Fiat: la democrazia finisce davanti ai cancelli? – Fabbrica di Nichi Torino

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Fiat: la democrazia finisce davanti ai cancelli?

dossier a cura della Fabbrica di Nichi di Torino

 

Premessa

Questo dossier sulla vicenda di Mirafiori è curato dalla fabbrica di nichi di Torino. Prima di entrare nel merito della questione riteniamo opportuno presentarci.

La fabbrica di nichi non è un comitato elettorale, né un partito. È un progetto di costruzione e condivisione di buona politica, nato da gruppi eterogenei di cittadini spinti dal desiderio di riprendere contatto con la “res publica” e coinvolgere altre persone in questo ritorno alla partecipazione.

In occasione delle elezioni regionali volontari di tutta la Puglia hanno dato vita a un processo di attivismo civico: idee, proposte, informazioni e contenuti si sono diffusi rapidamente per tutta la regione, attraverso il web e le azioni sul territorio. Il successo dell’esperimento ha fatto sì che, dopo la vittoria di Vendola in Puglia, cominciassero a nascere in tutta Italia e anche all’estero gruppi di discussione, di iniziativa sul territorio, di confronto via web. Si tratta di uno spazio partecipativo dal quale vengono lanciati progetti, azioni e riflessioni per la costruzione diffusa e plurale di una nuova sinistra. Una comunità che promuove e difende la buona politica e un insieme di esperienze e punti di vista, con il comune obiettivo di costruire un paese migliore.

Ogni fabbrica è autonoma e conduce analisi e iniziative su temi diversi. Il nome non deve trarre in inganno: il riferimento a Vendola è un richiamo all’origine delle fabbriche e il riconoscimento, nella sua proposta, di un’opportunità per la costruzione di una nuova sinistra, non un appellativo di possesso né un elemento di personalizzazione della politica.

La fabbrica di Torino (http://www.fabbricadinichi.it/torino/) opera attraverso appuntamenti di discussione (sia in plenaria che per gruppi tematici), iniziative sul territorio di dibattito pubblico, presenza nei mercati rionali. I temi affrontati nascono sia dalle domande che i partecipanti pongono nel corso delle riunioni o negli scambi che avvengono attraverso la mailing list, sia da problemi legati al territorio. La fabbrica ha infatti un doppio obiettivo: da un lato, vuole essere uno spazio di elaborazione diffusa di idee, di pratiche e di linguaggi, che costruiscano una nuova narrazione della politica, una “rivoluzione dell’immaginario”, che permetta di ricostruire, nella sinistra, delle chiavi di lettura della realtà forti e condivise. Dall’altro, ma in modo collegato, vuole ricostruire il radicamento della sinistra politica nei luoghi della vita quotidiana delle persone, la presenza nei contesti in cui si vive, si lavora, si studia, ci si incontra, si fa la spesa, si sperimentano difficoltà e ingiustizie.

La fabbrica di Torino, di fronte alla deriva autoritaria della FIAT, si è schierata al fianco dei lavoratori. Nell’imminenza del referendum di Mirafiori ha scelto di concentrare sul tema dell’accordo la prima assemblea del 2011, con l’obiettivo di creare uno spazio politico in cui si discuta della vicenda FIAT, avendo come punto di partenza la difesa dei diritti. Per affrontare questi temi la fabbrica di Torino ha coinvolto diversi interlocutori, provenienti dal mondo della ricerca, dalla realtà sindacale e dall’ambito giuridico e l’11 gennaio 2010, in vista del referendum, ha organizzato presso la Fabbrica delle E di Corso Trapani 95 a Torinoun’assemblea dal titolo “FIAT: La democrazia finisce davanti ai cancelli?”

Pubblichiamo in questa sede alcune relazioni presentate all’assemblea. Va tenuto conto che si tratta di interventi che hanno preceduto il referendum. Per completare il dossier, la fabbrica aggiunge i dati forniti da Termometro Politico sulle motivazioni del voto a Mirafiori.

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Introduzione

di Cecilia Navarra

Abbiamo deciso di dedicare questa assemblea al tema dell’accordo di Mirafiori e delle sue conseguenze essenzialmente per due motivi. In primo luogo perché riteniamo che questo accordo comporti un netto arretramento per i lavoratori dal punto di vista dei diritti e delle condizioni di lavoro. In secondo luogo perché osserviamo la quasi totale assenza della politica da questa vicenda: la netta presa di posizione al fianco dei lavoratori di Nichi Vendola si configura come un’eccezione nel panorama politico italiano.

Abbiamo dunque sentito la necessità di prendere posizione, dicendo che questo è un accordo sbagliato e potenzialmente foriero di conseguenze molto negative.

Al contrario di come è stata troppo stesso dipinta, non crediamo che questa sia una posizione “fondamentalista”. Riteniamo che avere una posizione improntata alla tutela della qualità del lavoro e delle regole democratiche dentro i luoghi di lavoro sia definibile come ragionevole, anche se ci poniamo nella prospettiva di uno sviluppo lungimirante della produzione e dell’economia.

Pensiamo che la sinistra su questa vicenda debba essere con la FIOM-CGIL contro questo accordo. Purtroppo pochissimi nel mondo politico hanno fatto questa scelta. Esiste un modo di concepire l’impresa che è diventato egemone, anche a sinistra: si tende a pensare che l’interesse dell’impresa coincida con l’interesse della collettività. Ma se l’impresa persegue un obiettivo lesivo dei diritti individuali? E se se fa delle scelte miopi sul piano dello sviluppo? E se persegue come obbiettivo primario la remunerazione degli azionisti a danno di nuovi investimenti, dell’innovazione, della ricerca, a danno, insomma, di una visione di lungo periodo? In questi casi l’impresa non fa gli interessi della collettività.

Ci sono quattro nodi che potremmo eufemisticamente definire problematici nella vicenda di Mirafiori.

Innanzitutto il merito dell’accordo, di cui balzano all’occhio il perseguimento dell’intensificazione dei ritmi di lavoro, l’aumento dello spazio di discrezionalità dell’impresa e un duro colpo alla rappresentanza dei lavoratori.

In secondo luogo, il metodo dell’accordo, ovvero il ricatto, specchio di un’impresa che è lasciata libera di agire fuori dalle regole condivise, che non sono regole vecchie e obsolete, come ci vogliono far credere, fortezze da abbandonare con l’avvento della globalizzazione, ma sono la base del vivere civile. Sono regole che hanno un ruolo fondamentale: quello di limitare l’incredibile asimmetria che esiste nelle imprese tra il proprietario, che può chiudere l’attività, cambiare o delocalizzare la produzione, e i lavoratori che non prendono quelle decisioni, ma ne subiscono le conseguenze. L’alternativa tra l’accettazione di una serie di condizioni e la chiusura dello stabilimento è l’espressione nuda e cruda di questa asimmetria. Di fonte a questo, la retorica di Marchionne è invece quella di “essere vittima del ricatto del sindacato”… Come è stato possibile arrivare a ciò?

In terzo luogo, le scelte dell’impresa. La FIAT sceglie di intensificare i ritmi di lavoro come strumento per affrontare la competizione internazionale. Questo avviene a fronte di una promessa di investimento poco chiara e soprattutto di fronte a una storia recente di scarso investimento in ricerca e sviluppo. La mia domanda è: cosa impone davvero la competizione internazionale? La produttività cresce con un incremento dei ritmi di lavoro o piuttosto con maggiori investimenti in ambiti strategici?

Da ultimo, vorrei tornare sulla politica. Ci saremo, credo, aspettati che fosse la politica a non permettere che l’impresa si liberasse delle regole. Se siamo arrivati a questo punto non è forse perché è mancato un intervento di chi può invece orientare le decisioni delle imprese? Quell’attività di orientamento non dovrebbe proprio permettere di vincolare le scelte dell’impresa all’interesse di tutti e alla tutela dei lavoratori?

Chiederei, quindi, ai relatori di discutere questi punti, illustrando i cambiamenti che avverranno in caso questo nuovo accordo fosse firmato. Su questo ho una domanda forse un po’ ingenua: la FIAT, per essere competitiva, ha davvero bisogno di questo? Quanto sono determinanti questi provvedimenti per l’aumento della produttività?

Insomma, quello di questa assemblea è uno spazio di politica che parte dal presupposto che i diritti dei lavoratori siano centrali e che siano anche il terreno per creare una società migliore, anche sotto il profilo economico.

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Quali prospettive per il lavoro?

di Giorgio Airaudo

Quello di Mirafiori non è un “accordo separato”, anche se apparentemente sembra esserlo perché ci sono state sigle sindacali che hanno firmato e altre no.

E’ stata la Fiat che ha inventato gli accordi separati; non esistevano fino a un certo punto nella tradizione sindacale di questo paese. Quando li ha inventati tali accordi avevano una caratteristica: ci si distingueva rispetto alla trattativa in corso, anche su materie importanti, quali l’orario di lavoro, piani industriali, ecc. C’era chi si accontentava di avere meno e chi puntava ad avere di più, chi aveva una posizione più moderata e chi aveva un’impostazione più radicale. Tuttavia, la differenza rispetto alla situazione attuale è che la trattativa c’era.

Nel caso attuale, fra i testi iniziali presentati dalla Fiat e le conclusioni le differenze sono irrilevanti, perché non solo è stato risposto no alle tante proposte che la Fiom ha presentato sia a Pomigliano che a Mirafiori, ma è stato risposto no anche a tutte le proposte presentate da tutte le parti che trattavano, comprese Fim, Uilm, Fismic. Molte sono le proposte fatte da queste ultime a Pomigliano, altre ne sono state fatte a Torino, anche se in numero minore, dato che la lezione di Pomigliano era stata appresa. La Fiat ha praticamente respinto tutto, perché questa era la sua strategia e a Pomigliano ha fatto le prove generali.

Marchionne ha accreditato una visione estrema dello scontro fra capitale e lavoro alla Fiat , descrivendo stabilimenti ingovernabili, lavoratori che bloccano la produzione, linee di montaggio in cui si sciopera continuamente. Non è stato molto originale, perché con queste immagini ha ripercorso la descrizione di una fabbrica ingovernabile che già era stata fatta per giustificare l’azione Fiat portata avanti negli anni ottanta per riprendere il controllo della fabbrica. Trent’anni dopo è stata riproposta una narrazione tendenziosa, con situazioni di conflitto immaginarie; si è parlato addirittura di terrorismo in fabbrica. Negli anni ottanta questo esisteva davvero, oggi è pura invenzione. Marchionne per portare avanti il suo progetto ha costruito uno scenario funzionale a un’operazione culturale di vasto respiro, rivolta non tanto all’opinione pubblica, bensì alla classe dirigente. Per costruire l’immagine di non governabilità ha scelto Pomigliano, nell’area campana, usando i luoghi comuni più frusti dell’armamentario antimeridionale: la divisione fra Nord e Sud, lo stereotipo del meridionale fannullone. Su questi luoghi comuni ha cercato di costruire consenso, insinuando l’idea che questi lavoratori meritassero una sorta di punizione, rimuovendo il fatto che lo stabilimento di Pomigliano ha una produzione limitata, è uno stabilimento giovane e ha il tasso di assenteismo più basso fra gli stabilimenti Fiat italiani. Lo stesso Marchionne infatti ha ricordato, quando è iniziata la trattativa a Torino, che a Pomigliano c’erano, sì, picchi di assenteismo, ma mediamente il tasso di assenteismo era intorno al 2,5%. A Torino invece il problema è strutturale, perché il tasso di assenteismo è mediamente intorno all’8%: come dire che gli operai di Torino sono peggiori di quelli di Napoli. Marchionne ha potuto fare l’operazione che ha fatto perché ha scelto un contesto, ha fatto le prove generali e poi ha usato l’esperienza napoletana come modello, spacciandola come una grande innovazione.

Quali sono gli effetti concreti dell’accordo Fiat? Vediamoli in ordine di importanza. Tra essi, quello che meno mi preoccupa, anche se importante, è l’agibilità della Fiom. A preoccupare sono piuttosto i temi che riguardano i lavoratori. Come ha ammesso lo stesso amministratore delegato, per l’auto il costo del lavoro pesa per l’8% sul prodotto finito: quindi molto poco. Lavorare su quell’8%, anche riducendolo del 20%, significa recuperare l’1,6% in termini di competitività, cioè pochissimo. Perché in realtà dal lavoro umano è stato preso tutto quello che si può prendere: non si può andare oltre nello sfruttamento. Si può invece recuperare sull’altro 92%. C’è un problema che riguarda il sistema-paese, c’è un problema che riguarda la tassazione, c’è un problema che riguarda i prodotti, c’è un problema di innovazione tecnologica, è necessario fare cospicui investimenti in innovazione. Quelli prospettati sono investimenti per un miliardo, che è davvero molto poco per una impresa automobilistica. In Europa le case che investono davvero fanno investimenti per 6-7 miliardi di euro. E’ in vista di questa prospettiva che qui si chiede ai lavoratori di tagliare 10 minuti di pausa e si contempla la possibilità di spostare la mensa a fine turno. La mensa a metà turno per persone che iniziano il turno alle 6 è stata la conquista di un diritto, ma è anche un tempo di recupero fisiologico. Per chi lavora in catena di montaggio (per altri lavori le condizioni cambiano) e fa operazioni che si ripetono ogni minuto, minuto e mezzo, nelle 7 ore e mezza di lavoro avere 40 minuti di riposo o averne 30 fa una grande differenza. 10 minuti in meno significa che aumenta la fatica, che le braccia e le gambe fanno male prima.

La Fiat ha adottato il sistema Ergo-UAS, che elimina i tempi morti per sfruttare al meglio il lavoro ed elimina i passi necessari per spostarsi a prendere i componenti da assemblare. Questo sistema, che promuove un’idea di efficienza basata sull’eliminazione degli spostamenti dei lavoratori, ha due facce: da un lato migliora la postura dei lavoratori, cioè permette posizioni più comode, dall’altro toglie quell’elemento di umanità che esiste quando un lavoratore, dovendo spostarsi per cercare un componente, può scambiare due parole con il vicino o anche solo tirare il fiato. Per inciso ricordiamo che mentre in altre fabbriche alla catena di montaggio ci sono lavoratori in piedi e lavoratori seduti, in Fiat si lavora solo in piedi e questo è dannoso, ad esempio perché accresce i problemi circolatori. Togliere la mensa a metà turno, che garantisce un po’ di riposo alle gambe, è un danno per la salute.

C’erano soluzioni alternative? La Fiom ha proposto le pause a scorrimento, che non sono gradite ai lavoratori perché eliminano la socialità, ma aumentano comunque l’efficienza, senza aumentare i rischi per la salute. Perché col sistema vigente nel giro di pochi anni ci si usura, ci si logora, ci si ammala, non di malattie gravi, ma di patologie come il tunnel carpale o l’ernia del disco; si atrofizzano i gomiti, si logorano le capsule delle spalle, si creano problemi circolatori. Sono problemi apparentemente minori che però cambiano la vita: ci sono operaie che non possono tenere in braccio il nipotino perché hanno dolori che non lo consentono.

A Mirafiori, dove l’età media è di 48 anni, gli operai con ridotte capacità lavorative sono 1500; a Melfi, dove la mensa è spostata a fine turno dalla nascita dello stabilimento, con un’età media 10 anni più bassa che a Torino, i lavoratori con ridotte capacità lavorative sono 2500. La mensa a fine turno incide sulla salute delle persone e quindi sulla collettività e diventa un problema e un costo sociale.

Nel nuovo contratto sono previste 120 ore di straordinario obbligatorio comandate, non rifiutabili, con una franchigia del 20%, cioè il 20% dei lavoratori, non si sa bene con quale criterio, verrà esentato; nel precedente contratto di categoria erano 40, quindi sono triplicate. Anche questo incide sulla vita delle persone. Ad esempio sulla gestione degli anziani: avere i sabati comandati significa problemi di gestione famigliare, significa ad esempio dover assumere una badante, che, dati i salari, si finirà per assumere in nero. Per i lavoratori divorziati può vuol dire problemi a vedere i figli il sabato. La Fiom ha proposto una diversa gestione degli straordinari, con elementi di autodeterminazione: che il lavoratore scelga fra monetizzare lo straordinario e scambiarlo con dei turni di riposo.

Le vicende di cui stiamo parlando non hanno un effetto immediato, ma inizieranno con le nuove società, a Pomigliano fra 6 mesi, a Mirafiori fra 12-18 mesi. Nel frattempo molti lavoratori saranno messi in cassa integrazione. I cambiamenti ovviamente andranno messi alla prova e quando ci saranno violazioni della legge si potrà intervenire. Qui la Fiat ha cercato di vincolare le organizzazioni sindacali agli obiettivi della governabilità e della corresponsabilità. Per quanto controverso, è un terreno di possibile discussione. A questo proposito, in Italia ci sono soluzioni alternative, sperimentate da decenni: clausole di raffreddamento, come il protocollo IRI siglato da Romano Prodi, in cui si stabilisce che prima di scioperare ci si incontri e si provi a risolvere il problema. Se poi dall’incontro si esce con un nulla di fatto o non si è soddisfatti delle soluzioni proposte, le parti sono libere. Altre soluzioni si possono trovare, ma la Fiat vuole imporre le sue. Ad esempio vuole a Mirafiori tre schemi di orario e non vuole negoziare quando intende cambiare orario e turni. Propone una procedura di consultazione, propone una discussione per 15 giorni su cosa è meglio, ma alla fine si riserva di decidere unilateralmente.

Tutte le clausole vengono inserite in contratti individuali che ogni lavoratore deve firmare e si impegna a rispettare. Nel caso di mancato rispetto, possono essere sanzionate sia le organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo sia i singoli lavoratori. Le organizzazioni sindacali sono sanzionabili se organizzano scioperi su temi oggetto dell’accordo, per esempio sulle 120 ore di straordinario o sulla turnistica. Come sono sanzionabili? Per esempio viene ridotto il monte ore sindacale per i delegati o vengono trattenute le quote sindacali. Anche i lavoratori sono passibili di provvedimenti disciplinari se fanno scioperi spontanei contro le clausole contenute nell’accordo. Dopo tre provvedimenti disciplinari scatta il licenziamento. Si noti che molti scioperi spontanei avvengono quando i lavoratori sono sottoposti a ritmi troppo elevati e si assentano perché non riescono più fisicamente a mantenere tali ritmi. La firma del contratto individuale di lavoro è innanzitutto un forte deterrente allo sciopero.

Infine, nell’accordo si dice che gli unici sindacati rappresentativi in fabbrica sono quelli che hanno firmato l’accordo e che i lavoratori della nuova società di Mirafiori non potranno più eleggere i loro rappresentanti sindacali. I rappresentanti sindacali dovranno essere inderogabilmente 15 per ogni organizzazione sindacale firmataria dell’accordo e saranno nominati direttamente dal sindacato. Si sottrae così ai lavoratori la possibilità di eleggere i propri rappresentanti. Fra l’altro, con questo sistema i sindacati confederali saranno in minoranza, dato che i sindacati firmatari sono 5 (Fim, Fismic, Uilm, Ugl e Associazione Capi e Quadri Fiat) e a ciascuno spettano 15 rappresentanti. I lavoratori potranno restare iscritti a qualsiasi sindacato ma non potranno avere rappresentanti in fabbrica se il sindacato a cui sono iscritti non è firmatario dell’accordo.

Diritti dei lavoratori a parte, cosa resterà da fare ai sindacalisti che resteranno in fabbrica? Quasi nulla, perché c’è un sistema stabilito di commissioni e di procedure, sulla metrica non si può intervenire, perché è fissata dall’accordo, quindi non ci si potrà occupare di tempi, ritmi, ecc. Insomma: chi firma è vincolato dalle procedure, chi non firma è fuori. Marchionne dice “potete scegliere”, ma impone un referendum in un paese in cui non vi sono norme regolano la questione. Peraltro qualsiasi referendum prevede che si possa scegliere fra due opzioni: dove questo è impossibile bisognerebbe parlare piuttosto di plebiscito. Se tu vivi del tuo reddito e hai bisogno di lavorare non hai scelta. Risiede in questa finzione il motivo per cui la Fiom non riconosce la legittimità di questo referendum.

Nei molti incontri avuti in questo periodo con membri della classe dirigente di questo paese, terrorizzati dalla prospettiva che la Fiat abbandoni il Paese, è emersa una generale speranza che fossero i lavoratori stessi di Mirafiori a risolvere il problema. A parte le imperscrutabili intenzioni di Marchionne, c’è da domandarsi le ragioni di tale pavida impotenza che accomuna industriali, ministri, politici di opposizione. Come è possibile che tutti dicano che non c’è modo di far ragionare questa impresa che ha una proprietà italiana. Ricordiamo che dietro Marchionne c’è un azionista e questo azionista dovrebbe essere chiamato alle sue responsabilità. Siamo colpiti dall’onnipotenza di Marchionne, dell’impresa e dell’azionista ma anche dall’impotenza di tutti i soggetti istituzionali e politici. E l’idea che i più deboli del gioco, i lavoratori, debbano risolvere i problemi dei potenti per dare ragione all’onnipotente sembra il rovesciamento della realtà. Sarkozy ha impegnato il suo governo per trattenere in Francia imprese che volevano delocalizzare. Qui il ministro del lavoro giustifica la delocalizzazione. Anche questo è un rovesciamento della realtà: ci si aspetterebbe che cercasse di mediare, che invitasse i sindacati alla moderazione ma nel contempo fosse pronta a invitare la Fiat a cedere su qualcosa, sottolineando che la Fiat sarà anche proiettata verso l’internazionalizzazione, ma che ha anche un radicamento secolare nella storia del paese.

Qualcuno affronta il tema dell’impotenza politica e istituzionale nei confronti delle grandi imprese? Noi vogliamo garantire l’investimento, ma loro ci garantiscono la salute? Possiamo trovare un punto di compromesso? E di questo non dovrebbe occuparsi proprio la politica? C’è un eccesso di peso sulle possibilità del sindacato. Il sindacato sulla vicenda Fiat si è diviso: da una parte c’è chi si arrende, e crede che, nella “logica del pendolo”, si potrà recuperare in tempi migliori, che ciò che è stato perso verrà restituito; dall’altra c’è chi, come la Fiom, ritiene che la logica del pendolo appartenga al passato, perché la crescita è finita e il rischio è di continuare a restituire ciò che si è conquistato nel passato. La logica del pendolo ha funzionato fino alla prima metà degli anni settanta, poi ha cominciato a declinare inesorabilmente. Nell’attesa che il padrone restituisca ciò che si è preso, si scopre che arriva il momento in cui o chiude la fabbrica o chiede ulteriori rinunce ai lavoratori. Ma perché i lavoratori dovrebbero accettare il ricatto e accollarsi nuovi sacrifici, mentre la classe dirigente latita o balbetta?

Io vedo due grossi problemi: un problema riguarda il merito di quell’accordo e un altro l’impotenza della politica. E questo ha a che fare anche con il dibattito che si fa nelle fabbriche di nichi. La soluzione passa attraverso la capacità di pensare che non si possono caricare di questa responsabilità i lavoratori, che si può vedere il mondo in modo diverso, che non si può accettare ciò che viene definito ineluttabile. Da altre parti, e non lontano, ma nel nostro continente, si fa altrimenti. Per questo è fondamentale che non si lascino soli quei lavoratori che dovranno decidere ed è per questo che noi ci siamo assunti la responsabilità di dir loro di partecipare, di non farsi togliere lo strumento del voto, anche in questa situazione di ricatto. Qualunque sia la decisione questo sindacato se ne assume la responsabilità. Quell’accordo non va bene, bisogna cambiarlo e noi ci proveremo.

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Il bluff della produttività

di Lia Fubini

La Fiat, si dice, è una multinazionale come un’altra e nell’era della globalizzazione ha tutto il diritto di investire dove ritiene più conveniente, alle condizioni che meglio crede. E se in Italia quelle condizioni non ci sono, ad esempio a causa della combattività della Fiom, ha tutto il diritto di andarsene. Questa è un’idea molto diffusa, che non tiene conto di un dato importante: in Italia la Fiat ha ottenuto a vario titolo contributi pubblici fra gli anni ottanta e i primi anni duemila stimati nell’ordine di 500 milioni di euro all’anno. Peraltro continua a rincorrere contributi statali, nonostante la retorica dell’impresa capace di reggersi sulle proprie gambe. Lo dimostrano anche gli investimenti che la Fiat ha fatto in altre parti del mondo, come in Polonia e in Serbia, sempre alla ricerca di aiuti di stato, senza i quali la Fiat non riesce a essere competitiva. E in Italia ancora oggi continua a beneficiare dei fondi pubblici per la cassa integrazione. Ma la gestione aziendale è stata, a dir poco, carente. La Fiat non è competitiva sul mercato europeo, la produttività è bassa ma non per colpa dei lavoratori. Ricordiamo, a questo proposito, che la produttività nel settore auto viene normalmente calcolata in termini di auto prodotte per lavoratore. Se uno stabilimento produce poche auto la causa viene attribuita ai lavoratori “fannulloni e assenteisti”, a ritmi di lavoro troppo blandi, a pause troppo lunghe. Ma la realtà è ben diversa. Nel settore auto la produttività in larghissima misura è data dalla tecnologia, dai macchinari, dall’organizzazione del lavoro, dal grado di utilizzo della capacità produttiva, dalle economie di scala. La Fiat non sa stare al passo a livello tecnologico con le altre imprese del settore, a differenza delle altre case automobilistiche negli ultimi due anni non ha lanciato nuovi modelli, le sue vendite in Europa sono in calo. Negli stabilimenti italiani la capacità produttiva è utilizzata al di sotto della soglia di redditività, di conseguenza i suoi costi fissi sono troppo elevati. Ma se non riesce ad aumentare le vendite, non può certamente accrescere la produzione. Per questo è poco competitiva.

La Fiat presenta senza dubbio molti punti di debolezza: in Europa ha una bassa quota di mercato, del 6,7%, e continua a perdere terreno. La situazione delle vendite è critica anche in Italia, dove ormai copre meno del 30% del mercato dell’auto. L’unico punto di forza per la Fiat sembra essere il Brasile col suo enorme mercato in espansione. È a quel mercato che la Fiat punta, ma anche lì la posizione dominante della Fiat è insidiata da Volkswagen.

Premesso dunque che i punti di debolezza della Fiat nulla hanno a che vedere con il lavoro, c’è da domandarsi quale sia la logica di questo accordo volto unicamente a intensificare lo sfruttamento del lavoro che non farà di certo aumentare la redditività della Fiat in Europa. Ricordiamo che il costo del lavoro ha un’incidenza molto bassa sul costo totale, circa il 7-8%. Quindi un aumento dei ritmi, un accorciamento delle pause, la compressione dei diritti, l’aumento delle ore di straordinario obbligatorio può incidere ben poco sui costi totali. Il vero problema della Fiat è la domanda.

Peraltro è dubbio che l’accordo di Mirafiori comporti un aumento della produttività del lavoro. Infatti, quando (o meglio, se) il sistema proposto nell’accordo andrà a regime, l’aumento della fatica produrrà costi in termini di salute per i lavoratori, che si tradurranno necessariamente in una crescita delle assenze per malattia. Ma questo è stato già messo in conto. Per evitare in futuro la presenza di lavoratori che hanno contratto malattie professionali e che non sono quindi in piena efficienza fisica, nel testo dell’accordo c’è una clausola che prevede nuove assunzioni solo con contratti precari. Ciò comporterà un costo aggiuntivo per l’impresa, il costo del turn-over, ma in compenso la Fiat potrà garantirsi in futuro manodopera efficiente e sottomessa per evitare il mancato rinnovo dei contratti.

Ci sono poi altri aspetti dell’accordo che rischiano di far diminuire la produttività del lavoro. Quanto più la direzione è repressiva rispetto al lavoratore, tanto minore è l’identificazione del lavoratore con l’impresa. Si riducono così tutte quelle microinnovazioni che si realizzano sul posto di lavoro, viene meno la collaborazione dei lavoratori con l’impresa. Allora quel poco di produttività che aumenta con la compressione dei ritmi di lavoro si perde con la mancanza di cooperazione dei lavoratori. E siamo poi certi che aumenti la produttività aumentando i ritmi e il tempo di lavoro, spostando la mensa a fine turno e riducendo le pause? C’è da dubitarne. Un aumento dei ritmi produce più incidenti, più stress, più distrazione del lavoratore e tutto ciò incide sulla qualità del prodotto. E lo stesso dicasi per gli straordinari. E’ curioso che l’utilizzo degli straordinari sia indicato come mezzo per rilanciare la produttività, quando è dimostrato che la produttività e la qualità del lavoro diminuiscono con il passare delle ore, per cui le ore straordinarie risultano essere quelle a minore produttività.

I veri problemi della Fiat non sono il costo e la rigidità del lavoro, ma sono i costi fissi e l’incapacità di posizionarsi sul mercato con prodotti innovativi.

E questo vale per la Fiat come per la gran parte delle imprese italiane che puntano sulla riduzione dei costi non essendo in grado di competere sulla tecnologia e sulla qualità dei prodotti. Questa è una strategia perdente, perché nei paesi emergenti i costi variabili sono comunque più bassi. Produrre auto in Europa è possibile, lo dimostra la Volkswagen che in Germania aumenta da anni produzione e occupazione e paga ai lavoratori salari che sono circa il doppio dei nostri. Ma è necessario un grosso impegno in innovazione e investimenti verso produzioni di qualità sostenibili dal punto di vista ambientale. Le politiche di Fiat nei campi dell’innovazione e della ricerca sono inadeguate e l’idea che le scarse performance vadano attribuite alle colpe dei lavoratori è scorretta, intellettualmente disonesta, tipica di un management incapace.

Passando più nello specifico ai contenuti dell’accordo, o meglio del diktat, sottoposto a referendum, il vero scandalo non è di per sé la proposta di un aumento degli straordinari e dei ritmi di lavoro. Questo può succedere in tempi di crisi anche se logica vorrebbe che in tempi di crisi si favorissero nuove assunzioni, anziché puntare sugli straordinari. In tempo di crisi sindacati e lavoratori sono più deboli e l’impresa nei processi di contrattazione può avere la meglio. Ma l’accordo Fiat è stato un vero e proprio ricatto che sottintende il concetto secondo cui i diritti sono oggetto di scambio col posto di lavoro, che nega ai lavoratori anche il diritto alla negoziazione, che implica l’idea secondo cui il lavoro è nient’altro che una merce.

Da questa constatazione emerge una riflessione che riguarda i ruoli che vengono giocati in questa vicenda, quello della politica in particolare.

Marchionne fa il padrone. Fiat è azienda italiana quando ci sono da prendere sussidi, aiuti (nazionali e locali) e ammortizzatori sociali, è multinazionale quando c’è da ricattare i lavoratori. Investe poco in ricerca, ma investe molto sullo stipendio di Marchionne; non lancia nuovi modelli, a differenza dei concorrenti, non è capace di fare piani industriali affidabili. Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che nel 2006 aveva promesso 300.000 Alfaromeo entro il 2010; ne ha realizzate 50.000.

Però Marchionne è il padrone, e non si può pretendere che il padrone stia dalla parte giusta e neppure che sia lungimirante. Raramente abbiamo visto padroni dalla parte giusta in Italia.

Ma la politica dov’è? La politica ha abbandonato i lavoratori e sulle loro spalle è stato posto il peso di una decisione che coinvolge problemi che vanno ben al di là delle loro condizioni, che chiama in causa tematiche, quali la permanenza della Fiat e quindi dell’industria automobilistica in Italia , a cui si legano le sorti dell’indotto e la tenuta del sistema di relazioni industriali.

Se parte dell’accordo viola la legge, si aprirà un contenzioso legale. Ma in termini di condizioni di lavoro non si può fare nulla o quasi contro il ricatto “o si accetta in blocco o si chiude la fabbrica”, perché certi diritti non sono regolati per legge. Dalla politica – almeno del centrosinistra – ci si aspetterebbe prima di tutto un impegno forte a mettere le condizioni minime di lavoro al centro di una proposta di legge urgente. Vogliamo affermare con legge che chi fa lavorare un operaio più di 8 ore consecutive in catena di montaggio commette un reato? O tutto è sempre contrattabile? Vogliamo dare maggiori strumenti legali alle aziende fornitrici per aiutarle a veder pagate le loro commesse? O dobbiamo assistere inerti al soffocamento delle imprese dell’indotto, che vengono pagate dalla Fiat con ritardi spaventosi? Vale la pena di ricordare che i ritardati pagamenti alle imprese dell’indotto sono per la Fiat una fonte di finanziamento a basso costo.

E ancora sulla politica, e in questo caso sul Pd. Ma come possiamo stupirci che Marchionne pretenda 120 ore di straordinario obbligatorio (magari a fine turno con aumento dei rischi sul lavoro e diminuzione della produttività) se è stato il Pd, con il ministro di allora, Damiano, a proporre l’abolizione della contribuzione aggiuntiva sugli straordinari, incentivando pratiche del genere?

Per quanto riguarda il governo attuale, il diktat di Marchionne arriva invece come il cacio sui maccheroni, rappresenta un tassello verso lo smantellamento dello statuto dei lavoratori tanto auspicato dai nostri governanti fin dal Libro bianco sul mercato del lavoro, che ha costituito la base della legge 30 del 2003. I termini della proposta Fiat si inseriscono in un clima generale che dà per scontata la necessità di derogare alle regole sancite dal diritto del lavoro per salvaguardare l’occupazione. Non deve stupire che le imprese oggi offrano condizioni di lavoro peggiorative rispetto ai diritti acquisiti. Si sentono legittimate a farlo grazie al clima culturale, all’ideologia neoliberista dominante e alla complicità del governo.

Con la legge 30/2003 sono stati introdotti tutti i possibili strumenti di flessibilità. Realizzata la massima flessibilità del lavoro si punta a toccare il diritto di sciopero, ad allungare la giornata lavorativa attraverso gli straordinari, a intensificare i ritmi, a penalizzare l’assenza per malattia, a limitare il diritto al riposo. Tutto questo sotto lo sguardo benevolo del governo e purtroppo con il benestare di gran parte dell’opposizione. In Germania tutto ciò sarebbe impensabile anche per l’attuale governo centrista.

Qualunque governo, di destra o di sinistra, con un minimo di rispettabilità e di attenzione al bene collettivo avrebbe aperto un tavolo di trattative, avrebbe cercato una qualche forma di mediazione. Invece questo governo si è schierato immediatamente dalla parte padronale usando i diktat di Marchionne a Pomigliano prima e a Mirafiori poi per attaccare i diritti dei lavoratori.

È anche vero che se è emersa la proposta Fiat ciò è dovuto allo smembramento della classe operaia; non perché gli operai siano pochi – sono ancora una quota importante della forza lavoro – ma perché sono frammentati e divisi, sia all’interno del paese che a livello internazionale. Una frammentazione dovuta alla crescente deregolamentazione del lavoro, al sopravvento del cosiddetto modello neoliberista, all’enfasi sulla competizione che ha sovrastato l’idea di solidarietà.

Ma le politiche industriali di questo Paese dove sono? Le politiche di ricerca e innovazione chi le fa? Maggioranza e opposizione su questi temi non hanno nemmeno mezza idea da gettare nel dibattito. In questo contesto possiamo forse aspettarci un atteggiamento responsabile dalla Fiat?

Peraltro, considerato l’eccesso di capacità produttiva nel mercato dell’auto in Europa, sarebbe auspicabile la ridefinizione di politiche a livello europeo, per evitare guerre fratricide che puntano sulla diminuzione del costo del lavoro. Sarebbe necessario coinvolgere la Commissione europea, l’Europa dovrebbe assumere il ruolo guida necessario al processo di ristrutturazione, come è stato fatto dal 1994 al 2001 per il settore aerospaziale.

Infine, ancora una questione sulla politica, questa volta locale. La Fiat per investire avrà bisogno di infrastrutture nell’area di Mirafiori. E allora il sindaco può aprire un tavolo subordinando investimenti e servizi a un atteggiamento più aperto di Fiat nei confronti di sindacati e lavoratori.

E’ quasi surreale che la politica – anche da sinistra – non abbia nemmeno tentato di intervenire e poi si produca oggi, quando la spada di Damocle pende unicamente sulla testa degli operai, in uno squallido balletto “io voterei sì” “io voterei no”.

Tra diritti mercificati e rappresentanza negata, qui non è in discussione solo il tema del lavoro, ma il tema più ampio di quale società vogliamo costruire. Una società che ruota intorno a un consumismo sempre più sfrenato, in cui si vuole produrre senza rispetto per i diritti, con turni massacranti, in cui i concetti di riposo, sicurezza e rappresentanza sociale siano banditi? Di questa società l’accordo Fiat è solo la punta avanzata applicata a un settore specifico.

Ma se la politica, se gli altri sindacati, se la cittadinanza di fronte a tutto ciò è inerte, cosa può fare la Fiom?

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Uno strappo alla legalità

di Enzo Martino

Non intendo parlare del merito dell’accordo, se di accordo si può parlare, perché non c’è stata trattativa e, aggiungo, non ci sono contropartite, non c’è l’assunzione di alcun impegno da parte dell’azienda, ma ci sono solo gravi lesioni dei diritti dei lavoratori alle quali corrisponde mano libera per l’azienda.

Intendo affermare, in un’ottica di giuslavorista, che nell’accordo ci sono indiscutibilmente delle disposizioni che peggiorano in maniera drastica i diritti dei lavoratori garantiti dalla contrattazione collettiva nazionale di lavoro; ma che ci sono anche altre disposizioni che sono addirittura illegittime, perché in contrasto con disposizioni inderogabili di legge e quindi, a prescindere dalla volontà dei firmatari, non potranno a mio giudizio trovare applicazione.

Di ciò si è già discusso a proposito dell’accordo di giugno di Pomigliano. Si prendano ad esempio le disposizioni sulla malattia; anche se su questo aspetto noi giuristi siamo divisi. C’è chi sostiene che, disponendo della quota contrattuale di malattia a carico del datore di lavoro, queste disposizioni, pur costituendo un indubbio peggioramento, non sono illegittime. Io sono dell’opinione contraria, perché non credo che sia conforme al nostro ordinamento una disposizione che impone una responsabilità collettiva a carico dei malati veri in relazione al verificarsi di eventi che non dipendono dalla loro volontà.

Certamente illegittima è invece la cosiddetta “clausola di responsabilità”, se interpretata, come credo sia nella volontà delle parti contraenti, come limitativa del diritto di sciopero. Sappiamo che il diritto di sciopero, garantito e tutelato dall’art. 40 della Costituzione, è un diritto individuale, sia pure a esercizio collettivo, e non c’è accordo che possa privare i lavoratori di questo diritto.

Queste dunque sono disposizioni illegittime, che non reggeranno al vaglio di eventuali contenziosi, sono norme più politiche che giuridicamente vincolanti.

Le disposizioni peggiorative rispetto a quelle previste dalla contrattazione collettiva nazionale – di cui altri hanno già parlato – sono invece quelle riguardanti i turni, le pause, la pausa mensa, lo straordinario, l’abolizione di alcune voci retributive, e così via.

Più che sul merito, intendo soffermarmi sul metodo con il quale Fiat tenta di blindare l’accordo, cioè di garantirne una piena tenuta dal punto di vista della vincolatività.

I contorni dell’operazione sono più chiari che non nell’accordo di Pomigliano. Quello che ne esce è un modello veramente devastante per il sistema di relazioni industriali di questo paese, come si è formato dal dopoguerra a oggi. Se non si coglie questo punto non si capisce nulla di quello che sta capitando in questo momento. Il diritto del lavoro, il rapporto fra i contratti di diverso livello, il ruolo del contratto nazionale dopo Pomigliano e dopo Mirafiori non saranno più la stessa cosa. Se non si ha consapevolezza di questo, non si comprende la svolta epocale a cui stiamo assistendo e non ci si attrezza a porre in essere le misure idonee a contrastare questo processo.

Com’è ovvio, nella situazione attuale non si può imporre un peggioramento generalizzato delle condizioni di lavoro, non si può derogare al contratto collettivo nazionale di lavoro, se non c’è la firma di tutti i protagonisti maggiormente rappresentativi, e quindi se manca la firma del principale sindacato, la Fiom..

Allora cosa fa la Fiat? Si inventa una nuova società, un New company (newco), e non la iscrive alla Federmeccanica. Siccome in questo paese non c’è una legge sulla rappresentanza sindacale, poiché non è stata attuata la seconda parte dell’art. 39 della Costituzione, non esiste neanche un sistema di contrattazione valido erga omnes. I datori di lavoro sono vincolati ad applicare un contratto solo se aderiscono all’associazione imprenditoriale che lo ha stipulato.

Se la Newco non è iscritta a Federmeccanica allora non è tenuta ad applicare il contratto nazionale di lavoro e non è tenuta ad applicare neanche gli accordi confederali stipulati da Confindustria, di cui Federmeccanica fa parte, ad esempio l’accordo del 1993 sulle rappresentanze sindacali unitarie, poi recepito a livello di categoria nel 1994.

Quindi Fiat costituisce una Newco, questa non aderisce a Federmeccanica, e così non applica il contratto nazionale, né applica gli accordi interconfederali relativi alle rappresentanze sindacali unitarie. La Newco applica solo il cosiddetto accordo separato sottoscritto con le organizzazioni sindacali firmatarie. E la Fiom, che non è firmataria di quest’ultimo accordo, perde il diritto alla rappresentanza.

Non preoccupa tanto che la Fiom non possa raccogliere i contributi sindacali con le trattenute dirette sulle buste paga dei lavoratori, perché sono disponibili altri meccanismi, come la cessione di credito, che possono sopperire alla mancata applicazione dell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori.

Ma il fatto che non possa usufruire dei permessi sindacali, dei distacchi sindacali per i dipendenti che coprono degli incarichi direttivi, che non abbia la titolarità per indire le assemblee del personale è una prospettiva che inquieta. I lavoratori non possono neppure eleggere i loro rappresentanti, che vengono ora designati, secondo l’accordo separato, soltanto dalle sigle firmatarie: si torna all’art. 19 dello statuto dei lavoratori sulle RSA. Ma non all’art. 19 del 1970, bensì all’art. 19 come è stato emendato dal referendum del 1995, fra l’altro promosso da sinistra, per cui chi non è firmatario di un contratto applicabile all’unità produttiva è fuori, non gode di tutta la parte promozionale dello Statuto, di tutta quella parte cioè destinata a sostenere le organizzazioni sindacali in azienda.

Credo però che questo meccanismo, peraltro abilmente studiato per successive approssimazioni nel corso di questi mesi, abbia comunque probabilmente un ingranaggio che non funziona. Contrariamente a quanto affermano i firmatari di quell’accordo, non si può dire che l’operazione societaria che viene posta in essere non sia un trasferimento d’azienda.

Cosa vuol fare Fiat? Come regola il passaggio dei lavoratori dalla vecchia Fiat alla new company? Con cessioni individuali di contratto, anche per costringere i lavoratori a sottoscrivere l’accettazione dell’accordo e quindi a stipulare un nuovo contratto di lavoro per far incorporare nel medesimo le disposizioni di questo sciagurato accordo separato. Ma mi chiedo (e su questo dovremo lavorare nei prossimi mesi): è legittima un’operazione del genere? Ovvero tale operazione non costituisce una violazione di un’importante disposizione di tutela dei lavoratori, cioè della normativa che tutela la continuità dei rapporti nei trasferimenti di una azienda o di un suo ramo?

Ci sono state tre direttive della Comunità economica europea che hanno portato a due successive modifiche dell’articolo 2112 del codice civile di fondamentale importanza, secondo cui nel caso in cui si trasferisca, con qualunque tipo di negozio giuridico, da un soggetto imprenditoriale a un altro la titolarità dell’esercizio di un’impresa, i rapporti continuano con il cessionario, senza soluzione di continuità. E per azienda o un suo ramo, si intende qualunque attività economica autonomamente organizzata.

L’effetto di azzeramento della contrattazione collettiva pregressa può prodursi soltanto – e ho dei dubbi che possa essere sostenuto nella fattispecie – se si esclude che questa operazione sia un trasferimento di azienda e quindi se si esclude la conseguente operatività delle tutele giuridiche dell’art. 2112 . Se viceversa, come credo, siamo nell’ambito del trasferimento d’azienda, o di un suo ramo, perché i lavoratori passano, sia pure con lo strumento elusivo delle cessioni individuali di contratto, le macchine passano, passa la struttura imprenditoriale nel suo complesso, allora non si realizza automaticamente l’effetto di azzeramento della contrattazione collettiva precedente, e continuano ad applicarsi i contratti di diverso livello ora vigenti, a partire dal CCNL del 2008 sottoscritto anche dalla Fiom e quelli sulle RSU.

Come avvocati del lavoro, dovremo ancora studiare e approfondire queste tematiche per dare il nostro contributo a sanare il grave strappo alla legalità realizzato in questa vicenda.

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Il ruolo della politica

di Marco Gozzelino

Perché la fabbrica di nichi è al fianco della FIOM-CGIL contro l’accordo di Mirafiori? Non si tratta di un riflesso condizionato o della risposta ad un “richiamo della foresta” che scatta, o dovrebbe scattare, nella sinistra, quando in gioco ci sono i metalmeccanici.

Il motivo del nostro impegno parte invece dalla convinzione che ciò che, ancora oggi, avviene alla FIAT abbia un notevole impatto sulle nostre vite, non solo per una questione geografica. Abbiamo avuto la netta sensazione che, nonostante le biografie di chi partecipa alle fabbriche di nichi siano molto distanti da quelle dei metalmeccanici destinatari dell’accordo, ciò ci riguardi da vicino: anche se dal discorso pubblico le condizioni di lavoro degli operai sono praticamente scomparse, rimuovendo dall’immaginario collettivo i milioni di persone che tuttora lavorano nel settore manifatturiero, è risultato evidente che un così drastico cambiamento delle relazioni industriali, avvenuto nella più grande azienda privata italiana, non può non avere ripercussioni su tutto il mercato del lavoro, anche su chi, come molti di noi, spera in un proprio futuro lavorativo nell’economia della conoscenza.

Paradossalmente, in una società che si vuole sempre più postfordista, tutti i commentatori, favorevoli o contrari alle scelte di Marchionne, hanno assegnato un ruolo centrale alla vicenda FIAT e al carattere generale che essa assume: abbiamo ascoltato un entusiasta ministro del Lavoro dichiarare che ciò che è avvenuto a Pomigliano e Mirafiori, cioè il peggioramento delle condizioni di lavoro di migliaia di persone e la marginalizzazione di quei sindacati non disposti ad accettare un sopruso, segna la strada per il futuro mercato del lavoro italiano.

Chi partecipa alla fabbrica ha sentito la necessità che la politica si riappropriasse del proprio ruolo in questa vicenda: in questi giorni abbiamo visto troppi esponenti politici, spesso di centro sinistra, giocare ad immedesimarsi negli operai cui viene chiesto di esprimersi sull’accordo e dichiarare quale voto, nei casi specifici si tratta sempre di un sì, essi avrebbero dato.

Noi pensiamo che il ruolo della politica sia un altro: dare un giudizio sull’accordo, sull’impatto che questo produce sulla vita degli interessati e sugli effetti che genera nella società e nel tessuto produttivo che circonda l’impresa, avere ben chiaro quale mondo del lavoro prefigura e, in esso, quale ruolo avranno i sindacati. Di più, nel caso si reputi questa trasformazione incompatibile con il progetto di una società più giusta ed equa, che dovrebbe essere alla base di ogni sinistra degna di questo nome, dovrebbe contrastarla nelle sedi istituzionali e nella pubblica opinione.

Noi pensiamo che la politica non possa astenersi dall’intervenire nella vicenda, ritagliando per sé il misero ruolo di spettatore interessato: la FIAT nel corso dei decenni ha beneficiato di consistenti contributi pubblici tra incentivi all’acquisto, commesse di stato, contributi per l’insediamento di impianti, acquisizione dei rami secchi della holding. A fronte di questa “storia” di denaro pubblico messo a disposizione dell’azienda, buon ultimo l’acquisto delle aree TNE adiacenti a Mirafiori da parte di Comune, Provincia e Regione, è impensabile, oggi, non pretendere che in Italia, a Torino come a Pomigliano, sia confermata una produzione stabile e futuribile, capace di generare anche un lavoro di qualità per chi il prodotto auto lo costruisce materialmente.

C’è un’ultima considerazione che noi delle fabbriche di nichi vogliamo esplicitare: tra le dichiarazioni più stravaganti di Marchionne c’è l’affermazione che il suo ruolo sia quello di Grande Rinnovatore dell’Italia. Probabilmente pensa che questa funzione, in qualche modo, gli spetti a fronte del compenso annuo che percepisce, alcune centinaia di volte quello di un operaio FIAT. Vorremmo rassicurarlo sul fatto che questo fardello non gli compete: pensiamo che come manager FIAT abbia già la responsabilità nella guida di un grande gruppo industriale internazionale: ciò che può cambiare è la sua azienda, rispettando le norme che regolano la civile convivenza del nostro paese, legislazione del lavoro compresa, e producendo buone auto compatibili con le sfide ambientali con cui dobbiamo fare i conti già oggi.

Il compito di cambiare il paese spetta alla buona politica, non ad amministratori delegati strapagati o a imprenditori che scendono in campo pensando di trattare la cosa pubblica esattamente come fanno con le loro proprietà. E la buona politica si trova proprio dove questi moderni padroni del vapore vorrebbero farla scomparire: nelle scuole e nelle università, nelle città, nelle famiglie, nei posti di lavoro. La buona politica si trova dove ci sono almeno due persone che si pensano alla pari, non dove ce n’è una sola che, sulla base del proprio status o della propria ricchezza, pensa di poter comandare.