Viviamo nel mondo più pacifico mai esistito?

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di Mario Vadacchino

Secondo Steven Pinker viviamo nel mondo più pacifico che ci sia mai stato. In un suo monumentale libro[1] Pinker giustifica questa tesi utilizzando una documentazione sconfinata, argomentazioni convincenti ed un’esposizione particolarmente brillante. Il testo ha avuto ampia diffusione e l’autore ha aperto anche un sito nel quale risponde ai commenti ed alle critiche[2].

La tesi di Pinker è contraria alle nostre più immediate percezioni; egli giustifica nel suo sito questa affermazione osservando: “Se basate le vostre opinioni sullo stato del mondo secondo quanto si legge nei notiziari, le vostre opinioni sono scorrette. Questo non è per una congiura tra i giornalisti o per una falsificazione della verità. Questo è per una interazione tra la natura delle notizie – cioè sulle cose che accadono, particolarmente quelle cattive – e la natura del giudizio dell’uomo.”

La tendenza a ricordare con nostalgia il passato ed a confrontarlo positivamente con il presente è fenomeno noto alla psicologia cognitiva con il termine di retrospezione rosea, ma era già noto a San Tommaso che lo esprimeva con la frase memoria praeteritorum bonorum[3]. A questa naturale predisposizione si deve aggiungere la poca conoscenza del nostro passato; come dice Pinker, citando lo scrittore inglese P. L. Hartley, il passato è un paese straniero[4]. Che molti aspetti della società siano migliorati nel corso dei secoli non può essere messo in dubbio; in certi casi questa valutazione è relativamente facile, in altri invece non è semplice.

L’andamento dello stato di salute dell’uomo nel corso dei secoli si può ricavare dalla durata della sua vita: la durata della vita è sensibilmente aumentata, e quindi la salute dell’uomo è migliorata. Un’analisi più ampia e completa di queste problematiche è stata fatta da Robert Fogel, premio Nobel per l’economia nel 1993, in un testo dal titolo significativo[5], che contiene un capitolo intitolato addirittura “Perché il XX secolo è stato così meraviglioso.” Non esiste invece un indicatore altrettanto sintetico ed efficace per misurare e valutare l’andamento, nel corso dei secoli, dell’esercizio della violenza. La definizione di violenza si è modificata nel corso del tempo; la violenza nell’antichità era prevalentemente, ma non solo, quella fisica; oggi si parla di violenza morale.

Nel suo libro Pinker non definisce esplicitamente che cosa sia per lui la violenza, ma considera solo la violenza fisica, quella che un uomo esercita volontariamente su di un essere vivente, che produce dolore ad un essere senziente. Questa scelta è stata criticata da alcuni commentatori, ma è opportuna: mentre il dolore fisico provato da un uomo preistorico sottoposto a violenza è analogo a quello provato da un uomo contemporaneo, il dolore dovuto ad una violenza morale può essere stato diverso. La violenza morale è un ampliamento del concetto di violenza ed è un’indicazione ulteriore della validità della tesi di Pinker, la cui posizione è sostanzialmente quella di una parte della scienza politica[6]; essa permette di non considerare quelle forme di violenza implicite in tutti i rapporti di potere, difficili da definire e quindi da misurare.

La concezione ristretta di violenza utilizzata da Pinker non consente invece di considerare quelle morti che non possono essere definite naturali, sono ben misurabili e sono talmente importanti da essere confrontabili con quelle delle guerre mondiali del XX secolo. Secondo l’Organizzazione Internazionale della Sanità, nel 2013 sono morte nel mondo 3400 persone al giorno in incidenti stradali, per un totale di 1.240.000 all’anno[7]. L’Organizzazione Mondiale del Lavoro, stimava nel 2011 che circa 6000 persone al giorno muoiano per incidenti sul lavoro o per malattie professionali, per un totale di circa 2.300.000 all’anno[8]. La stragrande maggioranza di queste morti è stata causata da una voluta mancanza di rispetto delle più ovvie norme di sicurezza, in obbedienza ad una feroce logica di profitto. Esse hanno almeno due elementi comuni con quelle che si verificano in guerra: ci sono uomini che, in base a ragioni di stato o di profitto, pongono a rischio la vita di altri uomini e la maggior parte delle vittime sono giovani. In un testo molto utilizzato da Pinker, John Mueller[9] ha messo in evidenza il carattere paradossale dei dati relativi alle morti in incidenti stradali, se confrontati con quelli delle guerre: l’auto risulta essere la peggiore arma di distruzione di massa attualmente presente. Egli nota inoltre come tutte le proposte di ridurre il numero di queste morti, con l’imposizione ad esempio di un basso limite di velocità, abbiano avuto, fino ad ora, un successo limitato.

La violenza è stata sempre ed è tuttora presente nella società: sta nelle rapine dentro le città, nelle feste paesane durante le quali si incendiavano i gatti legati ad un’asta per vederli soffrire, nei campi di battaglia, nelle piazze dove si eseguivano le condanne a morte, nelle case private in cui si frustavano gli schiavi, si picchiavano i bambini e le donne, nelle aule scolastiche ed in quelle dei tribunali, nelle prigioni e nelle arene dove tuttora si torturano e uccidono i tori. Lo stato, quando ha avocato a sé l’esercizio esclusivo della violenza, ne ha istituzionalizzato alcune forme; è diventato responsabile delle torture, delle esecuzioni capitali, delle guerre; ha gestito queste violenze organizzate, intenzionali e, nel caso della guerra, anche di massa.

La violenza ha interessato ed interessa tutti i luoghi di vita degli uomini, i loro mutui rapporti, quelli tra lo stato e i cittadini, tra gli stati, tra le varie organizzazioni nelle quali si articola la società; ha coinvolto tutte le sue componenti fino a quelle meno autorevoli, come i bambini e gli animali. Come attori o come spettatori tutti gli uomini hanno partecipato allo spettacolo della violenza. Le forme nelle quali si è esercitata sono infinite. La teoria politica, la sociologia e le altre scienze sociali hanno individuato vari aspetti della pratica della violenza, considerando i suoi attori, le sue modalità e le sue funzioni; per ciascuno di questi aspetti si potrebbe scrivere una diversa storia. Ancora oggi gli spettacoli violenti hanno un pubblico relativamente ampio, ma questo pubblico si considera soddisfatto dalla cronaca nera o dalla visione di un film.

Una volta definita la violenza, bisogna determinare come misurarla. Si tratta, secondo Pinker, di un problema squisitamente politico: la sofferenza di chi subisce una violenza e ne muore non viene modificata se questa violenza è applicata solo a lui o ad altre mille persone. Per la società nel suo complesso invece, tenuto presente che tutti devono ad un certo momento morire, il fatto che questa morte avvenga nei tempi definiti dalla natura e non da quelli definiti dalla violenza di un altro uomo, è un bene; da un punto di vista pratico quindi quello che interessa non è il numero assoluto di morti violente, ma quello relativo. In altri termini interessa misurare come si è modificata nel corso dei secoli la probabilità per l’uomo di subire una morte violenta. Come scrive Pinker: “il numero di persone che, in un dato tempo e luogo, vive pienamente la propria vita va considerato un bene morale, contro il quale misurare il male morale di coloro che restano vittime di violenza”[10].

Il numero delle morti violente dà una indicazione del livello di violenza presente in una società, ma ne sottovaluta l’intensità, perché non tiene conto di tutte quelle violenze che possono concludersi senza la morte di chi le subisce: dalle torture alle punizioni sui bambini, fino al maltrattamento degli animali; Pinker considera anche questi aspetti.

Le fonti utilizzate da Pinker per quantificare il livello di violenza sono molte, diverse, e riflettono la diversa disponibilità di dati per i vari secoli. Per i secoli più lontani Pinker utilizza anche testi letterari o religiosi, quali il Vecchio Testamento e l’Iliade, testi fondanti la cultura occidentale: essi contengono vicende di violenza inaudita. Pur tenendo conto che non si tratta di descrizioni realistiche di fatti accaduti, ma di racconti di fantasia, Pinker osserva che essi non potevano essere molto in contrasto con una diffusa cultura di accettazione delle violenze. Un’altra fonte di informazione è fornita dalle indagini etnografiche di popolazioni che sono rimaste fuori dalla storia e quindi conservano dei comportamenti primitivi. Contrariamente all’idea abbastanza diffusa che queste società ancora non statuali abbiano una vita pacifica, le violenze in esse sono in generale molto elevate e frequenti: sono presenti, in particolare, le pratiche del delitto per motivi di vendetta o d’onore. Un ulteriore contributo proviene dalle ricerche degli archeologi forensi che hanno esaminato gli scheletri delle necropoli preistoriche: una percentuale del 15 % di questi reperti mostra i segni di una morte violenta.

Pinker, dopo avere esaminato molte raccolte di dati sulle diverse tipologie di violenza, sostiene che tutte mostrano una tendenza a diminuire nel corso dei secoli. La diminuzione della violenza “non è stata uniforme, non ha azzerato le violenze e non è garantito che continui. Ma è un fatto indubbio, visibile su scale che vanno da millenni ad anni, dalle dichiarazioni di guerra alle sculacciate ai bambini”[11]. In ogni società, in un certo momento storico, esiste un livello di tolleranza alla violenza che ne condiziona tutti i suoi aspetti: questo livello, secondo Pinker, è andato calando nel corso dei secoli ed il calo ha interessato tutte le istituzioni ed anche il comune sentire.

Le istituzioni che per secoli, in tutti i paesi, hanno contenuto e giustificato la violenza, come la schiavitù, la tortura, la pena capitale sono praticamente sparite ed anzi il loro esercizio è perseguito penalmente. Siamo stati per secoli educati a dare un diverso status al soldato che uccide in battaglia e al bandito che uccide in strada; il soldato che uccide o è ucciso in battaglia può diventare un eroe o un caduto per la patria, ma la linea che separa il comportamento di un eroe da quello di un assassino appare essere sempre più labile e fluttuante: per il soldato conta meno l’onore e più la dignità. In questo scenario Pinker può concludere che dove è basso il tasso di omicidi, non si maltrattano i bambini e gli animali, è anche bassa la propensione alla guerra.

Se si misurano le dimensioni delle perdite umane nei contrasti violenti si nota che “i tipi di violenza letale più dannosi (almeno dal 1820 al 1952) furono omicidi e guerre mondiali; tutti gli altri tipi di contrasti uccisero molta meno gente”[12]. Sono quindi rilevanti ed emblematici i dati relativi agli omicidi ed alle guerre: si tratta di uccisioni che vengono programmate e compiute volontariamente da un singolo con diverse motivazioni e modalità, o da un governo in nome della ragione di stato.

Tutte le statistiche indicano concordemente che il tasso di omicidi in Europa, statisticamente correlato con lo stupro, la rapina o l’aggressione, è diminuito passando da 80 su 100.000 abitanti nel XIV secolo ad 1 su 100.000 ai giorni nostri; per le società non statuali tale tasso è di 700 su 100.000. L’omicidio intenzionale contribuisce al bilancio delle morti violente con un peso confrontabile con quello delle guerre: nel 2012, secondo un rapporto delle Nazioni Unite[13] sono morte nel mondo per omicidio 437.000 persone con un tasso di 6 su 100.000. L’Europa è il continente meno violento del mondo, ma questo tasso è diminuito nel corso dei secoli in tutto il mondo. Proprio in presenza di questi dati, dopo un lunga gestazione, è entrato recentemente in vigore un trattato che limita il commercio delle armi[14].

Molto più delicata è l’analisi empirica delle guerre, che sono eventi molto meno definiti degli omicidi, totalmente diverse l’una dall’altra, nelle motivazioni, nelle modalità, nello sviluppo temporale e spaziale; ciò rende incerto ogni tentativo di individuare delle categorie. Un solo esempio di questa difficoltà: l’inizio della II guerra mondiale può essere fissato con qualche ragione il 18 settembre del 1931, quando i giapponesi attaccano la Cina come reazione al dubbio incidente di Mukden, ma anche il 1 settembre del 1939, quando gli aerei tedeschi iniziano a bombardare la Polonia; e non manca chi pensa che la seconda guerra mondiale sia stata una continuazione della prima[15]. La determinazione del numero delle vittime della seconda guerra mondiale dipende quindi dal momento nel quale si fa iniziare questa guerra e dal teatro che si considera. Sono oggi disponibili diverse banche dati contenenti le caratteristiche quantitative di tutte le guerre[16]. Per comprendere le difficoltà incontrate nella redazione di tali compilazioni è sufficiente ricordare il problema della valutazione del numero dei morti civili: in particolare non è facile distinguere le vittime collaterali dalle vittime delle carestie che hanno quasi sempre seguito le guerre.

Non è tuttavia l’incertezza dei dati ad impedire la costruzione di una teoria deterministica della guerra; come aveva intuito già Clausewitz questa teoria non esiste[17]. Richardson[18] ha mostrato che le guerre sono sistemi trattabili solo con le tecniche delle teorie fisiche dei sistemi complessi[19]. Si può dimostrare[20] che il numero di vittime di una guerra segue una legge di potenza ed è inversamente proporzionale alla probabilità che si verifichi. Non esiste una guerra tipica e Pinker può affermare quindi che “le dinamiche psicologiche o di teoria dei giochi che determinano se le coalizioni in contrasto si minacceranno, si tireranno indietro, blufferanno, prenderanno le armi, si daranno a un’escalation, continueranno a combattersi o si arrenderanno sono le stesse sia che si tratti di bande di strada, milizie o eserciti di grandi potenze”[21].

L’asserzione di Pinker sulla diminuzione nel corso dei secoli delle guerre e della loro letalità è stata contestata; Pinker ha replicato nel suo sito fornendo nuovi dati; la sua tesi, confermata anche da Andrew Mark, direttore del Human Security Report Project[22], non può oggi essere messa seriamente in discussione. La prima metà del XX secolo è stata caratterizzata da due grandi guerre mondiali; la seconda metà da un periodo di pace che dura tuttora e che è unico nella storia degli uomini. Ricorda Pinker che “il 15 maggio 1984 fu toccato il più lungo periodo di pace fra le maggiori potenze dai tempi dell’impero romano”[23], eppure: “a partire dal 1400 gli stati europei avevano iniziato circa due nuovi conflitti all’anno”[24]. Nel 1991 l’Unione Sovietica si è dissolta senza alcun scontro militare; ha lasciato dietro di sé situazioni instabili, come quella dell’Ucraina, ma pare difficile pensare che esse possano oggi produrre una nuova guerra in Europa.

L’evidente scomparsa delle guerre tra le nazioni più civilizzate viene minimizzato da chi sostiene che le guerre continuano nei paesi in via di sviluppo. Ribatte Pinker: “Guerre tribali, civili, private, schiavistiche, imperiali e coloniali mettono a ferro e fuoco da millenni le regioni di quello che costituisce oggi il mondo in via di sviluppo”[25].

La tesi che la violenza sia diminuita nel corso dei secoli è contraddetta da un recente libro di Niall Ferguson[26]. Sostiene infatti Ferguson nell’introduzione del suo testo, riferendosi alle guerre: “Il Novecento è stato senza dubbio il secolo più sanguinoso della storia moderna, molto più violento, in termini relativi e assoluti, di qualsiasi altra epoca”[27]. Ma questa affermazione è smentita in una appendice nella quale si dice: “Un’asserzione del genere non ha in alcun modo valore assoluto e merita, quindi di essere dimostrata da cifre irrefutabili. Chiunque tenti di farlo, però finisce di sprofondare in un abisso di grande confusione statistica. Le stime delle vittime dei conflitti del ventesimo secolo sono abbastanza imprecise, per non parlare dei bilanci delle guerre precedenti. Scorporare i dati per popolazione, poi, non può che ampliare il margine di errore”[28].

La propensione dei popoli a farsi guerra è diminuita nel corso dei secoli: la guerra appare obsoleta, non solo perché è diminuita la tolleranza alla violenza, ma perché non pare in grado di risolvere i problemi che l’hanno causata; oggi possiamo anzi dire che le guerre scoppiate negli ultimi anni hanno aggravato i problemi che volevano risolvere: la guerra appare essere un gioco a somma negativa. John Stuart Mill sosteneva già nel 1848 che il commercio stesse rapidamente rendendo le guerre obsolete: osservazione preveggente, ma che oggi sappiamo essere stata molto in anticipo sui tempi[29]. La tesi di una progressiva difficoltà della guerra come solutore delle controversie ha circa trent’anni[30] e si è arricchita di molti nuovi contributi[31]. Come scrive John Mueller[32]: “La guerra è semplicemente un’idea – una istituzione come il duello o la schiavitù che è stata imposta sull’esistenza dell’uomo. A differenza del respirare, del mangiare o del fare sesso, non è cosa richiesta in qualche modo dalla condizione umana o dalle forze della storia. Può quindi appassire e sparire e questo può succedere senza alcuna modifica della natura umana”. La dubbia efficacia della guerra come strumento di politica è stato ben capito da Obama, che sa come il popolo americano tolleri le guerre solo fino a che le perdite sono minime[33].

Nel corso dei secoli alcuni gruppi hanno subito maggiormente la violenza presente nella società: sono gruppi per varie ragioni più deboli, sia per il ruolo sociale nel quale sono stati collocati o semplicemente perché non hanno avuto voce nel difendere i loro diritti: si tratta delle donne, dei bambini e degli animali. Un buon indicatore del livello di violenza tollerato in una società è il comportamento verso queste parti più deboli ed indifese della comunità dei viventi.

Il rispetto che le donne sono riuscite a conquistarsi, a partire dal secolo scorso, ha notevolmente ridotto le violenze da loro subite, pur non avendole ancora annullate. L’aumento del peso sociale delle donne riduce gli spiriti bellicosi: le donne infatti investono nella nascita di un figlio molto più degli uomini e quindi, secondo Pinker, hanno, anche per motivi genetici, una tendenza a conservare questo investimento che andrebbe perduto nella guerra.

L’infanticidio ha fatto parte della storia di tutte le società e di tutti i luoghi ed è probabilmente ancora presente. Le sue cause sono economiche, ma anche politiche: in molti imperi i figli cadetti venivano uccisi per garantire al primogenito la successione. Per i bambini che potevano iniziare a crescere, la strada verso l’età adulta era difficile e dolorosa; il bambino era considerato un depravato e doveva quindi essere educato con la forza. Cresceva ascoltando le fiabe dei fratelli Grimm, piene di violenze, dagli infanticidi alle mutilazioni e subiva punizioni durissime. Il neonato che non era soppresso correva il rischio di essere abbandonato: diventava un trovatello[34]. Solo alla fine del ’600, con l’influente Alcune considerazioni sull’educazione, John Locke introduce una nuova visione della fanciullezza. Da quegli anni, con una lenta, ma sicura evoluzione, le condizioni dei bambini sono molto migliorate, anche se non è passato molto tempo da quando in classe si davano punizioni corporali agli allievi; oggi questi comportamenti, considerati abuso dei metodi di correzione, sono diventati reati penali.

Esiste una antica e nobile tradizione di rispetto per gli animali, ma è stata sempre poco rispettata. Nell’antichità classica il problema della natura degli animali era discusso[35]: Aristotele riconosce agli animali alcune caratteristiche che appartengono anche all’uomo e li paragona ai bambini; per Cicerone invece non erano altro che carne da mangiare. Plutarco, a sua volta, si diceva convinto che “l’amore per gli animali educhi gli uomini alla pietà verso gli altri uomini”[36]. Horkheimer e Adorno individuano un’origine del disprezzo per gli animali, osservando che: “L’idea dell’uomo nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo. Questa antitesi è stata predicata con tale costanza e unanimità da tutti gli antenati del pensiero borghese – antichi ebrei, stoici e padri della Chiesa – e poi attraverso il Medioevo e l’età moderna, che appartiene ormai, come poche altre idee, al fondo inalienabile dell’antropologia occidentale”[37]; essi inoltre interpretano il vero significato dell’affetto esibito dai nazisti per i cani come l’espressione del loro dominio assoluto.

Per secoli la sofferenza degli animali è stata uno spettacolo popolare. Oggi il maltrattamento degli animali, non solo è sanzionato dalle leggi, ma è esecrato dall’opinione pubblica; ogni pratica che li mostri quali simpatici amici dell’uomo viene posta in rilievo e lodata. Gli esempi attuali di questo mutamento nella coscienza della società sono innumerevoli. L’assemblea nazionale francese ha recentemente modificato il codice napoleonico che considerava gli animali beni mobili definendoli invece essere viventi dotati di sensibilità. Recentemente si è fatto notare che in Italia, a differenza di altri paesi europei, gli animali sono pignorabili, come gli oggetti, e quindi è iniziata una campagna per modificare la legge e rendere anche gli animali, come gli uomini, non oggetti e quindi non pignorabili. Secondo Pinker questo è una indicazione che il livello di tolleranza alla violenza nella società si sta abbassando.

Pinker discute anche il ruolo che ha avuto la religione nel promuovere le guerre: la più cruenta guerra oggi in corso è stata dichiarata in nome di una religione. Si devono nutrire dubbi che questa sia l’unica motivazione; altre possono essere trovate nella disperazione presente nelle periferie urbane europee o nelle campagne del Medio Oriente. Bisogna però prendere atto che la guerra scatenata dall’Isis nel Medio Oriente è fatta in nome della religione; con un inquietante riferimento al passato, questa guerra è chiamata crociata.

Non si tratta di una novità: nella storia molte tra le guerre più sanguinose sono state giustificate con motivazioni religiose. Secondo Luard[38], dal 1559 fino alla pace di Westfalia nel 1648, quando termina la guerra dei trent’anni, si combatterono per il controllo di città e stati, in nome della religione, almeno venticinque guerre internazionali e ventisei guerre civili; conflitti che videro contrapposti in Europa protestanti e cattolici, in Russia cattolici e ortodossi, ma anche cristiani e mussulmani ed in Medio Oriente sciti e sunniti, che si fronteggiarono in quattro guerre tre Turchia e Persia.

In una classifica[39] delle ventuno maggiori stragi causate dagli uomini direttamente con le guerre, le carestie e le rivolte si può osservare come la guerra dei trent’anni occupi il tredicesimo posto, quella in Russia il quattordicesimo e la guerra di religione in Francia il diciassettesimo: in questa classifica la seconda guerra mondiale occupa il nono posto e la prima il sedicesimo.

Alla luce di questi dati non appare molto opportuna la proposta fatta a suo tempo di ricordare nella costituzione dell’Europa le sue radici giudaiche-cristiane; una parte di queste radici portano il segno di guerre tra le più feroci della storia dell’umanità. Nell’estate del 1914 Pio X rivolge un appello per la pace al mondo cattolico[40], ma la sua posizione non pare essere stata di tutta la Chiesa. Aurelio Galli, segretario alle lettere ai principi pronunciava il 31 agosto 1914 la consueta Oratio de eligendo summo pontefice davanti ai cardinali riuniti in conclave per eleggere il successore di Pio X. Come dice Daniele Menozzi: “Tre erano gli elementi centrali della lettura della guerra proposta in quella solenne occasione: la sua interpretazione come punizione per l’apostasia della società moderna; la convinzione della sua funzione catartica; il nesso tra ristabilimento della pace e ritorno del pontefice a un ruolo direttivo nella vita internazionale”[41]. Il pensiero della Chiesa si è profondamente evoluto[42] e Benedetto XVI poteva asserire nel 2007 che “la non violenza costituiva un elemento vincolante per il comportamento dei credenti che intendevano conseguire la giustizia nelle relazioni sociali”[43].

Il ruolo delle religioni nell’influenzare i rapporti tra gli uomini, in particolare la propensione alla violenza, non può esser sottovalutato e non riguarda solo il cattolicesimo, ma tutte le religioni monoteiste. Osserva Crépon[44] “… a partire dai primi balbettii della religione di Israele, si pone il paradosso che non cesserà di manifestarsi lungo l’intero corso della tradizione monoteista: come è possibile ammettere che il dio degli Ebrei, che diverrà il dio unico del giudaismo, del cristianesimo e dell’Islam, sia al tempo stesso il Creatore dell’universo, il Padre di tutti gli esseri viventi, e quel dio sanguinario che incita il suo popolo alla guerra e nel cui nome sono stati commessi tanti spietati massacri?”.

È innegabile che la violenza è diminuita in tutti gli aspetti della società; la causa di questa diminuzione va cercata, secondo Pinker, nella storia della società e della psicologia dell’uomo. Pinker individua alcune tendenze o processi, che si sono sviluppati a partire da momenti diversi e sono stati attivi per secoli; alcuni hanno cessato di funzionare, altri sono tuttora attivi. Un primo processo, durato molti secoli, è legato alla creazione delle prime strutture statuali: da una società anarchica di cacciatori si passa agli stati nazionali; le organizzazioni sopra individuali acquisiscono il monopolio dell’esercizio della violenza che quindi diminuisce. La riduzione della violenza interstatale è ottenuta con la violenza da parte di organizzazioni militari che prefigurano quelli che poi saranno gli eserciti statali. La nascita e lo sviluppo di queste organizzazioni è correlato con la nascita degli stati moderni: gli eserciti contribuiscono alla creazione dello stato e lo stato contribuisce alla creazione dell’esercito, secondo l’analisi di Kippendorf[45]; le sue tesi possono non essere completamente corretta per tutti gli stati, ma lo sono certamente per la Prussia[46]. La creazione degli stati nazionali ha anche incrementato tutte le attività commerciali: il commercio infatti, contrariamente alla guerra, è un gioco a somma positiva. Il processo di disfacimento delle strutture nazionali unitarie produce una situazione di violenza di natura tribale come è evidente oggi in Iraq, in Libia ed anche in Yemen.

Un secondo processo si verifica durante il periodo dell’Illuminismo: quando finisce l’età dell’assolutismo e sotto l’influsso dell’illuminismo appaiono le prime costituzioni si sviluppa e diffonde l’idea di democrazia che secondo Pinker[47] “si rivelò una delle più potenti tecnologie di riduzione della violenza, già dalla nascita dei governi.”. Nascono i primi movimenti che lottano contro le forme istituzionalizzate di violenza dalla schiavitù al duello, dalla tortura alle uccisioni per superstizione, alle esecuzioni capitali; si sviluppano in questo periodo le prime proposte pacifiste e si estendono i diritti di cittadinanza. Un terzo processo è quello più recente, che vede l’affermazione e la formalizzazione in leggi e trattati di una concezione universalistica dei diritti umani.

Nella parte conclusiva del suo testo Pinker risponde alla domanda che ci si pone davanti alla violenza della storia umana: si tratta di una caratteristica endogena alla natura dell’uomo, o dipende da fattori esogeni cioè sociali? La risposta data da Pinker è che la natura dell’uomo, pur nella sua ricchezza ed ambiguità, non è violenta.

La cultura degli uomini è aumentata ed essi appaiono essere più in grado di fare un bilancio corretto dei costi connessi alla risoluzione di un conflitto con l’aggressione, piuttosto che con un compromesso. Questa capacità deriva anche da una maggiore disponibilità a conoscere gli altri, ad avere per loro una maggiore empatia ed è in ultima istanza, secondo Pinker, una conseguenza della maggiore istruzione.

Attribuire la propensione alla guerra alla natura dell’uomo da un lato non è corretto, dall’altro nasconde le responsabilità di tanti intellettuali che hanno esaltato la guerra come rigeneratrice della società. Un unico episodio merita citare: all’inizio della guerra, il 4 ottobre del 1914, venne diffuso un manifesto, noto come Aufruf, firmato da 93 uomini di cultura tedeschi in difesa delle ragioni della Germania, accusata di avere scatenato una guerra che apparve subito selvaggia e condotta attraverso distruzioni e massacri. Tra i 93 firmatari c’erano 13 premi Nobel, tra cui Max Planck e Fritz Haber[48]; si rifiutarono di firmare il sociologo Max Weber, il matematico David Hilbert ed il fisico Albert Einstein. Oltre ad una serie di vere e proprie bugie, il testo contiene un’inquietante affermazione razzista: “coloro che si sono alleati con i russi e i serbi ed hanno offerto al mondo la vergognosa scena di incitare i mongoli e i negri contro la razza bianca, non hanno assolutamente nessun diritto di considerarsi difensori della civilizzazione”. Questo proclama scatenò innumerevoli repliche e controrepliche, tutte intrise del più cupo nazionalismo.

Solo recentemente si è iniziato a scrivere la storia di questa vicenda, definita come guerra degli intelletti. Come scrive Brocke: “Sono innumerevoli le poesie e i discorsi, gli articoli e i manifesti, con i quali prestarono servizio, per mezzo delle loro voci e delle loro penne gli intellettuali di tutte le potenze belligeranti. In seguito tutto questo lavoro cadde nel dimenticatoio, venne pudicamente omesso o anche rimosso”[49].

La responsabilità degli intellettuali fu denunciata con parole efficaci dallo scrittore Jean Guéhenno, che scriveva sulla rivista Europe nel 1932: “…per condurre i poveri mangiatori di pane fino alla trincea, proprio sul bordo della loro tomba, c’è bisogno di tutti i nostri discorsi, dei nostri articoli, di tutte le nostre canzoni”[50].

L’esercizio della violenza non trova oggi molti sostenitori ed è anzi deprecato, qualsiasi sia la sua motivazione, in una parte crescente di mondo; a questa riprovazione contribuisce la diffusione delle notizie e delle immagini degli atti di violenza anche se ciò può distorcere le nostre opinioni sul mondo. Pinker ha quindi ragione nel sostenere che la violenza nel mondo è declinata nel corso dei secoli. Egli attribuisce peraltro questo declino ad un meccanismo esclusivamente culturale ed educativo; su questo punto l’analisi di Pinker non è convincente, come ha posto in rilievo Snyder[51], secondo il quale Pinker ha tenuto conto solo degli elementi sovrastrutturali, tacendo quelli strutturali. Il ruolo di avanguardia che l’Europa ha avuto nel rendere più pacifico il mondo, ruolo che conserva tuttora, è stato anche dovuto al fatto che nel vecchio continente le condizioni di vita dopo la seconda guerra mondiale sono molto migliorate per tutti; non è mai facile convincere chi vive bene in abiti civili ad indossare una divisa per andare ad uccidere o ad essere ucciso.

Pinker confronta il presente con il passato e, come sopra ricordato, non fa alcuna previsione sul futuro: nulla garantisce di per sé che l’attuale evidente tendenza alla riduzione della violenza sia definitiva. Tutti coloro che sono oggi impegnati a ridurre il livello di violenza presente nei rapporti tra gli uomini hanno ancora lavoro da fare, ma li deve incoraggiare il fatto che l’impegno di chi li ha preceduti non è stato vano. Gli elementi in grado di produrre una regressione verso una società più violenta e più disponibile ad andare in guerra sono sempre presenti: uno può essere l’attuale impoverirsi di una parte della società e le sue pessimistiche previsioni sul futuro: si troverà sempre l’intellettuale che indicherà come soluzione la virile lotta per la sopravvivenza ed il politico che creerà il nemico.

Ulteriori elementi strutturali in grado di sollecitare contrasti e crisi sono i mutamenti climatici[52]. La letteratura su questo tema è ormai imponente ed esistono anche studi statistici[53] nei quali si conferma come esiste una correlazione tra tutte le tipologie di conflitto e le modifiche climatiche; sarebbe quindi necessario intervenire subito sulle cause dell’effetto serra e sulle sue conseguenze sociali.

 

[1] S. Pinker, Il declino della violenza, Mondadori, Milano 2013. Il libro ha 898 pagine ed una bibliografia di circa 1000 titoli. Si tratta della traduzione italiana di The Better Angels of Our Nature, Viking Press, New York 2011. La traduzione italiana è di Massimo Parizzi. Il titolo inglese è la citazione di una frase attribuita ad Abraham Lincoln. Il titolo italiano rappresenta il contenuto del testo più fedelmente rispetto al titolo originale, che è invece più vicino alle competenze dell’autore.

[2] http://stevenpinker.com/pages/frequently-asked-questions-about-better-angels-our-nature-why-violence-has-declined.

[3] Ringrazio Paolo Garbarino per questa segnalazione e per vari commenti; Gabriella Silvestrini mi ha aiutato a chiarire alcuni punti.

[4] S. Pinker, op. cit., pag. 13.

[5] R. Fogel, Fuga dalla fame e dalle malattie, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 2006.

[6] Si veda la voce Violenza di M. Stoppino in N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino (a cura di), Dizionario di Politica, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2006.

[7] Si veda il sito: //www.who.int/violence_injury_prevention/road_safety_status/2013/en/.

[8] Si veda il sito http://www.ilo.org/safework/events/safeday/WCMS_364822/lang–en/index.htm.

[9] J. Mueller, Retreat from doomsday: The obsolescence of major war, Basic Book, New York 1989. Appendice. Il libro è disponibile in rete.

[10] S. Pinker, op.cit., pag. 63.

[11] Ivi, pag. 3.

[12] Ivi, pag. 254.

[13] http://www.unodc.org/.

[14] The Arms Trade Treaty riguarda tutte le armi, da quelle piccole a quelle da guerra ed è entrato in vigore il 24.12.2014. Ulteriori informazioni si possono trovare sul sito http://www.un.org/disarmament/ATT/.

[15] Si veda F. Fusi, 1914-1944. L’Italia nella guerra europea dei trent’anni, in «Italia Contemporanea», 276, dicembre 2014, pag. 589-594. Si tratta del resoconto di un convegno con lo stesso titolo tenuto a Firenze il 21 maggio 2014.

[16] Quella di Uppsala è in: http://www.pcr.uu.se/research/ucdp/datasets/ucdp_prio_armed_conflict_dataset/, ma anche http://necrometrics.com/pre1700a.htm. Molto utile è anche il sito http://www.correlatesofwar.org/.

[17] A. Beyerchen, Clausewitz, Non linearity and the Unpredictability of War, in «International Security», 17, Winter 1992/93, pag.mar 59-90.

[18] L. Fry Richardson, Statistics of deadly quarrels, Boxwood Press, Pittsburgh 1969, ma anche A.M. Saperstein, Chaos – A Model for the Outbreak of War, in «Nature», 1984, 309, pag. 303-5 e dello stesso autore Dynamical Modelling of the onset of War, World Scientific, Singapore 1978.

[19] Il termine complesso qui utilizzato è il termine tecnico della fisica e non va confuso col popolare termine colloquiale sinonimo di complicato.

[20] J.J. Ledermann, Modelling the size of wars: from billiard to sandpiles, in «American Political Science Review», 2003, 97, pag. 135-150.

[21] S. Pinker, op. cit., pag. 247.

[22] http://www.hsrgroup.org/

[23] S. Pinker, op. cit., pag. 285.

[24] Ivi, pag. 285.

[25] Ivi, pag. 286.

[26] N. Ferguson, XX secolo, l’età della violenza, Mondadori, Milano 2008.

[27] Ivi, pag. 6.

[28] Ivi, pag. 597.

[29] L. Freedman, Strategy, a history, Oxford University Press, Oxford 2013, pag. 96.

[30] W. Levi, The coming end of war, Sage Publications, Beverly Hills 1981.

[31] J. Goldstein, Winning the war on war: The surprising decline in armed conflict worldwide, Dutton, New York 2011.

[32] J. Mueller, op. cit., pag. IX.

[33] C. Gelpi, P.D. Feaver, J. Reifler, Success Matters, Causality Sensitivity and the War in Iraq, in «International Security», Winter 2005/06, vol. 30, pag. 7-46.

[34] Per quanto riguarda ad esempio Venezia si deve al francescano Pietrucco d’Assisi nel 1335 l’inizio dell’attività di accoglienza dei trovatelli. Si veda N.M. Filippini e T. Plebani (a cura), La scoperta dell’infanzia; cura, educazione e rappresentazione a Venezia, 1750-1930, Marsilio, Venezia 2000.

[35] Ricavo queste osservazioni dalla recensione apparsa su Il Sole-24 Ore del 29 marzo 2015 a firma di Armando Torno di un libro di prossima uscita. Si tratta di: P. Li Causi, R. Pomelli, (a cura), L’anima degli animali. Aristotele, Frammenti stoici, Plutarco, Porfirio., Einaudi, Torino 2015.

[36] M. Niola, Homo dieteticus, il Mulino, Bologna 2015, pag. 74.

[37] M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 2010, pag. 263.

[38] E. Luard, War in international society, Yale University Press, New Haven (CT) 1986.

[39] S. Pinker, op. cit., pag, 224.

[40] M. Fumagalli Beonio Brocchieri, Cristiani in armi, Laterza, Roma-Bari 2006, pag. 104.

[41] D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento, Il Mulino, Bologna 2008, pag. 15.

[42] A. Santagata, “Invece dei missili”. I cattolici e la profezia della pace: dalla campagna per il Vietnam alla protesta di Comiso, in «Italia Contemporanea», 276, dicembre 2004, pag. 423-447.

[43] D. Menozzi, op. cit., pag. 7.

[44] P. Crépon, Le religioni e la guerra, il Melangolo, Genova 1991, pag. 15.

[45] E. Krippendorf, Lo stato e la guerra. L’insensatezza delle politiche di potenza, Pisa, Gandhi Edizioni 2008.

[46] G.A. Graig, Il potere delle armi. Storia e politica dell’esercito prussiano 1640-1945, Bologna, Il Mulino 1984.

[47] S. Pinker, op. cit., pag. 188.

[48] Fritz Haber è considerato il padre della guerra chimica ed era presente ad Ypres il 22 maggio 1915 alla prima utilizzazione sistematica dell’iprite.

[49] B. von Brocke La guerra degli intellettuali tedeschi, in V. Calò, G. Corni, G. Ferrandi (a cura di), Gli intellettuali e la Grande Guerra, Il Mulino, Bologna 2000, pag. 373-409. Si veda anche L. Canfora, Intellettuali in Germania, Dedalo, Bari 1979 e per l’Italia A. d’Orsi, I chierici e la guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

[50] E. Thiers in L’honneur des intellectuels, in «Commentaire», 148, hiver 14-15, pag. 755-762.

[51] T. Snyder, War No More, Why the World Become more Peaceful, in «Foreign Affair», January/February 2012, 91, 1, pag. 153.

[52] http://blogs.reuters.com/great-debate/2015/04/21/not-science-fiction-changing-climate-pushing-migrants-out-of-africa-and-into-tragedy/

[53] M. Burke, S.M. Hsiang, E. Miguel, Climate and conflict, Working Paper 20598 del National Bureau of Economic Research, reperibile in http://www.nber.org/papers/w20598, October 2014.