalla separazione con la Boemia e Moravia, che prefigurava uno sviluppo industriale del paese fondato sulla produzione di carri armati a basso costo da vendere a realtà emergenti del mondo a forte vocazione bellica), con un PIL in crescita nel 2008 del 7,4% e che quest’anno, nonostante la crisi internazionale, si attesterà comunque attorno a un positivo 2,5-3%. Questo permetterà al premier socialdemocratico Robert Fico di continuare una politica di sviluppo delle infrastrutture e di rafforzare il welfare in aiuto alle fasce ancora emarginate della società.

L’Ungheria è la realtà malata dell’oriente europeo. Sull’orlo della bancarotta finanziaria per cause di iperindebitamento con l’estero, ha dovuto essere aiutata, o meglio, salvata con un ammontare di aiuti di circa 20 miliardi di Euro concessi dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca europea e dalla Banca mondiale. Il PIL e la moneta continuano a scendere con drammatiche conseguenze sociali interne ed emergono prepotentemente nuove realtà politiche e partitiche ultraconservatrici di una destra antieuropeista, xenofoba e razzista.

Diverso il caso della Romania che, dopo anni di intenso sviluppo legato a delocalizzazioni industriali dell’Occidente, favorite, dopo l’‘89, da una politica di feroce controllo salariale sia da parte dei primi governi comunisti-riformatori che, più tardi, dei governi della destra nazionalista, e da consistentissime rimesse da parte degli emigrati (si vedano in proposito gli studi recenti di Matei Cazacu ), vive oggi con estrema apprensione l’inizio di disinvestimenti da parte occidentale, dovendo contemporaneamente affrontare la svalutazione del Lei, la moneta ufficiale, di circa il 20%. Una vita politica caratterizzata da consistenti fenomeni di corruzione e una Borsa che vive endemicamente di speculazioni inducono la Banca nazionale romena a dare per certo un fortissimo calo del trend di crescita del PIL.

Senza accorgersene si è tornati a parlare di un’Europa occidentale e di una Europa orientale, come se la crisi economica mondiale, e segnatamente europea, volesse ridisegnare una sorta di nuovo muro tra est ed ovest, che gli avvenimenti di Berlino della fine dell’89 parevano aver cancellato per sempre. Un nuovo muro, una possibilità che rischia di far tornare indietro l’Europa di vent’anni. A ovest i più ricchi, a est i più poveri. Certo, oggi anche l’occidente paga la recessione, la disoccupazione crescente, la stretta creditizia, ansie, paure, incertezze per il futuro. Ma molto probabilmente, come rilevava recentemente Sandro Viola in una serie di articoli di approfondimento apparsi su “Repubblica” sulla situazione economica nei paesi dell’Europa orientale, la crisi potrà rivelarsi ancora più devastante e in qualche paese (l’Ungheria per esempio) addirittura insostenibile.

Un sordo rancore e forti risentimenti si manifestano nelle società dei paesi ex satelliti dell’URSS dal 1° marzo del 2009, quando l’Unione Europea si è rifiutata di varare un piano articolato di aiuti per gli europei dell’Est. Disincanto, disillusione, frustrazione sono i sentimenti che essi provano per la prospettiva di una nuova cortina di ferro, anche se, questa volta, di carattere economico e non politico. L’Unione Europea diventa il capro espiatorio della nuova situazione: essa viene infatti percepita come responsabile della crisi, nonostante abbia investito notevoli risorse nelle economie dell’Est, in quanto sono state le economie dell’occidente europeo a trarne vantaggi estremamente consistenti. L’abbiamo già ricordato. Movimenti di estrema destra e ventate di esasperato populismo segnano in questi mesi la vita politica di quella parte d’Europa (Ungheria e Polonia, in particolare) intercettando paure, ansie, timori e un malcontento generalizzato. Bersagli preferiti di queste derive nazionalistiche e conservatrici sono non soltanto l’Europa, ma anche i governi riformatori, le banche e le grandi imprese multinazionali. La destra gioca sulla delusione legata al crollo delle speranze entusiastiche nate nelle popolazioni alla caduta del muro di Berlino e legate a una vita economicamente migliore, a una vita civile di stampo occidentale. Si radicalizzano sentimenti filoamericani (nel contempo antieuropei e russofobici) che in materia di sicurezza, per esempio, si traducono in richieste di ricevere garanzie di difesa da parte degli Stati Uniti, piuttosto che non da parte dell’Europa. Polonia e Repubblica céca avevano aderito in maniera entusiastica al progetto statunitense di uno scudo anti-missilistico da collocare sul proprio territorio.

Masse operaie sottopagate, rispetto ai livelli occidentali, e lavoratori del settore pubblico, che vedono ancor oggi i loro stipendi legati a quelli del vecchio regime comunista, sono le categorie più sensibili alle chimere nazional-populiste. E le classi medie che da pochi anni iniziano a emergere in quelle società vedono scemare le speranze di consolidare le loro nuove posizioni economiche e sociali; tutto questo nel momento in cui imprese e finanze occidentali lucrano e fanno grossi affari proprio nell’Est europeo.

Un mondo traversato da fenomeni di “nostalgia”, che non si traduce in nostalgie per il vecchio regime tout court, quanto piuttosto per quell’ampio sistema di garanzie sociali o, se vogliamo, di welfare, che il vecchio sistema comunista in quasi tutti i paesi era riuscito a costruire: diritto a un posto di lavoro, sanità pubblica e gratuita, diritto per i pensionati a forti facilitazioni – se non addirittura gratuità (ad esempio in Cecoslovacchia) – per abitazione, luce e riscaldamento.

L’ampiezza delle difficoltà economiche è dunque tale che la gente comune non è più interessata allo sviluppo di una società civile. D’altra parte interviene il “peso della storia”: nessuno tra i paesi dell’est europeo (a parte il caso della Cecoslovacchia) aveva vissuto esperienze di radicata vita civile prima dell’‘89. Ciò ci permette di comprendere i fenomeni di carattere nazionalistico che hanno segnato la vita delle nuove realtà post-comuniste. A quali valori aggrapparsi, in mancanza di tradizioni civili, se non a quelli del nazionalismo? Vale la pena citare la desolante constatazione, del 1994, di Vaclav Havel, intellettuale del dissenso céco, perseguitato dal regime e poi primo Presidente della Repubblica cecoslovacca dopo l’‘89: “Rancori, sospetti tra le diverse nazionalità, razzismo, manifestazioni di fascismo, demagogia plateale, intrighi, menzogne deliberate, bassa cucina politica, lotte sfrenate e senza pudori intorno a interessi puramente particolari, sete di potere e ambizioni per nulla dissimulate, fanatismo radicale… fenomeni di capitalismo mafioso, assenza generalizzata di tolleranza, di mutua comprensione, di buon gusto, di senso della misura e di riflessione”. Tutto ciò avrebbe avuto, secondo Havel, pericolose conseguenze per la vita politica e civile dei paesi dell’Est, aprendo a derive nazionalistiche o, peggio ancora, a conclusioni autoritarie.

L’innescarsi a partire dal 2001 di uno sviluppo impetuoso dell’economia è sembrato allontanare le pessimistiche previsioni di Havel, ma il ritorno recente a situazioni di forte crisi fa riemergere quelle paure e quelle realtà. La transizione democratica – che avrebbe dovuto fondarsi (secondo Dahrendorf) su tre elementi chiave: a) nuove istituzioni politiche legate a un forte stato di diritto, b) passaggio da un’economia pianificata a una di mercato, c) ricostruzione (o costruzione) di una società civile – non si è ancora tradotta in una “trasformazione”. L’ostacolo maggiore è stato rappresentato dall’impossibilità di un sincronismo tra questi elementi chiave, tra una violenta accelerazione del processo politico, civile e sociale e la lentezza del mutamento economico. L’eredità comunista ha continuato e, per certi versi, continua ancora a pesare. La vecchia nomenklatura ha tentato e spesso è riuscita a trasformare i suoi antichi privilegi politici in nuovi privilegi di carattere economico: d’altra parte occorre non dimenticare che in quelle società non esistevano ceti o, più semplicemente, non esisteva un management in grado di sostituire il vecchio. Il passaggio a un’economia di mercato, nell’est europeo, è avvenuto senza la presenza e l’azione di un ceto borghese. È stata la finanza occidentale a farsi carico di quei problemi.

La democrazia, dopo un periodo di dittatura spesso confusa con uno stato debole, è stata percepita e interpretata sostanzialmente come apertura a un modello di vita e di costume occidentale. Ma i problemi legati al nazionalismo sopra ricordati e, in realtà particolari, anche alla contrapposizione etnica, rallentano la strada all’affermarsi della democrazia. L’ex Yugoslavia illustra bene, pur nella sua tragicità, un caso di transizione verso la democrazia che sfocia in una guerra civile, dopo che lo stato federale ha dovuto far fronte a una crisi economica, istituzionale, di regime e di legittimità. Solo in Europa centrale il dissenso intellettuale ha vaccinato in qualche modo quelle realtà da rischi nazionalistici. Dove invece la transizione è stata gestita da comunisti “riformatori” – in Albania, Serbia, Romania, Bulgaria – la conservazione del potere è stata garantita da una rapida riconversione al nazionalismo. Tanto che Adam Michnik, forse il più autorevole esponente del dissenso polacco degli anni ’70 e ’80, ha azzardato la formula “ il nazionalismo, come stadio superiore del comunismo”, da legarsi a una vecchia formula in auge sia in Occidente che nell’Est europeo secondo la quale il comunismo avrebbe rappresentato una sorta di purgatorio per società civili in via di evoluzione!

Certo, la costruzione di una società civile legata a una economia di mercato rappresenta ancor oggi la difficoltà maggiore per le realtà est europee. L’eredità dell’esperienza comunista – in termini di egualitarismo, stato assistenziale, lavoro garantito – per molti è da considerare come diritto acquisito. Si sogna un avvenire come miscuglio di parlamentarismo all’inglese, un livello di vita tedesco e uno stato assistenziale perlomeno alla svedese. L’Occidente, che molto ha investito, non può essere asettico nei confronti dell’Est europeo: la sua sicurezza, anche economica, dipende dall’evoluzione civile di quei paesi. Il prezzo che essi devono pagare, la contropartita insomma, è una dipendenza economica che faticano a sopportare. L’avvenire della nuova Europa è ancora aperto. Ma questo avvenire, nel bene e nel male, è di tutti gli europei. Noi tutti facciamo parte di una sola Europa.

Giuseppe Rutto insegna Storia dello Stato Moderno e Europa orientale:i processi di trasformazione all’Università di Torino