Partiti e democrazia: un nesso necessario?

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di Antonio Floridia

Sui partiti, e sulla loro “crisi”, si scrive e si dice molto, anche troppo: anzi, i discorsi ricorrenti sulla “crisi della democrazia” assumono molto spesso come presupposto, più o meno dichiarato, che tale crisi abbia il suo epicentro nell’eclisse dei partiti, nel venir meno del ruolo che essi hanno svolto nel corso del Novecento.

Certo, ogni tanto, qualcuno si azzarda a riprendere o parafrasare una classica affermazione dello scienziato politico americano Schattschneider, che risale al lontano 1942: “modern democracy is unthinkable save in terms of the parties”; ma altrettanto spesso ci si affretta ad aggiungere una postilla: certo, non si può immaginare che siano i modelli di partito del passato a rinascere o risorgere, bisogna pensare a qualcosa di nuovo e di diverso. Ma su come immaginare questo “nuovo” e questo “diverso”, le idee si rivelano alquanto vaghe e confuse. E intanto prevale la realtà dei partiti odierni: partiti, oramai, dalla forte dimensione leaderistica, sempre più privi di una reale membership diffusa (iscritti e militanti: parties without partisans, è il titolo di una raccolta di saggi di alcuni anni fa)[1], partiti che giocano i loro destini sul terreno del marketing elettorale, partiti ridotti a macchine elettorali, in funzione della conquista delle cariche pubbliche. E in Italia, poi, va da sé, abbiamo assistito ad una particolare degenerazione di queste fenomenologie: siamo stati il paese che ha visto affermarsi un inedito modello di partito-azienda, che ha visto e vede il proliferare di micro- e macro-partiti personali, e che sta sperimentando nella sua forma più pura un altro dei modelli che i politologi hanno escogitato, quello del partito in franchising.

Insomma, nelle migliore delle ipotesi, i partiti vengono visti come un “male necessario”, qualcosa di cui forse non si può fare a meno, ma su cui davvero è difficile puntare, se si vuole immaginare un qualche futuro per la democrazia: anzi, da più parti, lo sforzo è proprio quello di immaginare come si possa concepire una democrazia senza i partiti, o oltre i partiti.

Proprio nel momento in cui abbondano, e si rivelano di qualità piuttosto diseguale, i contributi della scienza politica sui partiti, e molto ampio e variegato si rivela il campo degli studi empirici sulla loro natura e sulle loro metamorfosi, con la proposta di una notevole varietà di modelli classificatori, proprio per questo, sembra giunto il momento in cui a prendere la parola sia anche la filosofia politica. Appare cioè necessario tornare a interrogarsi su una teoria normativa dei partiti: ovvero, proporre una riflessione sulle ragioni che rendono essenziale il ruolo dei partiti (e della partisanship) in una democrazia. Occorre cercare una risposta ad alcuni quesiti di fondo: come è possibile concepire il ruolo dei partiti nella nostra concezione della democrazia? e come dovremmo pensare tale ruolo? E come evitare una sterile giustapposizione tra “ideale” e “reale”, tra ciò che si pensa i partiti debbano essere e ciò che i partiti sono, o sono diventati?

Da questo punto di vista vanno segnalati alcuni recenti contributi che provengono dagli Stati Uniti, e che tentano (con successo) di tenere insieme l’analisi delle trasformazioni politiche in atto e la definizione dei principi che giustificano il ruolo dei partiti in una democrazia. Ad un tale compito aveva iniziato a lavorare, alcuni anni fa, una studiosa dell’Università di Princeton, Nancy L. Rosenblum, con un volume (On the side of Angels. An Appreciation of Parties and Partisanship, Princeton University Press, 2008), che si può considerare un’appassionata riproposizione di una “teoria dei partiti” e di un’etica della partisanship; e viene ora proseguito da un altro bel lavoro di Russell Muirhead (The Promise of Party in a Polarized Age, Harvard University Press, 2014): volumi la cui lettura si consiglia vivamente a tutti coloro che (e in Italia abbondano) scrollano le spalle con fastidio ogni qualvolta qualcuno si azzarda a difendere il ruolo e la funzione dei partiti. Sono testi che ci aiutano a uscire da un imbarazzante dilemma: considerare i partiti come sono oggi, o come sono diventati, l’unico e ineludibile orizzonte a cui adattarsi; o, al contrario, rifugiarsi in una nostalgica, e impotente, rievocazione di ciò che i partiti sono stati. L’alternativa, difficile ma forse l’unica praticabile, va cercata nell’individuazione, all’interno dei processi politici reali che investono i partiti, delle basi normative su cui far leva per affermare la possibilità di altri sviluppi, e le potenzialità reali di una democrazia che continui a considerare i partiti come una loro dimensione costitutiva. In questo senso, uscire dalle angustie del nostro orizzonte domestico è un esercizio salutare: giacché, a ben guardare, in giro per il mondo, i partiti non solo continuano ad esserci e a funzionare, più o meno efficacemente o più o meno circondati da consenso, ma ne nascono anche di nuovi, e con un certo successo, come da ultimo mostra il caso della Grecia.

Il volume di Muirhead costituisce appunto un ottimo esempio di questo atteggiamento teorico e politico, che cerca di tenere assieme l’analisi dell’evoluzione dei sistemi politici contemporanei (di quello americano, in particolare) e l’individuazione delle basi teoriche e normative che consentono di giustificare la tesi della “impensabilità” di una democrazia senza partiti. “Non abbiamo un vocabolario”, scrive Muirhead, “con cui comprendere e valutare la partisanship”, e a questo fine essenzialmente è dedicato il suo lavoro.

Il testo è diviso in due parti: nella prima, di carattere più teorico, si affronta il tema dello “spirito di partito”; nella seconda, questa nozione viene misurata nell’analisi delle istituzioni politiche americane. La prima parte si può riassumere in una tesi: benché la storia del pensiero politico e la teoria politica contemporanea si mostrino “ostili” ai partiti e alla partisanship, “la mia opinione è che ogni comunità politica è, in un qualche senso, una comunità partisan”. Troviamo qui una convincente difesa dello “spirito di partito”: lungi dall’essere un fattore da rimuovere o da esorcizzare, il party spirit “è di casa nella politica moderna”, non è un residuo del passato. Il fronte polemico che qui Muirhead apre è rivolto innanzi tutto contro tutte quelle visioni della politica e della democrazia che possono essere definite “razionalistiche”, ossia ispirate all’idea che una “buona” politica debba rifuggire dalla passionalità faziosa dell’“essere di parte” e che debba appellarsi alla “ragione” (o alla “ragionevolezza”). In particolare, nel cap. 4, Muirhead si dedica alla confutazione di una peculiare versione di questa idea “epistemica” della democrazia, quella propugnata da alcuni teorici della democrazia deliberativa: non possiamo qui trattare estesamente questo tema, ma il testo di Muirhead si rivela molto convincente, proprio perché “non butta via il bambino con l’acqua sporca”, ossia non identifica la “democrazia deliberativa” con un ideale di ragionevole imparzialità o come un processo finalizzato alla scoperta di una verità o di una soluzione “giusta”, ma come un ideale di democrazia in cui il confronto anche aspro tra idee e argomenti diversi e “di parte” è elemento costitutivo del processo che conduce ad una decisione politica: “if deliberative democracy cannot be partisan, then deliberative democracy cannot work”, aveva scritto l’autore in un saggio precedente e qui argomenta ora più diffusamente.[2]

Nelle sue considerazioni di carattere teorico, Muirhead si propone, da una parte, di sfuggire ad un approccio “olistico” (che, come ampiamente ricostruiva Rosenblum nel suo libro, è stato da sempre il presupposto teorico dell’antipartyism: l’idea, cioè, che esista un “bene comune” trascendente o oggettivo, che i partiti-fazione stravolgono e distruggono per il loro stesso essere intrinsecamente “divisivi”); e, dall’altra, ad un approccio meramente conflittualistico o agonistico, che riduce la competizione politica ad una sfida “a somma zero”, incapace di individuare un terreno condiviso su cui trovare possibili accordi o equilibri “a somma positiva”.

Punto di partenza è quello che possiamo definire il “dilemma del bene comune”: sin dai tempi di Platone, il “bene” di una comunità politica è identificato con l’idea che esso possa essere perseguito attraverso l’accordo e l’armonia tra le “parti”. Le “parti” sono, per definizione, il male che corrode l’unità e la salute dell’organismo sociale. Eppure, la storia ci mostra come la definizione stessa di un “bene comune” sia stata sempre oggetto di aspre dispute.

Per quanto rituali siano i riconoscimenti che vengono tributati ai partiti, la partisanship continua a destare sospetti diffusi: “essa appare a molti come una forma di distorsione o di condizionamento, o semplicemente come un pregiudizio che i migliori cittadini eviteranno. Essa è una scorciatoia mentale che prende il posto di un’adeguata attenzione alla politica, una forma divisiva di spirito di squadra che ci distoglie dal bene comune. L’indipendenza spesso sembra un atteggiamento politico più degno di ammirazione. Idealmente, i cittadini dovrebbero essere imparziali come giudici e obiettivi come degli scienziati.”

Da qui una tensione peculiare: “da una parte, i partiti e lo spirito di parte sono un cruciale elemento di un qualsiasi sistema democratico; dall’altro, i cittadini e gli stessi titolari di cariche pubbliche sembrano spesso migliori quando sono indipendenti e meno partigiani. C’è un divario tra l’importanza funzionale dei partiti nelle democrazie moderne e lo statuto etico della partisanship. Le qualità partigiane di cui un sistema politico sembra aver bisogno non sono qualità che noi possiamo facilmente ammirare”.

Per uscire da questo dilemma, Muirhead introduce, rispetto a Rosenblum, una più netta distinzione tra low e high partisanship. La difesa del ruolo dei partiti, dunque, non coincide, sempre e comunque, con una difesa dello “spirito di parte” e, soprattutto, con le forme identitarie e settarie che questo può assumere. “La questione dunque non è quella di come superare la partisanship o sfuggire da essa: piuttosto, è come trattarla e come convivere con essa”.

Lo “spirito di partito” può essere chiuso e intollerante, o aperto ai fatti e alle revisioni, tollerante nei confronti degli oppositori. Ma una sua componente essenziale è la lealtà, unitamente alla memoria e alla pazienza: “la lealtà è una qualità morale ambigua: può sembrare che ci renda ciechi di fronte ai fatti e ai giudizi critici nei confronti dei nostri amici e della nostra squadra. Ma la lealtà è un elemento necessario per un’efficace cittadinanza democratica; la lealtà che caratterizza lo spirito di partito nelle sue migliori espressioni è fondata sulla memoria e sulla pazienza. I partisans sono i custodi di una memoria condivisa: essi identificano certi eventi del passato […] come conquiste, e stanno insieme per proteggere queste conquiste”.

Essere “partigiani”, però, implica anche una disponibilità al compromesso: e non solo con i rivali, quanto con i propri stessi amici o compagni: “non si può stare in un gruppo senza in qualche modo dare una ‘spuntata’ alle nostre convinzioni”. Una delle virtù democratiche dei partisans va individuata “nella loro disponibilità ad essere parte di un gruppo che aspira, in linea di principio, ad essere abbastanza ampio da giustificare una legittima pretesa a governare”: lo spirito di compromesso necessario anche nella più accesa partisanship “implica una combinazione di high partisanship e di low partisanship, o una combinazione tra impegni mossi da principi e l’ambizione di potere”.

Da ciò una polarità tra due figure di “militanti”: quelli motivati da nobili convinzioni di principio, a cui di solito, però, mancano le capacità pragmatiche e retoriche necessarie ad allargare e acquisire consensi (quelli che si autodefiniscono come “coscienza critica del partito”, “perché non sono interessati agli incarichi, e non in ogni caso, se il vincere imponesse un qualche tipo di compromesso o concessione rispetto ai principi”); e quelli che possiamo invece definire “office seekers”, ossia “coloro che sono primariamente o esclusivamente interessati a vincere”. “Per questi, la politica è integralmente strategia”, e il valore dei principi è “strumentale”. Il dibattito interno ai partiti, di solito, riguarda i limiti entro cui è possibile conciliare fedeltà ai principi e adattamenti strategici. E in questo senso, la partisanship implica disponibilità al compromesso “interno”: “temperando le proprie convinzioni per adattarsi a quelle dei propri compagni, essi sono disponibili a partecipare ad un ‘processo’ con cui si crea un gruppo che sia abbastanza largo e stabile da possedere una legittimità democratica”.

Nella seconda parte del libro, Muirhead muove una preoccupazione diffusa oggi negli Stati Uniti: da un ventennio circa si assiste ad una polarizzazione ideologica, alimentata specialmente nel campo repubblicano, che mette seriamente a rischio un assetto istituzionale, come quello americano, che presuppone la disponibilità al compromesso tra le parti. Le tradizionali visioni del sistema politico statunitense, che vedevano un “consenso bipartisan” sui valori della democrazia, a partire dagli anni Novanta hanno ceduto il passo ad un conflitto politico molto aspro, privo di quel rispetto reciproco e di quella “moderazione” che aveva, in altre epoche, caratterizzato il modello americano di governo. Una vicenda che ha avuto il suo culmine con le elezioni presidenziali del 2000, sancite infine da una netta divisione (5 voti contro 4) della stessa Corte Suprema. Una low partisanship sembra ora dominare la scena pubblica: un “governo diviso”, dove sono sempre meno frequenti le maggioranze bipartisan e ricorrenti invece gli scontri paralizzanti, (come mostra ad esempio la vicenda della riforma sanitaria). E tutto un modello istituzionale sembra esposto allo stallo, se domina quello che due altri noti studiosi, Dennis Thompson e Amy Guttman, hanno definito come un “uncompromising mindset”, un atteggiamento ben poco propenso alla ricerca di un accordo tra le parti[3]. “Il governo”, scrive Muirhead, “è divenuto un teatro per intrattenere i credenti della propria parte più che una sede per la contrattazione, il negoziato, la deliberazione e il compromesso”.

Va rilevato, peraltro, come Muirhead sottolinei una certa “asimmetria” nella diffusione e nel prevalere della “partigianeria” nel sistema politico americano: sono i repubblicani ad alimentarla, giacché ritengono necessaria una maggiore animosità nel contrastare la “filosofia pubblica” liberal che giudicano egemone. Di contro, i democratici e i liberals in generale “sono riluttanti ad ammettere e a rendersi conto di vivere e lottare in un ‘contesto partigiano’”: “i liberals tendono a credere che le loro convinzioni non riflettano particolari gruppi sociali o parziali concezioni del bene: piuttosto, essi credono di essere semplicemente ragionevoli e razionali. Come effetto di tutto ciò, si aspettano che gli altri giungeranno alle loro stesse visioni”, semplicemente “attraverso nient’altro che il ragionare” in modo non prevenuto intorno ai “fatti”: “essi vedono i loro obiettivi come dati dal senso comune, e le loro preferenze politiche come supportate dalle scienze sociali… [Ma] sarebbero ben più efficaci se sapessero vedere se stessi come più partigiani, e come impegnati in una battaglia di parte”.

E qui la diagnosi sulla realtà americana si rivela molto suggestiva, non priva di insegnamenti anche per noi. Alle origini di questa dominante “dogmatic and uncompromising” partigianeria, paradossalmente ma non troppo, Muirhead individua proprio quelle tendenze e quelle riforme del sistema politico americano che, sin dai tempi dell’Età Progressiva, hanno mirato scientemente a indebolire i partiti: prima fra tutte, l’invenzione delle primarie. L’autore dedica un capitolo molto ricco e istruttivo alle più recenti discussioni in materia (da consigliare vivamente ai cantori nostrani di primarie “aperte” e sregolate), e in particolare alle discussioni alimentate dal tentativo di diffondere le forme nonpartisan di primarie. A questo dibattito ha posto un punto fermo una sentenza della Corte Suprema, con la quale la Corte ha dato ragione al partito democratico californiano, laddove questi si era opposto ad un’iniziativa legislativa mirante ad istituire, in modo vincolante, le cosiddette primarie blanket, ovvero quella formula estrema che annulla ogni possibile selezione e identificazione degli elettori (blanket: ovvero, un “lenzuolo”, quella scheda che l’elettore si ritrova e che vede affastellati candidati di tutti i tipi, privi di qualsiasi appartenenza partitica).

Insomma, annullare i confini organizzativi e ideali che distinguono una “parte” dalle altre, – mitizzare un ideale di cittadino “indipendente”, privo di appartenenze, libero di fluttuare (in apparenza) tra le più svariate opinioni, tutto ciò alla fine disgrega e destruttura un sistema politico, impedisce che le linee di frattura che dividono necessariamente una comunità politica, le visioni alternative del futuro di questa comunità politica, si costruiscano in modo coerente e produttivo, permettendo ai cittadini di orientarsi tra “filosofie pubbliche”, sistemi di idee e programmi politici alternativi. Distruggere e indebolire i partiti non apre la via ad un mitico “cittadino comune”, libero da passioni partigiane, ma ad una comunità politica fatta da individui atomizzati, privi di un qualsiasi tessuto connettivo.

Ed è forse qui che possiamo trovare le ragioni fondamentali che continuano a rendere essenziale la funzione di partiti che abbiano una propria identità di cultura politica (per quanto sottoposta a tensioni e cambiamenti), che custodiscano una propria memoria storica, che coltivino nei propri aderenti il senso di un’appartenenza collettiva: l’essere “parte”, tra altre “parti”, è l’unico modo possibile di “tenere insieme” una comunità politica. Fuori da ogni ideale organicistico, i partiti sono un’istituzione essenziale della democrazia proprio perché il loro essere “parziali” costruisce il terreno su cui edificare una sempre difficile coesistenza tra conflitto e cooperazione. Nel creare e alimentare divisioni – in questo stesso momento – i partiti creano lo spazio comune entro cui un ordine politico democratico, per quanto fragile, si rivela possibile.

I partiti sono stati, e possono essere, pienamente, attori che costruiscono una deliberazione pubblica e democratica, proprio in quanto propongono visioni alternative e concorrenti, partigiane, del “bene comune” o dell’“interesse generale”. I partiti articolano e strutturano le domande sociali, ma non riflettono passivamente dei cleavages sociali od economici esistenti: sono attori che creano linee di divisione intorno a visioni concorrenti del “bene comune”, e con ciò stesso, nel creare tali divisioni, permettono che la discussione pubblica si svolga in modo sistematico (non solo in vista delle scadenze elettorali), offrendo ai cittadini i termini attorno a cui “ragionare insieme” sui problemi e i conflitti della loro stessa convivenza, sulle diverse e possibili linee d’azione con cui costruire il futuro. I partiti sono “parte” di un tutto, ma nell’essere tali permettono che il “tutto” si tenga.

Dal libro di Muirhead emerge come tutto questo non sia un modello ideale di partito, destinato a scontrarsi con la durezza di altri fatti e di altre logiche: questo senso della partisanship è ben vivo nella democrazia americana (anche troppo, secondo Muirhead, negli ultimi tempi: occorre salvare gli spazi “non partigiani”, in particolare nella sfera esecutiva e amministrativa e in quella giudiziaria). E la dimensione della cultura politica, dell’“ideologia”, della memoria collettiva, è un fattore cruciale. “Sentirsi” democratico o repubblicano, negli USA (come lo era, nell’Italia della “prima Repubblica”, dirsi “democristiano” o “comunista”) continua ad essere il punto di condensazione di una serie di valori, principi, convinzioni etiche e morali (più o meno consapevoli, riflessive o coerenti) attraverso cui un individuo agisce e interagisce come attore di una comunità politica. Essere “democratico”, negli Usa, implica una memoria storica e un’identità di cultura politica: significa sentirsi legati alla stagione del New Deal e a quella della lotta per i diritti civili; sentirsi “repubblicano”, a sua volta, significa ancorarsi ad alcuni pilastri della tradizione americana e al profilo ideologico forgiato dalla stagione di Reagan (sintetizzato nella celebre affermazione: “government is not the solution to our problem. Government is the problem”).

Ebbene, qualcuno è in grado di spiegarci quale sia il profilo ideale, la “filosofia pubblica”, che ispira le forze politiche che si agitano sulla scena politica del nostro paese? E non sarà anche per questo – per aver distrutto scientemente l’esistenza di partiti degni di questo nome – che la democrazia italiana ci sembra oggi particolarmente fragile, esposta alle più improvvise e inquietanti folate di opinione?

 

[1] R.J. Dalton e P. Wattenberg (a cura di), Parties without Partisans, Oxford University Press, Oxford-New York 2000.

[2] R. Muirhead , Can Deliberative Democracy Be Partisan?, in «Critical Review», vol. 22, n.2, 2010, pp. 129-157.

[3] A. Gutmann e D. Thompson, The Spirit of Compromise: Why Governing Demands it and Campaigning Undermines it, Princeton University Press, Princeton 2012.