Quanto capitalismo può sopportare la società

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Olof Palme

Questo il titolo italiano dell’ultima opera di Colin Crouch (Laterza 2014), il cui titolo inglese è invece “Making Capitalism Fit for Society”. Il libro però suggerisce anche l’operazione inversa – adattare la società al capitalismo, almeno nella misura in cui essa può sopportarlo senza gravi danni: “I socialdemocratici … accettano il mercato e la proprietà privata quali migliori strumenti per condurre la maggior parte delle attività economiche, ma sono estremamente scettici riguardo alla capacità del mercato stesso nel conseguire alcuni obiettivi sociali fondamentali”, come: assicurare a tutti una vita dignitosa, limitando le diseguaglianze, e gestire in maniera efficace alcuni compiti collettivi riguardanti i beni comuni (p. 4). La socialdemocrazia così intesa ricorda il liberalismo nella versione di John Stuart Mill (peraltro non citato), che considerava il mercato capitalistico buono per lo sviluppo produttivo ma non per l’equa distribuzione della ricchezza, e anche la versione di Dahrendorf (invece più volte ricordato nel cap. VII), che considerava i diritti civili, politici e sociali intimamente collegati. L’autore contrappone il socialismo classico, che aspira, prima o poi, a sostituire interamente il capitalismo con un “sistema di proprietà comune” (p .4) alla SPD di Bad Godesberg, che nella sua politica economica intende impiegare “mercato quanto più è possibile e Stato quanto è necessario” (pp. 28-29).

Crouch ammette l’egemonia culturale odierna del neoliberismo, ma ne distingue tre varietà: 1) il neoliberismo puro, che afferma che la società perfetta è quella che crea mercati perfetti in tutte le sfere della vita, riducendo lo Stato al ruolo minimo di garante; 2) il neoliberismo critico, che riconosce al mercato i limiti che abbiamo detto nella gestione dei beni pubblici e che non accetta la sua intromissione in tutte le sfere della vita, pur riconoscendo la sua efficienza nella produzione e la sua capacità di innovazione (in questa varietà ci sono anche i socialdemocratici); 3) il neoliberismo reale, che è un insieme di dichiarazioni propagandistiche e di policies governative proposte dalle grandi imprese in nome del libero mercato, ma che di fatto rafforzano un sistema di concorrenza imperfetta sotto il dominio di trust e di oligopoli, basato su protezioni politiche; esso sta compromettendo la democrazia liberale trasformandola in plutocrazia (pp. 27-28).

 

L’inadeguatezza del mercato e le sue esternalità negative

Sviluppando la critica socialdemocratica, Crouch dedica due capitoli (il II e il III) alla inadeguatezza del mercato per una serie di compiti sociali e alle sue ricadute extraeconomiche negative. Nelle attuali condizioni, la concorrenza generalmente non può che essere imperfetta, data la concentrazione dei capitali; le informazioni del consumatore non possono che essere insufficienti, in particolare in campo finanziario (come di recente ha mostrato Stieglitz); infine i beni pubblici per il neoliberismo sono un problema anche concettuale: “in una pura economia di mercato, i beni che il mercato non può fornire semplicemente non vengono forniti: tutto ciò che possiede le caratteristiche di bene pubblico pertanto non esiste”, e quindi non è tutelato. Nel mercato reale, invece, per esempio un bene pubblico come le onde radio è stato trasformato in merce dallo Stato e venduto, e si è creato l’artificioso mercato dei venditori e degli acquirenti di spazi pubblicitari, in cui il pubblico degli utenti non gioca alcun ruolo (pp. 36-37 e 53).

Le esternalità negative sono numerose, ma è quella ambientale che assume le maggiori caratteristiche d’urgenza: il problema globale del cambiamento climatico è più volte ricordato con grande preoccupazione da Crouch, che non trascura di mettere in luce i tentativi di depistaggio scientifico e di rimozione mediatica di esso ad opera delle multinazionali interessate. Ma non sono dimenticate nemmeno le esternalità sociali, né quelle urbanistiche, e neppure quelle legate alle condizioni di lavoro, ecc.

Crouch afferma giustamente che il neoliberismo reale confonde volentieri la privatizzazione con la mercatizzazione, e la concorrenza perfetta con gare d’appalto alle quali possono partecipare di fatto solo un numero molto limitato di mega-aziende. Queste riflessioni fanno venire in mente le vecchie critiche di Hirschman alla pretesa superiorità del mercato in qualunque ambito– sviluppate allora in un contesto non ancora egemonizzato dall’ideologia mercatistica.

Ma la critica più forte al neoliberismo reale si trova nel cap. VII. Qui Crouch elenca le ragioni per cui le grandi banche e i grandi operatori finanziari si oppongono a una vera ristrutturazione dei mercati finanziari anche dopo la crisi del 2008: 1) le banche hanno imparato da questa esperienza che i governi le salveranno dal fallimento coi soldi dei contribuenti, 2) i grandi operatori finanziari globali non sono legati ad alcun paese in particolare e sono indifferenti alla loro cattiva reputazione nell’opinione pubblica, 3) “le possibilità di realizzare profitti a breve termine sui mercati secondari sono così alte da costituire un fortissimo incentivo a disinteressarsi totalmente dell’andamento a lungo termine” (p. 166).

 

Una società egualitaria può essere efficiente sul mercato globale più di una ineguale

Questa è la tesi centrale di Crouch, che, come si è detto, si muove intenzionalmente dentro la cultura dominante. L’esempio da lui portato sono le società dove le politiche socialdemocratiche hanno avuto come conseguenza il tasso più basso di diseguaglianza globale, e in particolare quelle del nord Europa, dove a lungo ha trionfato la cultura socialdemocratica. Esse mostrano di saper reggere meglio di altre alla concorrenza globale, pur mantenendo un livello relativamente alto delle retribuzioni e del reddito dei ceti medi.

La politica economica proposta da Crouch non è l’intervento diretto dello Stato, ma la “ristrutturazione dei mercati” (una loro nuova regolamentazione), insieme al “welfare basato sugli investimenti sociali” (cfr. infra). Quest’ultimo è parte integrante del programma di una “socialdemocrazia assertiva”, che voglia adattare la sua azione al mercato globale e adattare il mercato globale alla nostra società. È invece destinata prima o poi a perdere la “socialdemocrazia difensiva”, che si limiti a difendere le posizioni raggiunte dai lavoratori, data l’impossibilità di un protezionismo nazionale che sia efficace sul medio-lungo periodo nel mercato globale.

Vediamo dunque le policies della socialdemocrazia assertiva.

1) Estensione del mercato del lavoro. L’idea di fondo, supportata da dati empirici, è che occupazione crei altra occupazione. L’ampliamento della percentuale di donne lavoratrici per esempio fa aumentare il numero degli addetti ai servizi per l’infanzia e la famiglia. Così per Crouch in certe condizioni anche l’immigrazione o un certo innalzamento dell’età della pensione possono avere un effetto positivo.

2) “Flessicurezza” e pensioni contributive. L’esempio più significativo è la Danimarca. È concessa alle aziende un’ampia facoltà di assumere e licenziare, ma la fiscalità pubblica si accolla l’onere di un elevato livello di sussidi di disoccupazione e un vasto programma di formazione degli adulti. Crouch sostiene che il rischio per la salute e la vecchiaia dei lavoratori deve essere sostenuto dalla collettività, ma che le pensioni debbano essere su base contributiva.

3) “Welfare basato sugli investimenti sociali”. Gli investimenti sociali sono quelli che riguardano la riproduzione e il miglioramento della forza lavoro e la produttività del lavoro sociale. La politica per la famiglia, la cura della salute, la pubblica istruzione, la formazione degli adulti, la ricerca di base svolta nelle università e nei centri di ricerca pubblici (visto che ai privati interessano solo le ricadute sul breve termine), le infrastrutture della produzione sono altrettanti campi di investimento che dovrebbero garantire la qualità del lavoro e la competitività a livello globale di una società avanzata, rendendola appetibile per i capitali privati.

4) Normativa a favore dei sindacati e di accettabili condizioni di lavoro. I socialdemocratici devono allearsi con sindacati che si sentano responsabili della competitività nazionale sul mercato globale, ai quali deve essere garantita una normativa che permetta loro una adeguata presenza nel modo del lavoro e una adeguata rappresentanza.

 

La socialdemocrazia deve operare unitariamente a livello europeo

Queste politiche della socialdemocrazia assertiva non sono suggerimenti solo per i governi socialdemocratici nazionali, ma presuppongono un’azione unitaria a livello europeo (e, come vedremo, un ampio sistema di alleanze politiche e sociali). Da un lato, solo con una politica economica e sociale unitaria l’Europa può far fronte alla globalizzazione. Dall’altro tale politica è necessaria contro il “potere di rete” degli Stati Uniti. Questi ultimi hanno un evidente vantaggio nella competizione globale che deriva loro 1) dal dollaro come moneta di scambio mondiale, 2) dal potere militare, 3) dal fatto che l’inglese è la lingua mondiale, 4) dalla forza della loro industria culturale, 5) dal fatto che “le grandi imprese al centro del settore finanziario degli Stati Uniti fissano le norme in base alle quali i sistemi contabili del mondo devono funzionare. Le tre agenzie di rating di New York si sono trasformate in una potente forma privata di controllo dei governi e applicano criteri definiti in base alle prospettive americane”. La crisi dei mercati finanziari del 2008 era legata proprio al dominio delle loro regole (pp. 142-144).

La ripresa americana successiva si spiega in gran parte con questi vantaggi competitivi extraeconomici degli USA. Le politiche economiche e sociali di questo paese sono dominate in maniera forte dalle imposizioni o dai veti delle grandi multinazionali, che, anche per la netta tendenza plutocratica della democrazia americana (e quindi dei membri del parlamento), hanno svuotato il programma sociale di Obama. Perciò “gli Stati Uniti saranno sempre all’avanguardia nelle manovre tese ad ostacolare la regolamentazione dell’attività bancaria irresponsabile o la salvaguardia del pianeta contro i disastri ambientali…” (p. 148). L’Europa quindi deve cercare di sviluppare reti alternative e la socialdemocrazia europea, poi, ha bisogno di una “regolamentazione transnazionale delle condizioni di lavoro”, che si potrebbe ottenere imponendo ai membri del WTO le norme sul lavoro dell’ILO (p. 192). In genere tutte le grandi organizzazione sovranazionali (WTO, Banca Mondiale, FMI) vanno riformate in modo che non riflettano solo gli interessi delle grandi imprese (p. 138). Per questo la socialdemocrazia deve “superare lo Stato nazionale” e puntare sul potenziamento della UE, e in particolare del potere popolare dell’Europarlamento, che dovrebbe poter nominare da solo la Commissione Europea, senza l’intervento dei governi nazionali (pp. 209-210).

 

Il partito della socialdemocrazia assertiva

Crouch tenta di indicare le caratteristiche politiche che un partito socialdemocratico europeo dovrebbe avere per poter realizzare il programma sopra delineato. Esso dovrebbe avere un’alleanza organica coi partiti verdi, che sono sensibili alle esternalità negative del neoliberismo senza essere legati al vecchio socialismo sterilmente antiliberista, e dovrebbe essere aperto ai movimenti della società civile e ai comitati dei cittadini attivi. Poiché l’intreccio politica-affari ha effetti corruttivi sistematici sul mondo politico (e anche sugli stessi partiti socialdemocratici), per rendere indipendente la politica da quell’intreccio è necessario fare appello a forze veramente indipendenti (pp. 201-202). Questo sembra un modo di superare lo stallo della “controdemocrazia” di cui parla Rosanvallon. Secondo quest’ultimo la necessità odierna di un controllo dei cittadini sugli organi formali della democrazia porta ad una conflittualità permanente. Purtroppo Crouch non lo cita, e soprattutto non spiega come partiti professionalizzati, movimenti antileaderistici e comitati di cittadini possano interagire positivamente. Si potrebbe ipotizzare che sia necessaria la formazione di una “coalizione sociale” per arrivare in un secondo momento a una coalizione politica, come propone Landini.

Qualche cenno in questa direzione c’è anche in Crouch, che tra l’altro ritiene fondamentale l’alleanza tra i socialdemocratici e i sindacati. Questi ultimi devono aprirsi ai problemi delle giovani generazioni e dei lavoratori pseudo-autonomi” (le partite Iva), che lavorano e vivono fuori dalla cornice della grande fabbrica. Per fare questo si deve tornare a reclutare gli iscritti nei quartieri e nelle comunità, raggiungendoli eventualmente attraverso i social media. Si devono sviluppare anche interventi nel mondo comunitario, come i patronati o i nidi d’infanzia (pp. 131-133). Ma questa coalizione sociale deve essere ricomposta politicamente: “la socialdemocrazia” deve “porsi al centro di una famiglia allargata di campagne e di movimenti spesso indisciplinati e disobbedienti, ma creativi ed onesti” (p. 198).

 

L’egemonia culturale neoliberale: innovazione, velocità, crescita

Al centro della strategia di Crouch c’è il realistico riconoscimento dei mercati globali dominati dalle grandi imprese come necessario ambiente economico delle politiche sociali; egli riconosce anche la “egemonia culturale” del neoliberismo non solo sui politici ma anche sui ceti medi, sui ceti subalterni, sulle donne in cerca di emancipazione e sui giovani in cerca di un lavoro autonomo, un’egemonia costruita addirittura a partire dagli anni settanta-ottanta (pp. 211-212). La sua prima mossa consiste nel prendere sul serio il neoliberismo puro e rivendicare la regolamentazione dei mercati per garantire maggiore concorrenza; la seconda consiste invece nel rivendicare il merito della socialdemocrazia, le cui politiche passate hanno permesso lo sviluppo di una pluralità di istituzioni e perfino di una pluralità di forme di produzione capitalistica (mutualismo, cooperativismo, imprese finanziate dalle casse di risparmio tradizionali, ecc. – pp. 162-164), mentre il neoliberalismo globalizzato come uno schiacciasassi sottomette ogni sfera del mondo della vita all’unico “modello capitalistico della massimizzazione dei valori azionari”.

Tuttavia Crouch accetta un po’ troppo affrettatamente come ovvi i criteri mercatistici dell’efficacia e dell’innovazione e la logica della velocità e della crescita (che, en passant, sono al centro del pensiero di Renzi). L’innovazione tecnologica e la velocità del cambiamento sia tecnologico che sociale hanno creato un gap tra le generazioni e tra diversi strati della forza lavoro. Se hanno aumentato la competizione e il rischio anche all’interno delle élite, queste ultime nel loro complesso sono state capaci di cadere in piedi, e le mitiche start up dell’elettronica e del software, che hanno sfidato tutte le posizioni acquisite, sono presto rientrate nel solco tradizionale dell’oligopolio e del trust. Esse inoltre accumulano conoscenze strategiche e big data sulla vita dei cittadini, aumentando costantemente il loro potere sociale a svantaggio di questo ultimi. L’innovazione capitalistica, lo sviluppo produttivo e la crescita tecnologica per una lunga fase storica erano state (anche) al servizio del progetto moderno d’emancipazione dell’uomo comune, liberandolo dall’ignoranza che lo rendeva suddito, ma oggi spessissimo sono usate per il rafforzamento dei poteri delle élite (e su questo c’è un filone critico da Wright Mills a Stefano Rodotà che Crouch sembra ignorare). Non è facile dire come si possa limitare questo gap senza rischiare di ricadere in un impotente anti-tecnologismo. Tuttavia la premessa necessaria è almeno quella di prendere atto che la cultura dominante coltiva una concezione mitica e ideologico-propagandistica dell’innovazione tecnologica e dello sviluppo.

Egualmente l’autore, benché consideri primario il problema del cambio climatico, non affronta la tematica della crescita sostenibile / decrescita. Peraltro nota che l’accelerazione economica e le bolle speculative hanno promosso artificialmente la crescita dei consumi grazie al debito privato e afferma che oggi è necessario “riportare la spesa dei consumatori nei paesi occidentali al livello al quale si troverebbe se fosse stata alimentata dalla sola crescita del reddito, senza essere gonfiata da un debito insostenibile” (p. 81). Non mette in luce però come la concezione ideologica e mitica dell’innovazione e dello sviluppo accelerato, così come l’idea del progresso in termini di aumento dei valori azionari e del PIL, siano state usate per giustificare l’accelerazione fuori controllo delle bolle speculative e del capitale finanziario. L’insostenibilità economica e l’insostenibilità ecologica hanno entrambe la loro origine nella fiducia cieca nei meccanismi automatici della massimizzazione illimitata del valore.

In effetti Crouch, che fa ampi riferimenti a Polanyi (pp. 56, 58, 66), ne tralascia gli aspetti più radicali. Quest’ultimo, diversamente da Marx, non riteneva che la storia avrebbe cancellato ogni forma di capitalismo, ma semplicemente che il mercato capitalistico basato sulla concorrenza illimitata di tre risorse speciali – il lavoro, la terra e il credito – porti necessariamente a catastrofi sociali (e fin qui Crouch in sostanza lo segue). Ma Polanyi fa risalire lo sviluppo del totalitarismo nel secolo XX° alla progressiva erosione dei legami sociali provocata dall’economia liberista, e infine all’ultima ondata liberista seguita alla prima guerra mondiale, nonché ai suoi catastrofici contraccolpi economici in particolare in Germania. In tal modo il liberismo appare come una variante perversa del progetto moderno, la quale promette l’emancipazione attraverso lo sviluppo, ma produce diseguaglianza e miseria, e le élite che ne sono portatrici si rivelano insaziabili accumulatrici di potere economico, incuranti degli effetti sociali e politici del loro operato.

Questa concezione, aggiornata all’oggi, dovrebbe far riflettere su un nuovo possibile pericolo totalitario. Crouch in effetti nota che le elite di destra oggi non esitano a impiegare politicamente l’estrema destra xenofoba e razzista. Ma non analizza la loro anche più preoccupante strategia di difesa della nostra filiera petrolifera: Arabia Saudita, Qatar, Israele, che hanno finanziato il terrorismo islamista jihadista, sono in prima linea sul fronte dell’approvvigionamento petrolifero occidentale, e le energie che si potrebbero spendere nella ricerca di energie sostenibili sono impiegate in operazioni militari, che stanno ora provocando una vera e propria reazione totalitaria da parte dei nuovi movimenti sorti nel Vicino Oriente e anche in gruppi di giovani cresciuti nelle nostre periferie metropolitane.

Queste precisazioni, beninteso, non hanno il fine di respingere il progetto di Crouch, ma di ricordare che la battaglia contro l’egemonia culturale neoliberista va combattuta con più decisione e senza sottovalutazioni.

 

“Un programma realizzabile?”

Luciano Gallino, parlando delle urgenti riforme delle regole del “finanzcapitalismo”, le considera “forse impossibili, ma necessarie”. Crouch, parlando delle forze oggi capaci di mobilitarsi contro il neoliberismo, evoca la cavalleria polacca che affrontava i carri armati di Hitler. Peraltro osserva che il momento è favorevole, dato che il movimento di Occupy Wall Street ha mostrato la globale sfiducia della maggior parte dell’opinione pubblica verso il sistema del “neoliberismo reale”, e si richiama al gramsciano ottimismo della volontà per invitare le forze della socialdemocrazia assertiva ad un’iniziativa decisa (beninteso, senza aspettarsi l’adesione dell’ala blairiana – e di Renzi nemmeno parla). Purtroppo manca un’analisi puntuale delle forze realmente disponibili, e il programma di Crouch è di fatto una sorta di Manifesto del Partito Socialdemocratico che – per adesso – si aggira per l’Europa come uno spettro.