Torino è ancora Città laboratorio? – Gianni Garena e Maria Teresa Silvestrini

Print Friendly, PDF & Email

Torino è ancora Città laboratorio? L’esperienza del Laboratorio delle Politiche sociali.

di Gianni Garena e Maria Teresa Silvestrini

 

Torino è stata considerata in diversi campi, ed è ancora in parte considerata, Città laboratorio. Per decenni Torino è stata protagonista di pensiero ed azione su modelli innovativi di servizio sociale: la prevenzione e la partecipazione, il decentramento territoriale dei Servizi, l’integrazione a livello di Unità Locale dei Servizi, la lotta all’istituzionalizzazione attraverso la domiciliarità, l’educativa territoriale, i servizi di bassa soglia, i gruppi appartamento e le comunità alloggio, ecc. Poi il motore ha rallentato, l’impegno sulla ricerca e sul pensiero si è affievolito, l’azione è divenuta routinaria e vittima della burocrazia.

Il LaPS

Dal 2006 un folto gruppo di persone, impegnate a diverso titolo nel sociale, si riconosce in un organismo informale che, pur consapevole della difficoltà dell’impresa, si è proposto di fornire pensiero e analisi delle prassi del lavoro nel sociale, con particolare riguardo al sistema dei diritti come configurato dall’ordinamento vigente.

Il Laboratorio delle Politiche Sociali (LaPS) ha provato a rimettere in moto il processo di discussione politica sulla compatibilità dell’attuale organizzazione dei servizi sociali di Torino con i prioritari problemi sociali di Torino.

Questa discussione politica è diventata acuta e traumatica quando è entrata nel merito dei modelli di sviluppo, delle idee di futuro per la città, e delle scelte attuate negli ultimi anni. Scelte molto concentrate ad attrarre investimenti e favorire lo sviluppo economico, poco attente alle frammentazioni sociali che si andavano e vanno producendo, affidate alla (pia) illusione che il tessuto sociale si possa ricostruire con più mercato, con più mercato “sociale”.

Scelte mancanti nella volontà di sperimentarsi concretamente e continuativamente verso pratiche innovative di sviluppo locale integrato (economico e sociale) e di rigenerazione urbana basate su insiemi coordinati di politiche per integrare settori diversi (casa, lavoro, servizi, ecc.) in interventi multidimensionali che prevedessero il coinvolgimento attivo di tutti i soggetti implicati. Scelte mancanti nella promozione di una “governance democratica dello sviluppo” per dare voce anche i gruppi più deboli della cittadinanza, per un empowerment inteso come leva di sviluppo – diritto per tutti.

Discutendo di diritti alla sicurezza sociale, di diritti esigibili, provando a costruire una delibera quadro (la delibera che non c’è, che manca nell’ordinamento cittadino dal 1976), ci si è imbattuti in altre mancanze e punti crisi da parte degli addetti al lavoro sociale, in particolare di amministratori circoscrizionali, di rappresentanze delle forze di base, di agenzie formative, di operatori

Si direbbe che c’è una parte consistente di cittadinanza – e una parte consistente di operatori del sociale – disaffezionata, affranta e delusa, tanto da porsi ai margini o addirittura fuori dalle dinamiche di esercizio della cittadinanza attiva, praticamente inerte di fronte all’impoverimento che gradualmente viene a toccare persone e nuclei che si credevano sicuri. Deficit, in sostanza, di generatività, di desiderio di agire; anche nel sociale si produce l’esodo silente dalla cittadinanza, evocato da autorevoli studiosi della società italiana; in maniera marcata in Torino si va caratterizzando una dimensione sostanzialmente centripeta sui problemi individuali e sulla ricerca individuale di soluzioni individuali per affrontarli.

L’invisibilità del disagio sociale

L’invisibilità del disagio nella sfera pubblica e politica e la marginalità del discorso sociale sono evidenti nella “narrazione” dominante di Torino, quella della “crescita competitiva”, della “città olimpica”, dei grandi eventi, del turismo, della movida, ma anche delle grandi trasformazioni urbane, della conoscenza e della tecnologia. Questa narrazione non coincide e non comunica con quella che emerge dal nostro osservatorio e da alcuni studi recenti peraltro poco discussi pubblicamente1: una città di disoccupazione crescente, di fragilità e vulnerabilità, di nuove povertà, una città in cui il “welfare dei poveri” è sempre più schiacciato su emergenze a cui nè il welfare locale nè le associazioni della solidarietà organizzata riescono a fare fronte2. Quasi soltanto in occasione di emergenze, infatti, i media e la politica si soffermano sul disagio sociale e sulle sue forme, che si configura così come un disagio a visibilità intermittente3.

Alle diverse narrazioni di città, parallele e non comunicanti, delle quali una difficilmente rappresentata nel discorso pubblico e politico (eccettuata forse la dimensione della beneficenza e degli eventi ad essa legati), si può far risalire la delegittimazione di cui soffrono gli operatori sociali e l’invisibilità intermittente del disagio. Ma se l’aumento della povertà, dell’esclusione e della vulnerabilità è fenomeno nazionale e non solo torinese, nel ragionare su Torino è importante tener conto del fatto che, come è stato autorevolmente scritto, il modello di sviluppo urbano come crescita competitiva che ha dominato negli ultimi vent’anni ha generato una “modernizzazione anomica” che ha anteposto “la crescita economica alla qualità sociale e ambientale, una parte (territoriale e sociale) di città rispetto all’insieme, le politiche distributive rispetto a quelle ridistributive, le pressioni di gruppi ristretti di shareholder e di consorterie di insider rispetto alla partecipazione dei cittadini”4. In altri termini, eccetto il Progetto Periferie attivato dal 1998 al 2006 come “equivalente sociale” delle trasformazioni della città industriale in città residenziale e terziaria (sulla base del Piano Regolatore del 1995), il modello della crescita competitiva non ha previsto una corrispondente crescita di “infrastrutture sociali” finalizzate a rafforzare i contesti e a generare benessere e salute per le/i cittadine/i. E il sopraggiungere della crisi ha accentuato fragilità già ampiamente annunciate.

Dunque, forse è meglio parlare di “periferie umane”, di una sostanziale perifericità degli uomini, gli uni rispetto agli altri. Sono gli individui a diventare le “nuove periferie” della città contemporanea, i nuovi depositari del disagio, i portatori di nuove povertà. Se, a livello sociale, si generalizza la sensazione di una sostanziale inconsistenza di quella coesione sociale che nel passato aveva assicurato integrazione e identità, nella dimensione più intima sperimentiamo un impoverimento crescente delle nostre abilità relazionali e della nostra ricchezza interiore.

Scenari di fondo

Oggi la gravità della congiuntura che la città sta attraversando è evidente nelle sue ricadute sulle condizioni di vita delle famiglie. Tra gli altri è utile segnalare almeno due scenari inquietanti.

Il primo riguarda appunto la vulnerabilità sociale e i “nuovi poveri”. Il numero degli individui e dei nuclei in stato di bisogno che si rivolgono al circuito dell’assistenza è in sensibile aumento: le richieste di aiuto intercettate dai centri di ascolto negli ultimi 2 anni sono aumentate del 45,6%, i servizi sociali circoscrizionali segnalano un aumento consistente delle domande di sostegno economico, congiuntamente alle richieste di casa e lavoro. I “nuovi poveri” sono sempre maggiormente poveri inclusi, «persone che avevano intrapreso percorsi di crescita sociale (sottoscrizione di un mutuo, nascita di un figlio, eventi vitali che oggi sono spiazzanti), e che in esito alla crisi attraversano situazioni che dalla fragilità o vulnerabilità precipitano in breve tempo in grave disagio o povertà, condizioni che, se non fronteggiate per tempo e in modo adeguato, diventano subito gravi. Spesso questi “nuovi” poveri non sono neppure in grado di chiedere aiuto, sono vergognosi a raccontarsi ad un servizio, sono disorientati e non sanno districarsi nella rete dell’aiuto; così si genera in loro ansia, depressione, disperazione, perdita di speranza nel futuro, incapacità di mobilitare risorse progettuali. In questo scenario di “povertà invisibili”, in “area grigia”, i servizi e le agenzie socioassistenziali sono sostanzialmente impreparate, ma più in generale è impreparato il modello locale di welfare. Le risorse pubbliche, pur non ridotte in termini assoluti, sono “drammaticamente scarse” in termini relativi. E questo comporta una “nuova selettività nell’accesso all misure di sostegno (…): si sostengono meno persone, sporadicamente o per tempi troppo brevi, e con risorse ridotte”5.

Il secondo scenario riguarda l’estendersi di patologie cronico-degenerative di lungo decorso, cui consegue la necessità di redistribuzione del lavoro di cura fra generi e generazioni e fra interventi informali e servizi formali, che impone politiche di welfare locale capaci di sostenere la solidarietà intergenerazionale al di fuori dalle logiche dei mercati competitivi. Sono carenti i modi per fronteggiare il mutamento dei bisogni di cura all’interno delle famiglie, in particolare il ruolo peculiare che deve essere assegnato alla promozione delle relazioni primarie, ove il diritto alla salute e all’assistenza sociale riflette la centralità della persona. Il soddisfacimento di questo diritto non può avvenire considerando in modo anonimo i bisogni delle persone, prescindendo dalle loro preferenze e dalla trama delle relazioni, come avveniva nel vecchio modello di welfare. Ma non può neppure avvenire dimenticando che nelle famiglie il lavoro di cura rimane prevalentemente femminile e che si è andata creando una catena globale della cura, perché le badanti straniere che lasciano a casa i propri figli e genitori li affidano a loro volta ad altre donne.

Quali diritti?

In questi scenari oggi la nostra Città pare oggi in difficoltà ad attrarre cittadini in circuiti e spazi di rielaborazione pubblica del disagio che avanza, si impongono tendenze a sfangarsela da soli, come si sa, come si può, con gli amici e le famiglie che si hanno… tanto la politica è quello squallido spettacolo che vediamo in TV.

In questo contesto è evidente come il tentativo portato avanti dal LaPS sul terreno dei diritti esigibili può sembrare velleitario. Di quali diritti parliamo? Torino, oggi, si può permettere di parlare in assoluto diritti di cittadinanza, di diritti alla salute e all’assistenza sociale? Oppure si deve parlare, in termini generali, di tempo dei diritti negati, o almeno temporaneamente sospesi? Oppure dobbiamo ridiscutere, diritto per diritto, a partire dal basso, dai problemi dei singoli e delle comunità locali; a partire dalle risorse disponibili considerando il complessivo sistema di risorse e non solo quelle (tagliate) del Comune? Quale diritto a ottenere un sostegno al reddito (assistenza economica) in tempi decenti?

Quale diritto alla domiciliarità e ad una decente e personalizzata assistenza domiciliare, fuori dai burocratismi e dalle false-farse sul “libero compratore” di assistenza sociale? Quale diritto per l’accesso ai servizi primari (sanità, casa, lavoro, istruzione…) che devono garantire l’eguaglianza e la solidarietà prevista dalla Costituzione?

Questi interrogativi rilanciano domande ancora più complesse legate alla dinamica diritto-modelli di sviluppo:

– i diritti sono solo quelli che si possono pagare?

– chi, quale istituzione-organizzazione, oggi si occupa veramente di tutelare i diritti di quelli che non hanno voce e rappresentanza? e con quale successo?

– in questo ambito, che ruolo intendono assumersi gli operatori delle professioni di aiuto?

Sono quesiti cruciali perché, come segnala la campagna nazionale “i diritti alzano la voce”6, in Europa è iniziato un processo di erosione dell’orizzonte universalistico dei diritti, sul modello egli Stati Uniti. Le classi dominanti, col pretesto di ridurre i costi e destinare le spese pubbliche solo ai ceti svantaggiati, condizionano servizi e prestazioni sociali ai livelli di reddito “e questo equivale a programmare la loro abolizione per tutti”7.

Con il LaPS si è cercato di considerare e rilanciare la sensibilizzazione sulla prospettiva del diritto esigibile di cittadinanza, puntando a svuotare di significato le politiche categoriali rivolte esclusivamente ai poveri: una volta che avremo concordemente definite le condizioni di vita che devono essere garantite a tutti, ci si potrà effettivamente muovere nell’ottica della promozione della cittadinanza e dell’integrazione. In tal modo il LaPS ha cercato di legittimare una cultura della cittadinanza “sociale”, di prendersi carico e cura di questi punti crisi, tentando di provocare dibattito, di non accettare il silenzio inquietante e l’esodo silente dalla cittadinanza, di immaginare la costruzione di motori di speranza di futuro.

Nodi tematici

In sintesi, si è lavorato sui seguenti aspetti.

– Torino che perde spazi per una sussidiarietà orizzontale compiuta ove istituzioni pubbliche e organizzazioni sociali possano condividere la responsabilità della tutela dei diritti. Infatti, i meccanismi di programmazione partecipata previsti dalla L.328/00 e dalla L.R.1/2004, ad esempio i Piani di Zona, in Torino sono rimasti in gran parte sulla carta, suscitando una delusione pari alle aspettative generate. Torino pare distratta da un pensiero interessato alla ridefinizione delle politiche sociali e, più in generale, di un welfare municipale capace di dare risposte a domande sociali di primaria importanza: la povertà in aumento, la non autosufficienza, la difficoltà a trovare una casa, la disoccupazione, la disperazione di molti.

– L’amarezza e il dolore per lo scarto che si è aperto tra i tempi del movimentismo e del protagonismo nel cambiamento e i tempi attuali di riflusso. Riflusso caratterizzato da una condizione di operatori “senza tempo”, che non sanno ricavarsi tempo ed una relativa autodisciplina – per pensare, riflettere e inventare -, dalla restrizione delle dimensioni del lavoro sociale al mero intervento sul caso/fascicolo (il rischio della chiusura nella “clinica”, il lavoro sul caso, il lavoro “ambulatoriale”, nell’iperspecializzazione), da grande difficoltà e impotenza (e oggi gli impotenti, i fragili, i mancanti sono emarginati, si devono vergognare perché sono un peso!). Alcuni operatori del sociale si sentono “i poveri operatori sociali”, impotenti persino a documentare i diritti negati, le ingiustizie, i ritardi, le crepe che ogni giorno si manifestano.

– Provvedimenti per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali a livello comunale e nella creazione di un efficace welfare municipale in grado di sostenere le persone vulnerate e “vulnerabili” e – contemporaneamente – rafforzare i contesti sociali, che rendono possibile o meno l’esercizio delle capacità degli individui.

– Proposte per l’articolazione territoriale del sistema cittadino di protezione sociale ove i diversi attori della sussidiarietà orizzontale possano costituire sistemi realmente integrati di decisione e azione.

– Proposte per la “corresponsabilità” verso i diritti, perseguita tramite risorse proporzionate alle prestazioni che si debbono erogare.

– Proposte per la costruzione di contesti di analisi dei problemi sociali, di discussione pubblica delle risposte possibili. In specifico, come inserire le tematiche della sicurezza sociale nel dibattito e nell’agenda politica della Città in modo da evitare ogni contrapposizione tra “welfare dei diritti” e “welfare delle responsabilità”. Infatti, i diritti e le (cor)responsabilità sociali, collettive, stanno o cadono insieme, sono i due cardini della Res-pubblica.

Prospettive future

Nel nostro dibattito è emerso come essenziale, per contrastare l’impotenza, esplorare queste tematiche in relazione ai possibili motori di speranza di futuro. Il LaPS ha voluto avviare un lavoro collettivo per comprendere chi oggi è in grado di leggere i cambiamenti nel sociale, quali esperienze di leadership, quali visioni si vanno sviluppando, chi è in grado di progettare nuove forme di lavoro sociale in grado di interagire con questo cambiamento. Insomma, una ricognizione su chi sta tentando di uscire dall’assedio e con quali prospettive e strategie. Questo lavoro ha focalizzato l’esigenza di riproporre valori, di superare le attuali gabbie concettuali e operative di un lavoro preconfezionato. Comunque vada, si dovrà procedere verso una ecologia dell’economia dei legami, visti come capitale sociale da scoprire, valorizzare, connettere. Si dovrà dimostrare che l’attuale organizzazione del lavoro è svantaggiosa, che un lavoro di comunità è vantaggioso socialmente ma anche “economicamente”. Si dovrà riscoprire il ruolo degli operatori sociali come promotori-valorizzatori-connettori di punti rete, generatori passioni positive in un “sociale” inteso come luogo della quotidianità e della responsabilità, luogo che richiede agli operatori di farsi soglia.

Su queste sollecitazioni il LaPS ha creato occasioni di dibattito e ne ha frequentate altre in diverse occasioni. Sono così “esplose” diverse questioni nodali che ci stanno attualmente appassionando. Tra queste ci pare assuma particolare rilevanza la rivisitazione di alcuni dei paradigmi fondanti le politiche sociali; pensiamo in particolare all’etica e alla disciplina nel sistema-organizzazione sociale, alla dinamica tra crisi e sicurezza-fiducia-speranza di futuro (e gestione delle emozioni che attraversano questo rapporto), al concetto di comunità partecipante, di comunità che vive e fa vivere la democrazia nei microprocessi locali quotidiani.

Per comprendere il funzionamento di questo sociale complesso è indispensabile un più diretto rapporto con il territorio, raccogliere storie locali e concrete sulla vita organizzativa e sottoporle ad un’interpretazione astratta e metaforica8. Ad esempio, dare dignità e rilevanza a quella sorta di dramma teatrale quotidiano che è la vita burocratica dei Servizi Sociali, a una descrizione interpretativa che possa spiegarne la natura spesso paradossale: pensiamo alle condizioni in cui si creano rigide routine allo scopo di ottenere il cambiamento, o alla condizione in cui si decentra allo scopo di controllare(!). Affrontando questi paradossi si può tentare di mettere in crisi l’esistente, di apportare correttivi costruiti in maniera partecipata, di favorire un cambiamento positivo e efficace.

Ci sembra che oggi l’unica dimensione possibile sia quella della sperimentazione continua, opzione che richiede tuttavia una lettura ininterrotta delle condizioni di contesto, una formazione permanente, un accompagnamento costante dei processi, una presenza assidua nei punti di snodo (un buon progetto è molto di più una buona idea !).

Pensiamo alla Comunità – nella concezione contraria a “proprio possesso”, “proprietà”, illustrata da Roberto Esposito come scenario “comunista” – possibile attraverso la costruzione partecipata di esperienze di condivione, di prossimità, di sollecitudine, di gratuità. Comunità come luogo fisico e mentale, che significa ripopolare il territorio, ricostruire la società, come rete di legami personali e di comunità.

Operazione certo difficile. Chi, oggi, è in grado di proporre un’idea sulla città? In un clima di desertificazione della carica ideale, sembrano mancare progettualità serie, capaci di scommettere su forme più elevate di convivenza umana, resistenziali rispetto a quei processi di frammentazione.

Operazione certo difficile, ma non impossibile!

 

Note

1. Caritas Diocesana di Torino, Barriera fragile, a cura di Tiziana Ciampolini, Edizioni Idos, Roma, 2007; Caritas Diocesana di Torino, In precario equilibrio. Vulnerabilità sociali e rischio povertà. Un’osservazione a partire dal Quartiere San Salvario di Torino, a cura dell’Osservatorio della povertà e delle risorse, Ega Editore, Torino, 2009; Commissione di indagine sull’esclusione sociale, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, novembre 2009.

2. In precario equilibrio cit., p. 169

3. Paradigmatica la cronaca locale del 20 dicembre 2010: mentre un articolo su Italia 150 magnifica il rilancio internazionale di Torino attraverso i consumi culturali e i grandi eventi e ricorda le circa 2000 persone che hanno partecipato ai focus group per la redazione del Piano Strategico, un altro articolo dedicato alla morte per freddo di un senza dimora nel pieno centro della città apre uno squarcio sul calvario quotidiano delle oltre 2000 persone che vivono tra strada e dormitorio.

4. S. Belligni, S. Ravazzi, R. Salerno, Regime urbano e coalizione di governo a Torno. Evidenze da una ricerca, Polis, p. 6.

5. In precario equilibrio, p.169

6. Universale e locale. Istituzioni e terzo settore insieme per un nuovo welfare,

7. S. Halimi, Contro l’equità, Le Monde Diplomatique/Il Manifesto, n. 12, dicembre 2010, p.1.

8. CZARNIAWSKA B., Narrare l’organizzazione. La costruzione dell’identità istituzionale, Torino, Einaudi, 2000