Né pubblico, né privato: il nodo delle regole – Sandro Baraggioli

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Né pubblico, né privato: il nodo delle regole

di Sandro Baraggioli

 

L’ondivago e incostante processo di liberalizzazione dei servizi pubblici locali ha prodotto dal 1990 in poi risultati approssimativi sia rispetto alla modifica degli assetti proprietari delle imprese, che restano saldamente in mano alle amministrazioni pubbliche locali, sia sull’emergere di forme di concorrenza e competizione tra imprese: le gare per i servizi hanno, infatti, rappresentato in questi anni un fenomeno ”di nicchia” rispetto al largo sfruttamento dei meccanismi di proroga allo status quo previsti dalle varie normative.

All’intero di questo scenario è maturata una forte sensibilità e attenzione nei confronti dei processi di “liberalizzazione” che in ambito scientifico si è manifestata attraverso un interessante e approfondito dibattito interdisciplinare e un numero crescente di pubblicazioni; ciononostante solo una piccola parte di questa conoscenza è riuscita ad influenzare il dibattito politico e dunque il discorso pubblico. Periodicamente, infatti, si assiste al riemergere di una poderosa retorica liberista (che raccoglie consensi trasversali rispetto agli orientamenti politici) indirizzata a denunciare le inefficienze, gli sprechi e gli aspetti collusivi del controllo pubblico sulle società che erogano servizi pubblici locali. Da qualche anno a questa parte le utilities, in quanto partecipate per la stragrande maggioranza da azionisti pubblici, si scoprono essere il baluardo dello statalismo più bieco, il riparo della rendita dall’intervento salvifico del mercato, un problema da sanare per restituire al sistema produttivo nazionale servizi più efficienti e soprattutto meno costosi. Di recente la polemica è stata rinfocolata dai risultati dell’indagine annuale di Confartigianato sulla spesa per servizi pubblici in Italia. Il Rapporto ha evidenziato ancora una volta il persistere di grandi differenze di costo tra i servizi pagati dalle famiglie di Milano e quelle di Cagliari, rispettivamente in testa e in coda alla classifica delle città in cui i servizi costano meno. Il divario è normalmente spiegato seguendo la logica della rendita pubblica, dell’inefficienza della regolazione pubblica.

Questa posizione, non priva di fondamento, esprime tuttavia un punto di vista parziale sulla condizione dei servizi pubblici locali in Italia, e un approccio che finisce necessariamente per stereotipare una realtà estremamente eterogenea all’interno della quale convivono situazioni virtuose e casi di profondo dissesto certificato e reiterato negli anni. Uno sguardo più attento al panorama delle imprese ex-municipalizzate ci spinge a tenere in maggiore considerazione le caratteristiche industriali dei servizi pubblici che stiamo esaminando. La natura dei servizi pubblici è plurale, diversi sono i servizi offerti ai cittadini, diverse le normative che ne regolano la produzione e distribuzione, differenti ancora una volta i vincoli tecnologici imposti dal servizio.

La retorica del discorso pubblico ha pervaso, in ogni caso, le scelte che hanno determinato l’ultima modifica normativa in materia di liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Andando ben al di là delle richieste dell’Unione Europea, lo Stato italiano ha imposto la cessazione degli affidamenti entro la fine del 2011, concedendo in prima istanza scarsissime possibilità di derogare alla necessità di ricorrere ad una gara ad evidenza pubblica. Generalmente, la Legge Ronchi stabilisce la cessazione degli affidamenti per qualunque società assegnataria di una concessione pubblica conseguita al di fuori di una procedura di gara a prescindere dalla qualità del servizio che eroga, alla quantità di investimenti che ha prodotto, alle prospettive di solidità e di affidabilità che offre. Nonostante l’approvazione dei decreti attuativi al 23bis abbia tentato di ammorbidire questa posizione -ci torneremo in chiusura – la gara si pone come riferimento di metodo e di merito per valutare le migliori offerte presenti sul mercato.

La straordinaria determinazione del nuovo impianto normativo, diretta ad eliminare le numerose scappatoie che negli anni hanno consentito la sopravvivenza della maggior parte degli affidamenti in essere, si concentra in primis sulla pars destruens dell’attuale sistema di affidamenti, concedendo molto poco o quasi nulla in merito alla ricostruzione dell’architettura di governo dei settori di servizio pubblico: dalla nascita di authority settoriali preposte al controllo del mercato, all’attribuzione dei poteri di regolazione su area vasta (in precedenza in capo alle Aato).

Le reazioni di forte opposizione a questo ennesimo intervento normativo, ivi compresa l’importante mobilitazione in favore dell’acqua pubblica, ripropongono l’antico principio della spinta archimedea. La Legge Ronchi, imponendo un termine unico alla cessazione di tutti gli affidamenti diretti in essere, ha finito per riprodurre la contrapposizione ideologica tra “mercato/efficienza” e “gestione pubblica/rendita”, generando una reazione sociale di rigetto che sfocerà, tra le altre cose, nel prossimo referendum abrogativo sia della stessa Ronchi, sia di alcune delle ultime determinazioni legislative in materia di liberalizzazione dei mercati di servizio pubblico. È necessario uscire da questo schema ripartendo da una diversa concezione del ruolo che le utilities locale giocano per lo sviluppo del territorio e del ruolo che il comune interpreta sia in qualità di azionista che in qualità di regolatore locale.

Una recente indagine promossa da Torino Nord Ovest si è proposta di analizzare le ricadute economiche prodotte dai Gruppi industriali partecipati (in maniera esclusiva o co-partecipati) dal Comune di Torino: SMAT, AMIAT, GTT E IRIDE. Lo studio presenta i percorsi strategici intrapresi dalle aziende in direzione di una sempre maggior capacità competitiva, evidenziando gli interventi sull’organizzazione interna e sul miglioramento dei processi produttivi (Amiat), gli investimenti per accrescere le performance industriali (Gtt), la ricerca di nuovi mercati (Smat) e la costruzione di nuovi aggregati industriali di livello nazionale in grado d competere sul mercato nazionale ed internazionale (Iren, ex-Iride).

I quattro Gruppi industriali torinesi mostrano una forte propensione all’investimento sui mercati extra-locali: Iren fonda solo una parte marginale del proprio fatturato su servizi diretti al Comune di Torino, le scelte strategiche del Gruppo sono chiaramente indirizzate allo sviluppo di nuovi mercati, alla ricerca di economie di scala e di scopo per ridurre i costi di approvvigionamento energetico e avviare forme di integrazione tra i diversi business di servizio pubblico. Pezzi importanti del panorama industriale delle utilities torinesi si stanno muovendo sul mercato: Gtt ha stretto accordi con gruppi privati e pubblici di trasporto locale e gestione parcheggi, partecipando al capitale di imprese operanti in territorio piemontese e ligure. Smat e Iren Acqua e Gas hanno avviato una importante collaborazione controllando congiuntamente la Società Acque Potabili (SAP) che le ha portate ad operare in tutte le Ato piemontesi e in diverse regioni italiane. Il Gruppo Smat si è distinto per un rapido processo di sviluppo che, in meno di dieci anni, l’ha trasformato da azienda speciale dell’area metropolitana torinese in un aggregato che attraverso accordi e alleanze è presente in diverse regioni italiane.

Sul fronte internazionale si evidenziano tentativi di esportazione di competenze su nuovi mercati. In partnership con altre imprese, Smat e Amiat hanno vinto gare per la progettazione, costruzione e gestione di impianti: i depuratori di acque reflue in Messico, Bosnia, India e Cina nel caso dell’azienda idrica; gli impianti di smaltimento in Romania per l’impresa dei rifiuti. Gli investimenti del Gruppo Iren, infine, sono stati indirizzati a consolidare una posizione di rilievo nel settore dell’upstream energetico. A Livorno e Gioia Tauro sono in costruzione due rigassificatori (operativi nel 2012) che amplieranno la fornitura di gas naturale, riducendo i costi generali sulle materie prime, per l’alimentazione delle centrali elettriche e la distribuzione al cliente finale. La fusione tra Iride ed Enia consoliderà la posizione del nuovo Gruppo in Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna, e consentirà una profonda riorganizzazione delle partecipazioni finanziarie e industriali.

Sorprendono le performance economiche, reddituali ed operative dei quattro Gruppi industriali. Amiat, Gtt, Iride1 (oggi Iren) e Smat, raccolgono nel complesso quasi 10 mila dipendenti, e generano ricavi superiori ai 3 miliardi di euro (dati bilancio 2009). Per intendere la scala di queste imprese, basti considerare che l’aggregazione di questi quattro Gruppi controllati dal Comune è inferiore, per numero di dipendenti, solo a IntesaSanPaolo, Fiat Auto2 e Iveco. La forte valenza labour intensive di buona parte delle attività di servizio pubblico contribuisce a spiegare questi dati: quasi la metà degli addetti è assorbita da Gtt, per una spesa che si attesta intorno ai 250 milioni di euro. Ma il numero di dipendenti è soltanto il primo carattere di territorialità delle utilities.

Valore

produzione

(mln)

Dipendenti*

Utile

netto

(mln)

Mol

(mln)

Partecip.

diretta

(%)

Partecip.

indiretta

(%)

Gruppo Amiat

225,1

2.098

12,1

59,2 (+ 69%)

99

Gruppo Gtt

504,8

5.477

0,5

81,9 (+ 3,6%)

100

Gruppo Iride

2.195

1.350 (2.610)

109**

381 (+4,6%)

11,36 (Fct)

25,54***

Gruppo Smat

270,7

909 (1.000)

11

73 (+14,7%)

42,30

23,02

Totale

3.195

9.834 (11.185)

132,7

595,1

* Il primo valore è il numero di dipendenti che operano nel sistema metropolitano; il secondo è il totale del gruppo. Il totale dei dipendenti di Amiat e Gtt operano nell’interno dell’area metropolitana.

** Per Iride si è preso a riferimento l’utile netto adjusted, senza considerare la multa comminata dall’Ue nel 2009.

*** Partecipazione indiretta pro-quota attraverso FSU (Finanziaria Sviluppo Utilities) veicolo costituito pariteticamente dal Comune di Torino e dal Comune di Genova che detiene il 51,08% delle azioni di Iride. Partecipazione, fatturato e dipendenti (Dati bilancio 2009)

I dati evidenziano una grande capacità di produrre ricchezza, specie se valutata alla luce di una quadro economico stagnante: l’utile netto supera i 132 milioni (109 milioni dei quali sono stati prodotti da Iride), in crescita di circa 11 milioni rispetto al 2008 grazie soprattutto all’ottimo risultato di Amiat, a quota 12 milioni di euro (circa 10 volte superiore all’anno precedente), e alla sostanziale conferma dei dati Smat, Gtt e Iride.

Un secondo aspetto che emerge è rappresentato dalla capacità che i quattro Gruppi hanno di generare un volano economico sul territorio. La tabella sottostante presenta un resoconto sul valore della domanda generata dai diversi Gruppi considerando gli ordini emessi nel 2009, rispetto ai quali sono stati messi in evidenza l’importo totale e il valore percentuale di ordini a favore di imprese locali3; il numero totale delle imprese fornitrici e la percentuale relativa alla imprese locali. Nel complesso, nel 2009 Amiat, Gtt, Iride e Smat hanno emesso ordini di pagamento per una cifra complessiva prossima al miliardo di euro (976,9 milioni), al netto delle spese per investimento regolate da contratti pluriennali; oltre un terzo di queste risorse (322 milioni) è andato a imprese della provincia di Torino.

Valore totale

fornitura

Valore fornitura

in provincia di Torino (%)

Totale

fornitori

Fornitori

in provincia

di Torino

Gruppo Amiat

79,3

28,8 (36,3%)

2.500 c.a.

1.550 (62%)

Gruppo Gtt

224,2*

82,2 (37%)

1.900 c.a.

1.000 (53%)

Gruppo Iride

548,9 (1.717)**

135,6 (24,7%)

10.777

3.357 (32%)

Gruppo Smat

123,8

75,2 (61%)

1.130

720 (64%)

Totale

976,9

322 (33%)

> 16.000

>6.500 (40%)

*I dati si riferiscono agli ordini elettronici emessi nel corso dell’anno 2009. Se al totale si aggiungono le spese relative al conto economico 2009, che contemplano anche le uscite determinate da Contratti pluriennali, il totale supera i 380 milioni di euro. La differenza è principalmente dovuta ai contratti per costruzione della Linea della metropolitana, circa 80 milioni di euro in più sul totale degli investimenti).

** Calcolando le spese per materie prime, gas e combustibili utilizzati per alimentare gli impianti (1.168 milioni) il totale della fornitura del Gruppo Iride balza a 1.717 milioni di euro. Indotto (Su dati bilancio 2009)

Ragionando sule potenzialità del sistema torinese non c’è dubbio che nel tempo si siano sedimentati caratteri competitivi e specifici beni collettivi locali per la competitività, a partire dalla formazione per arrivare al patrimonio e all’intelligenza tecnico-progettuale della manifattura locale. In questo senso si può immaginare che esista un indotto reale, fatto di numeri, commesse e percentuali sul totale degli ordini emessi dalle varie utility, ma anche un indotto potenziale che richiama le capabilities del sistema locale, ovvero la disponibilità a mettere a frutto la conoscenza e ad investire in questi settori.

Non possiamo sottostimare il ruolo delle imprese come strumento in grado di sostenere processi di innovazione e sviluppo territoriale. Le scelte strategiche di investimento delle imprese hanno portato Torino ad essere la prima città in Italia per diffusione del servizio di teleriscaldamento: tra il 2011 e il 2012 l’accensione della nuova centrale termoelettrica Iren (500 milioni di euro di investimento) garantirà la copertura del servizio a oltre 550.000 abitanti, in altri termini oltre metà della Città ridurrà drasticamente le emissioni di CO2 in atmosfera. In parallelo, Torino è anche la prima metropoli in Italia per quantità di raccolta differenziata grazie all’implementazione della raccolta porta a porta. Non va dimenticato l’ingente investimento per la costruzione della prima Linea Metropolitana (22,5 milioni di passaggi registrati nel 2009) e le eccellenze registrate da Smat, ai vertici nazionali per la gestione del servizio idrico integrato.

I dati raccolti ci aiutano a leggere lo sviluppo delle utilities e il rapporto tra impresa, territorio e Comune sotto una nuova chiave di lettura. Le imprese analizzate rappresentano un elemento centrale del sistema economico locale, il numero di addetti occupati, gli utili prodotti, i dividendi distribuiti al Comune e l’indotto generato caratterizzano la situazione torinese come esempio virtuoso, inserendo di diritto la gestione delle utilities come uno dei più rilevanti strumenti di indirizzo dello sviluppo del territorio. In ogni caso la ormai prossima scadenza, ope legis, delle concessioni mette il Comune di fronte alla necessità di aprire la competizione tra le proprie imprese e nuovi competitor esterni interessati all’apertura dei mercati: da tempo sono iniziate le manovre che porteranno alla costruzione di gare per il servizio di trasporto pubblico locale e del servizio di igiene ambientale, alcuni dubbi ancora sussistono per quanto riguarda il servizio idrico integrato.

L’azionista è oggi costretto a soppesare il valore delle imprese e la loro stabilità e solidità perché è attraverso questa che passa una parte rilevante della futura competitività del territorio; la costruzione di nuove infrastrutture, il miglioramento della qualità della vita, e la capacità di produrre ricchezza a livello locale facendo crescere un indotto di servizio all’avanguardia sono le condizioni, viste in precedenza, che evidenziano il ruolo della utilities come fondamentale risorsa territoriale. La mancata riconferma degli affidamenti lascerebbe al Comune la sola capacità di controllo attraverso la regolazione: i nuovi affidatari, se selezionati attraverso una vera competizione in base ai requisiti di competitività, potrebbero garantire attraverso i contratti il raggiungimento di obiettivi operativi e standard qualitativi decisi dal Comune, mantenendo però una forte autonomia nella scelta dei mezzi e dei modi per onorare gli impegni.

Un secondo aspetto da tenere presente è relativo al rapporto finanziario tra Comune e impresa partecipata. Il Comune, in qualità di azionista di riferimento, trae generosi utili delle imprese (dividendi e incremento del valore della partecipazione) che direttamente incamera all’interno dei propri bilanci (Puddu, Mora 2010); in questo senso il dinamismo dimostrato dalle imprese torinesi, presenti in diversi mercati nazionali e internazionali segnala la volontà del management e il sostegno dell’azionista a ricercare la valorizzazione delle aziende, la ricerca di nuove opportunità di business. Le gare rappresentano, pertanto, un rischio patrimoniale e finanziario per il Comune, l’eventuale avvento di nuovi player priverebbe il Comune delle risorse garantite dalle sue controllate. Dall’altro lato, attraverso la competizione pubblica le amministrazioni locali si attendono di poter garantire gli stessi servizi con un grado di efficienza maggiore e dunque, con costi ridotti rispetto a quelli sostenuti dall’incumbent. Le forme di imprenditorialismo urbano si concretizzano così nelle scelte del Comune sulla gestione delle società partecipate, perché queste scelte rimandano ad orizzonti di policy che investono le ricadute occupazionali sul territorio, le forme del consenso, una porzione rilevante della possibilità di costruire forme di specializzazione produttiva locale. Tutte queste dimensioni investono il comportamento del Comune e ne determinano le scelte di investimento.

L’esempio torinese dimostra come sia necessario mitigare la contrapposizione ideologica tra controllo pubblico e controllo privato delle imprese, le scelte prodotte negli ultimi anni fanno sì che il Comune di Torino possa oggi sedersi, in qualità di primo azionista, nei cda dei Gruppi industriali più dinamici di tutto il sistema produttivo locale. Si tratta di imprese che hanno raggiunto performance che, in alcuni casi, le proiettano ai vertici dei rispettivi settori, dimostrando l’approssimazione con cui spesso ci si accosta al tema del ruolo degli enti pubblici all’interno di società che stanno sul mercato. In parallelo le politiche sulla distribuzione dei dividendi, il sostegno alle scelte di investimento su mercati extra-locali richiamano un atteggiamento imprenditoriale da parte della proprietà che, per certi versi, ne assimila il comportamento a quello di un qualsiasi attore privato.

Si prenda come esempio l’investimento che vede Smat e Iride (oggi Iren) gestire attraverso una comune controllata il servizio idrico integrato dell’Ato1 di Palermo: se accettassimo una contrapposizione di valore tra proprietà pubblica e proprietà privata delle imprese avremmo serie difficoltà ad interpretare la politica di espansione di imprese controllate dal Comune di Torino. Chi tutela gli interessi degli abitanti in Provincia di Palermo? Chi l’investimento che nasce dal patrimonio di società di proprietà dei cittadini torinesi? È dunque possibile che un’impresa pubblica si muova con le stesse logiche dell’attore privato?

Posta in questi termini la questione fatica a trovare una vera via d’uscita; la contrapposizione può essere risolta solo escludendo la logica del mercato dalla gestione dei servizi pubblici locali. Questa ipotesi, paradossale se rileggiamo gli ultimi vent’anni di deliberazioni sul tema della liberalizzazione dei mercati di servizio, deve fare i conti che la improrogabile necessità di investimento di cui soffrono le reti di servizio pubblico (un recente documento di Federutility valuta in oltre 50 miliardi di euro la necessità investimento per il solo servizio idrico integrato nei prossimi dieci anni). Il primo problema del sistema dei servizi pubblici locali non è rappresentato dalla contrapposizione tra proprietà pubblica e proprietà privata, quanto piuttosto dall’assoluta inadeguatezza di un sistema di regole e controlli capaci di vincolare tanto l’ipotetico azionista privato, quanto l’ente pubblico locale al rispetto di regole di efficienza. Due esempi recenti: Amia di Palermo, il cui debito è stato ripianato addirittura da un intervento finanziario dello Stato centrale, e Atac di Roma, al centro dello scandalo sulle assunzioni clientelari, dimostrano che non è sufficiente il richiamo alla responsabilità delle amministrazioni locali per tutelare i cittadini dall’esplosione di debiti che potranno in futuro ricadere su di loro né per assicurare il mantenimento di standard qualitativi di servizio.

Le società che erogano servizi pubblici possono essere, come visto, strumenti di sviluppo del territorio a disposizione dei Comuni. Gli investimenti generano indotto, aumentano la dotazione infrastrutturale e accrescono i beni collettivi territoriali; in parallelo, l’erogazione di servizi pubblici produce occupazione locale e redistribuisce ricchezza. Allo stesso modo le imprese possono servire a costruire forme di consenso locale, possono accrescere il loro peso sulle casse comunali senza contemporaneamente incrementare l’efficienza nell’erogazione dei servizi. L’assenza di autorità terze preposte a raccogliere informazioni sull’operato degli affidatari e deliberare secondo un sistema di premi e sanzioni che sappia vincolare l’agire di impresa ai contratti di servizio rappresenta, pertanto, un rischio sia in caso di affidamento ad imprese controllate dagli enti pubblici sia ad imprese private.

Le scelte normative di questi anni si sono contraddistinte per la volontà di promuovere forme di contabilità industriale in settori che, ai tempi delle municipalizzate, ne erano pressoché sprovvisti, e per la necessità di reperire risorse per gli investimenti che lo stato centrale ha iniziato a ridurre sin dagli anni ottanta. La strada intrapresa sin dal 1990 è stata quella di un progressivo intervento di capitali privati all’interno delle gestioni storicamente in capo alle amministrazioni pubbliche locali con l’obiettivo di raggiungere una piena competizione all’interno dei mercati di servizio pubblico locale e, insieme, un ruolo più forte dell’attore pubblico come regolatore del mercato e non più come proprietario delle imprese. L’accelerazione prodotta dalla Legge Ronchi e la stretta sulle gestioni in house ha, nei fatti, imposto un cambiamento senza tuttavia ricostruire i sistemi di governo dei mercati di servizio pubblico locale. La liberalizzazione è stata attuata al di fuori di un sistema di governo multi-livello, a partire dalle authority nazionali specifiche per ogni settore per arrivare fino all’attribuzione dei poteri di controllo sull’operato degli affidatari.

In conclusione preme sottolineare ancora due aspetti.

La recente approvazione dei decreti attuativi al 23bis racchiude al suo interno il tentativo di ammorbidire le imposizioni della Legge Ronchi: si offre ai Comuni la possibilità di mantenere gli affidamenti diretti nel servizio idrico in caso di documentata efficienza operativa delle imprese. Si tratta di un notevole passo avanti in direzione del riconoscimento delle gestioni più virtuose; tuttavia, i parametri di efficienza selezionati, invece che premiare i migliori, rischiano di produrre uno stallo alla dinamica degli investimenti in atto. I decreti consentono il mantenimento delle concessioni alle imprese che dimostrano di reinvestire l’ 80% degli utili ogni anno e che vendono i loro servizi a costi inferiori a quelli della madia nazionale. Il meccanismo di calcolo della tariffa idrica è legato alla spesa per investimenti: maggiori sono gli investimenti, più alta sarà la tariffa da pagare secondo un principio di proporzionalità. Pertanto, premiare le tariffe inferiori alla media nazionale significa penalizzare i territori che necessitano di robusti piani di miglioramento del patrimonio infrastrutturale.

In secondo luogo, attribuire tutti i poteri di controllo all’Antitrust è la dimostrazione di un’impostazione che tende a sottostimare la forte eterogeneità che distingue i diversi mercati di servizio pubblico locale. In assenza di un sistema di regole forti e di meccanismi di valutazione e monitoraggio costanti sull’operato delle imprese è futile contrapporre il valore assoluto della proprietà pubblica allo spauracchio rappresentato dalla speculazione degli investitori privati.