Il dissolvimento del welfare state – Fiorenzo Girotti

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Il dissolvimento del welfare state

di Fiorenzo Girotti

 

Quando nel 1989 cadeva il Muro, il nodo della ristrutturazione del welfare state era ormai in agenda nei paesi occidentali da non meno di una quindicina d’anni. Ed era anche diventato una questione capace di dividere profondamente gli schieramenti politici. Da una parte, v’era un impegno a ricostruire le fondamenta stesse del contratto sociale, dopo oltre un secolo di faticosa costruzione di sistemi di protezione variamente estesi, ancorché su basi strettamente nazionali. Dall’altra parte, l’idea di poter ridimensionare, quando non drasticamente abbattere, la spesa sociale, non solo – come dichiarato – per ragioni di sostenibilità finanziaria, ma anche per riaffermare  rapporti d’autorità in un implicito disegno di rimercificazione della forza lavoro.

Da quasi due decenni si era sviluppata una delegittimazione, dapprima strisciante e poi conclamata, delle logiche intrinseche della solidarietà organizzata. La spesa pubblica, più che mai in questo settore di policy, era accusata di produrre risposte inefficaci e inefficienti, con inevitabili effetti di disincentivo del lavoro, dell’iniziativa individuale, di autonome capacità di organizzazione della società civile. Sulla spinta dell’onda neoliberista, si alimentava un sentimento diffuso di egoismo sociale che si manifestava nella crescente indisponibilità dei ceti medi a pagare di più per prestazioni uguali, sino a minare le basi stesse del patto fiscale.

Questo pervasivo riorientamento, culturale e politico al tempo stesso, doveva influire, e non poco, sul modo in cui nei paesi dell’Europa centro-orientale, con il crollo dei regimi collettivisti, si provvide a smantellare i sistemi di protezione e sicurezza sociale che, con l’esaurirsi di ogni spinta ideale, a quei regimi avevano assicurato l’ultima, se non l’unica, base di legittimazione.

Sul punto si impone una più attenta riflessione. Pur nella diversità degli assetti nazionali – più o meno autoritari nei meccanismi di “concessione” e gestione di diritti esigibili, più o meno generosi nella erogazione delle prestazioni – un denominatore comune è in effetti da individuare nell’attitudine a realizzare un esiziale trade-off  tra libertà e sicurezza. La formula non era nuova. Sperimentata diffusamente anche dai regimi autoritari e totalitari di destra fin dagli anni venti e robustamente consolidata negli anni trenta, quella che nello scambio si imponeva era una logica di compensazione della perdita delle libertà e dei diritti politici in funzione della stabilizzazione sociale e del consenso. Ma, nel corso del tempo, l’affermazione e lo sviluppo dei diritti sociali aveva anche posto le premesse per un più forte radicamento: il diritto al lavoro e alla sicurezza sociale, assicurato in forme sostantive, era ormai entrato nella costituzione materiale e nella coscienza di vasti strati popolari, aveva costruito la consapevolezza di una positiva specificità nazionale, aveva creato su basi sociali – prima ancora che politiche – un solido senso di appartenenza. Una seconda caratteristica comune ai regimi di welfare dei paesi collettivisti era quella di insistere su società fortemente gerarchiche e stratificate con provvidenze mediamente egualitarie, non senza sensibili effetti di irrigidimento della struttura sociale. Su non pochi settori della nomenklatura e delle élites intellettuali, pur avvantaggiati da ulteriori benefit connessi al rango sociale, la cristallizzazione dei ruoli e delle posizioni sociali, imposta dai regimi autoritari, doveva sembrare tanto più intollerabile via via che si attenuavano l’isolamento culturale e le rigidità dei confini rispetto ai modelli occidentali. Contro ogni immagine di netta cesura, va ricordato che ben prima dell’’89 la crescente connessione tra le reti di comunicazione era diventata strumento di osmosi culturale, di assimilazione di nuovi modelli tesi a enfatizzare le ‘buone virtù’ della competizione individuale e delle logiche del mercato, di omologazione degli stili di vita nell’aspirazione a consumi sino ad allora inaccessibili, di allineamento progettuale su nuovi paradigmi tendenti a premiare l’imprenditorialità, il merito e il successo. Mentre le reti di protezione allargata, che dei sistemi collettivisti erano rimaste le strutture più qualificanti, diventavano bersaglio di un processo di delegittimazione tendenzialmente ancora più radicale di quello già innescato a occidente. E, proprio perché dei regimi del socialismo reale costituivano l’elemento identificante, erano destinate ad essere drasticamente abbattute senza particolare considerazione dei costi e delle conseguenze sociali di tali decisioni.

In un breve arco di tempo, come in un esperimento di laboratorio, i nuovi apprendisti stregoni delle liberalizzazioni e del ritorno al mercato dettero libero corso ai propri impulsi distruttivi. Il lavoro, l’assistenza sanitaria, le pensioni, la mobilità sociale attraverso l’istruzione da allora non erano più garantiti sulla base di un principio egualitario e universalistico. E al termine di un’infausta esperienza politica si ponevano le basi per un dramma sociale di inedite proporzioni: per la prima volta le giovani generazioni di quei paesi conoscevano patologie come la disoccupazione e la povertà di massa, la miseria e il degrado, anche morale, di intere categorie sociali. Quelle meno giovani e più esposte ai processi di destrutturazione vivevano una condizione di repentino declassamento e percepivano con angoscia il ritorno all’insicurezza in un assetto capitalistico sostanzialmente privo di protezioni sociali, nel quale anche le differenze di reddito erano destinate a crescere vertiginosamente. In alcuni paesi, come emblematicamente la Romania o la Bulgaria, si creavano le condizioni per migrazioni di massa, all’ovest, che avrebbero coinvolto quote cospicue della popolazione adulta; tanto da sollecitare – ovunque si accogliessero delocalizzazioni in assenza, o nel mancato rispetto, di qualunque clausola sociale – successivi travasi da est di gruppi immigrati ancora più poveri, provenienti dai satelliti della confederazione russa o dai paesi asiatici. Al centro dei Balcani, le lacerazioni sociali erano poi ulteriormente acutizzate dal riaprirsi delle fratture etniche, sino al deflagrare di guerre e conflitti civili le cui ferite restano, ad oggi, tutt’altro che rimarginate. In pochi anni, il senso di appartenenza a una stessa comunità nazionale, così faticosamente conquistato, si è venuto disgregando. Ma anche nei paesi dell’Europa centrale, che hanno conosciuto esperienze meno traumatiche di ritorno al mercato e alla democrazia, il rilancio dell’economia, dopo lunghi anni di decrescita, è stato pagato con drastici tagli alla spesa sociale, oltre che con significativi incrementi del carico fiscale e del debito pubblico – com’è avvenuto, con modalità del tutto evidenti, nel caso della riunificazione tedesca. Pochi hanno guadagnato dalla trasformazione dei regimi collettivisti in economie di mercato. Tra questi, sicuramente i settori più spregiudicati delle vecchie nomenklature che si sono improvvisati imprenditori senza scrupoli o, più accortamente, beneficiari senza rischio alcuno delle generose concessioni statali e delle rendite accordate dai nuovi autocrati.

Diversamente da quanto atteso dai democratici più avvertiti, e nonostante lo sforzo generoso di alcuni dei protagonisti dell’arena politica del tempo, l’‘89 non ha generato adeguati investimenti in progettualità e strategie per gestire la transizione, per renderla socialmente tollerabile. E la trasformazione dai vecchi ai nuovi assetti non solo non è stata gestita, ma è stata abbandonata a un vortice di interessi contingenti, di scelte e dinamiche sostanzialmente non governate. Modelli produttivi e sistemi di protezione sociale ideati e implementati in una prospettiva di tempi lunghi – sulle promesse di integrazione di solidi assetti tayloristi e fordisti, sviluppati in modo incrementale all’interno di confini nazionali per lo più protettivi – hanno lasciato il posto ai tempi brevi e ai ritmi incalzanti di economie aperte e integrate in ambiti sovranazionali sempre più vasti. Lo sfruttamento di forza lavoro a basso costo e non protetta, le delocalizzazioni, la flessibilità del lavoro in assenza di protezioni, la gestione delle relazioni industriali attraverso il sistematico ricatto della precarietà e dell’insicurezza, il ristabilimento del comando mediante logiche di minaccia (management by terror) o di induzione all’autosfruttamento sono state derubricate da pratiche scorrette e illegali a precondizioni fisiologiche, se non proprio virtuose, del recupero di competitività e di produttività imposto dall’economia globale.

Di fatto, il crollo dei regimi socialisti – per quanto da tempo non costituissero più né un modello né una reale alternativa agli assetti capitalistici, quantomeno per la sinistra democratica dell’occidente – ha contribuito significativamente a indebolire la forza e la capacità contrattuale del mondo del lavoro. Ma non riusciremmo a comprendere la portata dei cambiamenti innescati senza una contestuale valutazione delle responsabilità di alcuni grandi attori che in questa vicenda vengono ad assumere un ruolo di primo piano. I partiti socialdemocratici, in primo luogo, incapaci di cogliere le opportunità aperte dal crollo dei regimi autoritari per leggere con lenti nuove le trasformazioni che da allora si venivano producendo e per sostenere programmi di intreccio sinergico tra politiche di sviluppo e strategie di integrazione sociale ad ampio spettro. Ma anche l’Unione europea che, al di là degli innegabili successi sul terreno dell’integrazione economica, non ha mantenuto le sue promesse. Nonostante l’impulso e le attese suscitate dal libro bianco di Jacques Delors, l’armonizzazione delle politiche sociali è stata affidata a deboli meccanismi di coordinamento; i parametri di stabilità richiesti dall’unificazione monetaria hanno imposto ulteriori e gravosi tagli della spesa pubblica, a cominciare da quella sociale; in assenza di efficaci regolazioni, il passaggio all’euro ha prodotto un aumento dei prezzi che ha falcidiato i redditi dei salariati e dei lavoratori dipendenti, già indeboliti dalla progressiva perdita di forza contrattuale seguita alla crisi della metà degli anni settanta. Di recente, con l’allargamento dell’Europa da 15 paesi a 27 e con l’ingresso nell’Unione di paesi il cui reddito è inferiore della metà a quello medio europeo, altro non si è saputo proporre che un incremento dei fondi strutturali, in larga misura sottraendoli alle più deboli delle regioni occidentali; senza peraltro corrispondere alle attese dei nuovi venuti, tanto da aprire consistenti varchi per nuovi conflitti distributivi, per risentimenti e reazioni di rigetto del tutto percepibili nell’assenteismo elettorale e nelle preferenze di voto espresse per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. All’indebolimento del progetto socialdemocratico e al deperimento di un’idea di Europa politica e sociale, in grado di sviluppare una reale capacità di regolazione dell’economia, hanno però contribuito – e non poco – anche le élites intellettuali. I principi di eguaglianza e giustizia sociale, per quanto ancora tutti da declinare in un contesto inedito e in rapida trasformazione, troppo spesso sono stati rimossi e, di fatto, espunti dallo stesso repertorio concettuale degli analisti di settore. L’attenzione alla complessità dei nuovi scenari, l’osservazione dei territori ibridi in cui convivono e si sovrappongono sviluppo e sottosviluppo, integrazione ed esclusione sociale, è prevalsa sulla ricerca delle condizioni per nuovi trade off, sulla identificazione delle fonti di legittimazione per un’originale riscrittura del patto sociale. In tal modo, la disoccupazione, la povertà e la perdita di coesione sociale che ne conseguono sono stati identificati – e sempre più giustificati – come un costo fisiologico e inevitabile dello sviluppo. Tanto che anche il richiamo ai valori della solidarietà, avulso da qualunque progetto politico e non tradotto in efficaci meccanismi redistributivi, ha assunto sempre più il sapore di una retorica lenitiva e consolatoria.

Tra inerzie e occasioni mancate, tra progressive erosioni di reddito (e forza politica), a danno soprattutto della condizione salariata, e complici assecondamenti, quella che si è prodotta è una redistribuzione sottrattiva di smisurate proporzioni. Smarrita la prospettiva dell’inclusione, dell’eguaglianza e della sicurezza sociale, altro non si è fatto strada che un drastico ritorno alla frammentazione dei corpi sociali e all’insicurezza come strumenti di governo e regolazione. L’esito, quantomeno in linea tendenziale, è un processo di convergenza degli assetti di welfare europei su basi minime e non più protettive, con sostanziali incrementi di benefici unicamente a vantaggio dei gruppi che si avvicinano al centro della struttura sociale. Esaurita, nel corso di più cicli economici, la spinta egualitaria dell’universalismo, i cerchi concentrici che segnano i confini tra i diversi territori della cittadinanza sociale hanno riacquistato visibilità e consistenza: dal nucleo forte delle categorie privilegiate, dotate di maggiore forza contrattuale, a un’ampia fascia di garantiti, peraltro sempre più esposti a rischi di esclusione, alle fasce via via più marginali dei cittadini e dei residenti privi di ogni tutela. E hanno riacquistato visibilità e consistenza anche i meccanismi selettivi dell’inclusione che nel tempo hanno operato per contrastare la domanda di pieno esercizio della cittadinanza avanzata da vecchi e nuovi gruppi di esclusi.

Alcune opzioni di politica sociale hanno indubbiamente favorito questa convergenza di carattere riduttivo e regressivo: – la rottura dei patti di solidarietà intergenerazionale, attraverso riforme delle pensioni che hanno legittimato l’abbandono dei sistemi a ripartizione per il ritorno alla capitalizzazione, ovvero l’abbandono del calcolo retributivo per un ritorno sistematico al meccanismo contributivo; – la rinuncia a misure efficaci di reddito minimo, associate a politiche di accompagnamento al lavoro; – l’uso spregiudicato dei contratti flessibili, tale da escludere soprattutto giovani e donne da un pieno inserimento nel mercato del lavoro e, quindi, da una fruizione estesa delle assicurazioni sociali; – la concessione agli immigrati di protezioni limitate o di difficile accesso, in assenza di diritti di cittadinanza amministrativa e politica che permettano loro un diretto impegno per promuoverne l’estensione e l’efficacia.

A vent’anni di distanza dal novembre ’89, e nell’orizzonte di una nuova crisi di portata sistemica, non solo molti di questi nodi restano insoluti, ma le vie d’uscita si prospettano, se possibile, ancora più erte di quanto non si profilassero allora. Esaurita qualunque possibilità di soluzione unicamente nazionale, quella che si impone è certamente una strategia comune capace di vincere le spinte centrifughe, oggi dilaganti in Europa, con l’intento di governare l’integrazione tra sistemi di welfare sempre più esposti a nuove e gravi sfide, prima fra tutte la pressione migratoria e la mobilità territoriale nei confini di Schengen. È vero altresì che, nel nuovo scenario, occupazione e welfare risultano a tal punto interconnessi da rendere vano qualunque tentativo di soluzione che non miri ad integrare le politiche del lavoro con quelle di sicurezza sociale. Nel merito dei problemi sollevati, non v’è dubbio che anche le tecnologie del welfare andrebbero profondamente ripensate e rinnovate. Senza peraltro trascurare la lezione dei classici: è possibile, ad esempio, che la riflessione di Beveridge sulle buone virtù delle assicurazioni obbligatorie sia in grado, ancor oggi, di indicare risposte sostantive ai problemi dei giovani e delle donne, degli immigrati e dei non autosufficienti. Tutte queste, come ogni altra indicazione, rischiano tuttavia di risolversi in inutili perorazioni ove non si ponga primaria attenzione al nodo delle alleanze sociali e politiche, nonché alle nuove strategie che potrebbero essere suggerite proprio dalla crescente vulnerabilità dei ceti medi, accanto alle categorie sociali che, per prime e più ancora, risultano esposte agli effetti distruttivi della crisi. Resta infine da considerare che, oggi come non mai, la rinascita del welfare – in una logica consensuale e non meramente stabilizzatrice – rinvia a un problema di costruzione e ricostruzione delle istituzioni democratiche che, in ambito europeo prima ancora che nazionale, dovrebbero diventare l’arena e lo strumento di governo di un nuovo contratto sociale.

* Fiorenzo Girotti insegna Scienza Politica all’Università di Torino