À la recherche de l’URSS perdue – Larry e Roberta Garner

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À la recherche de l’URSS perdue

di Larry e Roberta Garner

 

La grande maggioranza degli Americani ha reagito alla caduta del Muro in modo fin troppo prevedibile: era la prova che i loro ideali, le loro istituzioni e il loro way of life erano superiori a quelli del “nemico”. L’americano medio non aveva mai nutrito troppi dubbi su quale “sistema” fosse, migliore, ma se mai qualcuno avesse avuto il sospetto che anche a noi Americani era stata rifilata una patacca, presumibilmente come ai Sovietici, questo svanì di fronte al giubilo con il quale fu accolta nell’Europa dell’Est la caduta del muro. Siccome la nostra squadra del cuore aveva vinto il campionato del mondo, noi Americani gridammo vittoria. Tutt’intorno aleggiava un sentimento di trionfo.

Qualcuno però aveva altro in mente: si trattava di quel piccolo gruppo che si definiva come la Sinistra Socialdemocratica e che ora ripensava al grido di Martin Luther King: “Finalmente liberi”. La sinistra non avrebbe più dovuto sopportare l’imbarazzante fardello del “socialismo reale” nel difendere gli ideali del socialismo democratico.

Nei racconti popolari un desiderio esaudito di solito porta disgrazia. Nella famosa fiaba del pescatore che vede realizzato il suo sogno, una realtà solida – la vita del pescatore e della sua famiglia – è a pezzi, e i protagonisti sono lanciati in un instabile e imprevedibile universo nel quale il desiderio soddisfatto comporta una cascata di conseguenze inattese. E proprio questo è successo quando si è realizzato il desiderio della scomparsa dell’Impero del Male.

Lo spostamento a destra dell’opinione pubblica e il processo di depoliticizzazione.

I progressisti speravano che le cose sarebbero state più semplici per la sinistra con il venir meno del “cattivo esempio” dell’Unione Sovietica, ma le cose andarono diversamente: la società subì un progressivo processo di depoliticizzazione o si spostò a destra. Negli ultimi venti o trent’anni c’è stata una deriva conservatrice nei ragionamenti della gente, nella terminologia usata, nel modo stesso di impostare la conversazione quando si parla di temi che riguardano l’economia, la società, la politica interna o internazionale. La maggior parte della gente è addirittura incapace di concepire o di discutere del concetto di classe: è ovviamente conscia delle differenze di classe, ma non è in grado di articolare pensieri coerenti in proposito. Inutile aggiungere che i media – specialmente quelli del tipo della Fox News – hanno contribuito a questo tipo di inconsapevolezza. Perfino termini semplici come “classe operaia” o “lavoratori” non sono più in uso e sono stati sostituiti dall’ambigua espressione “classe media”.

Questa operazione è stata intenzionalmente condotta dei media per spiazzare e scoraggiare iniziative progressiste; l’esito, tuttavia, non è stato un netto spostamento a destra dell’opinione pubblica, quanto piuttosto un processo di depoliticizzazione e di incapacità di una visione globale. La concezione della società e dei problemi politici è frammentata: ogni argomento trattato è avulso dal contesto generale e la gente appare incapace di cogliere le connessioni fra i diversi problemi politici e sociali, come se non vi fossero collegamenti tra sanità pubblica e deregolamentazione finanziaria, o tra il problema dei senzatetto e il cattivo funzionamento dell’istruzione pubblica.

Non essendovi più una chiara distinzione tra sistemi diversi – socialismo e capitalismo – il discorso politico si è frammentato in una molteplicità di temi separati, privi delle connessioni che esistono nella realtà. Si è così estremizzata la tendenza già esistente di intendere la politica in termini individuali, sia per quanto concerne le “scelte” di voto (il grande ideale dell’elettore “indipendente”, emancipato dall’affiliazione ai partiti), sia per quanto concerne la “personalità” di ciascun candidato. Si è inoltre dilatata la tendenza a interpretare le disuguaglianze economiche e sociali in termini di genere e di razza, ignorando l’origine di classe.

I giovani – in particolare gli studenti dei college e i neo-laureati, che sono ormai una quota rilevante della popolazione giovanile – sono divisi tra una genuina passione per Obama e preoccupazioni e aspirazioni fortemente individualistiche.

La fine dell’utopia?

L’Unione Sovietica ebbe il ruolo di renderci capaci di pensare alle utopie. Poche persone nel mondo occidentale, dopo l’euforia un po’ naïve degli anni ‘30, avrebbero definito l’URSS un modello utopistico; tuttavia, essa ci rendeva capaci di porci la domanda: “Sono in grado gli esseri umani di creare una società migliore del capitalismo?”. L’Unione Sovietica non forniva la risposta, ma la sua stessa esistenza rendeva lecita la domanda.

Il socialismo è oramai definito “un fallimento” e la storia dell’Unione Sovietica è stata ridotta tout court ai gulag, alle purghe e al massacro dei Kulaki. Sono stati cancellati dalla memoria tutti gli aspetti che distinguevano l’Unione Sovietica dai regimi capitalistici e mostravano la possibilità di un sistema alternativo: l’ideologia egualitaria e la concezione del lavoro come sola e legittima fonte di reddito (che comportavano disparità nella distribuzione del reddito assai più contenute che nel mondo occidentale); il rifiuto di un modello di vita basato sul “consumismo” (da cui derivava una certa reticenza da parte di chi godeva di privilegi di ostentarli pubblicamente); la presa di posizione dichiaratamente anti-imperialista(che portava a sostenere, se non altro nelle dichiarazioni di intenti, i movimenti di liberazione nazionale e i popoli svantaggiati di tutto il mondo); una cultura ufficialmente anti-militarista (che nella letteratura e nella cinematografia non celebrava la guerra e non ne minimizzava gli orrori); l’economia di pieno impiego (che garantiva che nessuno fosse lasciato sul lastrico, anche a spese dell’efficienza del sistema produttivo).

Per gli americani, ormai, l’Unione Sovietica rappresenta unicamente il fallimento del sistema stalinista, di un regime che non aveva la capacità di evolversi, come se Gorbaciov e la Perestroika fossero stati una prosecuzione e un’estensione del sistema poliziesco di Stalin; come se gli Stati Uniti d’America venissero bollati come regime schiavista e favorevole al genocidio per la loro storia “plurisecolare” di schiavismo e di genocidio dei popoli autoctoni.

Così, se il socialismo rappresenta l’idea di “un sistema fallito”, diventa estremamente difficile parlare di modelli di società migliori: il capitalismo è l’unico modello “reale”, e come tale deve essere l’unico modello “razionale”. Le fluttuazioni cicliche dell’economia, con la loro alternanza fra momenti di espansione e fasi recessive, sono l’espressione delle leggi di mercato, tanto ineluttabili quanto le leggi che governano il mondo naturale. Alternative al capitalismo appaiono eteree, irreali come una favola per bambini: esse sono ritenute talmente inverosimili presso l’opinione pubblica da rendere impraticabile qualsivoglia strategia coerente indirizzata a un cambiamento radicale.

La fine del pensiero utopistico è strettamente collegata alla perdita della consapevolezza collettiva, a cui spesso si attribuisce la generica etichetta di “post-modernismo”. In tale contesto viene meno il concetto di “progresso”, dato che diventa inconcepibile un’evoluzione degli obbiettivi da perseguire e quindi un miglioramento dell’esistente.

Dopo il fallimento dell’Unione Sovietica, la Storia non può più essere descritta come un costante movimento di progresso dall’illuminismo alle rivoluzioni borghesi, da queste alle lotte di massa per il socialismo e, infine, da questo verso l’utopia comunista. La Storia è solo un insieme di “storie” separate e incoerenti, raccontate da voci diverse in termini del tutto soggettivi, in cui l’azione collettiva è sempre interpretata come una battaglia sospetta, che sfocia nel tradimento, nel totalitarismo e, in ogni caso, ha un esito quasi sempre infausto. La morale della favola è sempre la stessa: “pensa per te ed evita di immischiarti in faccende che non ti riguardano o che sono più grandi di te”.

Parole chiave cadute nelle mani dell’ideologia capitalista

Sappiamo che le parole sono “terreno di scontro” e che il loro significato è spesso conteso dalle parti in causa, ciascuna delle quali cerca di attirarle nel proprio campo.

Abbiamo già detto dell’eliminazione dal vocabolario popolare di termini come “classe operaia”. Altre parole come “libertà” e “democrazia” sono state catturate dall’ideologia capitalista e perdute dalla sinistra. Quello della “libertà” è sempre stato un terreno difficile per la sinistra, ma non dovremmo dimenticare che Marx ed Engels non disdegnavano certo di adoperare questo termine riferendosi alla prospettiva comunista. La parola “democrazia” fu certamente usata dai sovietici (nel senso che il potere era esercitato nell’interesse del popolo) e, fino alla scomparsa dell’Unione Sovietica, fu un termine fortemente conteso. Ora in pratica ha perso di significato: i paesi amici degli Stati Uniti sono democratici, gli altri no: non c’è più una forza alternativa che contesti questo uso. Il “crollo del comunismo” ha consentito che libertà e democrazia borghesi diventassero sinonimi di libertà e democrazia tout court.

Insicurezza diffusa

Nuovi tipi di insicurezze e minacce sono sorti nell’immaginario collettivo e sono stati manipolati, amplificati e diffusi dai media: terroristi, musulmani, droghe, virus e batteri, furto di identità, abusi sessuali sui bambini, gang criminali, stragi perpetrate da cecchini pazzi, sparatorie nelle scuole, immigrati come causa di malattie e crimini, etc. Il problema non è se queste minacce sono reali o no (in parte certamente lo sono: dopo tutto, quasi 3000 persone sono morte durante l’attacco dell’11 settembre, i crimini avvengono, in molti quartieri si aggirano bande di teppisti, le pandemie sono certamente possibili), il problema sono gli effetti che questa ansia collettiva e pervasiva ha sulla nostra visione del mondo e su come ci poniamo rispetto alle questioni politiche. Non è certo stata la caduta del muro a creare queste diffuse minacce, e tuttavia essa ha prodotto un vuoto di consapevolezza: la paura concreta di una guerra nucleare con l’Unione Sovietica è stata sostituita da una paura indefinita di tutto e di tutti che ha prodotto una percezione paranoica degli “altri”, ha ridotto la fiducia ai minimi termini, rendendo pertanto estremamente improbabili attività politiche collettive. Queste minacce sono gestite ed enfatizzate dai media e cambiano di giorno in giorno. Mentre la minaccia della guerra nucleare in fin dei conti non modificava il modo di vivere delle persone, queste nuove minacce influiscono invece, e pesantemente, sulle abitudini collettive e, in particolar modo, sull’atteggiamento rispetto agli stranieri e sul comportamento nei luoghi pubblici.

Basti un esempio preso dalla quotidianità: un tempo i genitori, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, permettevano ai figli di giocare per strada davanti a casa e di andare a scuola a piedi da soli; ora i bambini sono sorvegliati ininterrottamente, la gente povera li tiene barricati in casa tutto il giorno davanti alla TV, mentre la middle class e le famiglie abbienti si assicurano che essi non abbiano tempi morti durante la giornata e ne programmano le attività extrascolastiche minuto per minuto, onde evitare che finiscano vittime di rapitori, pedofili, spacciatori, o semplicemente che abbiano contatti con gli “inaffidabili vicini di casa”.

Fintanto che è esistita l’URSS, c’era una consapevolezza, magari inconscia, che il capitalismo americano non fosse l’unico sistema possibile, il che presentava numerosi risvolti positivi. Tra questi, la lotta al razzismo e alla segregazione e il successo dei movimenti per i diritti civili, favorito dal fatto che, nella corsa alla conquista dei cuori e delle menti dei paesi del terzo mondo, si doveva mettere fine alla segregazione. L’URSS ebbe anche un ruolo di avanguardia nell’integrazione delle donne nel mondo del lavoro, nel promuovere il sistema sanitario e le politiche per l’istruzione, che hanno prodotto una rapida mobilità sociale dei figli di contadini e operai verso ruoli dirigenziali. Ovviamente si verificano oggi non pochi sforzi per sminuire queste politiche progressiste; per esempio sentiamo continuamente ripetere come le nomenklature si riproducevano, mentre nei fatti vi è stata una forte mobilità sociale: un’attenta lettura dei dati dimostra come la mobilità sociale, la crescita economica e l’innalzamento degli standard di vita hanno caratterizzato l’Unione Sovietica e paesi dell’Est europeo tanto quanto l’Europa occidentale nel periodo post-bellico. L’assenza di ogni tipo di concorrenza internazionale tra sistemi diversi significa che è molto più difficile oggi opporsi alle pratiche delle multinazionali e alle politiche compiacenti verso gli affaristi da parte dei governi: non c’è nulla e nessuno al quale si possa minacciare di rivolgersi se le prepotenze diventano insopportabili.

Di fatto, negli ultimi vent’anni il “fattore competitivo” è scomparso: il capitalismo si trova in una posizione di monopolio sia dal punto di vista dell’ideologia, sia da quello delle politiche effettivamente implementabili. Le conseguenze di tale situazione nel resto del mondo sono state perfino maggiori che negli Stati Uniti, in quanto è ormai impossibile per i paesi poveri mettere all’asta la propria alleanza tra socialisti e capitalisti per ottenere aiuti economici o militari.

Carta bianca per gli imprenditori

La situazione sopra descritta è particolarmente critica nel mondo del lavoro. Negli Stati Uniti il capitale ha sempre avuto una forza contrattuale rispetto ai lavoratori superiore a quella dei paesi dell’Europa occidentale, ma oggi l’ago della bilancia si è spostato ancora di più verso il capitale. Gli imprenditori hanno ormai carta bianca nel regolare la forza lavoro (sia nel posto di lavoro sia, più generalmente, nel mercato del lavoro) e molte delle attuali pratiche sono di fatto incontestate non solo dai media (ovviamente), ma anche nell’opinione pubblica. Tali pratiche includono, ad esempio, l’espansione del part-time (con la perdita di reddito e sicurezza del lavoro che lo accompagna minor sicurezza e assicurazioni sul lavoro, l’uso esteso di outsourcing e della sostituzione di occupati a tempo indeterminato con replacement workers, che guadagnano la metà e non godono di alcun tipo di retribuzione accessoria, etc. Dato che non ci sono più esempi di economie di piena occupazione, si è alzato perfino il tasso di disoccupazione ritenuto accettabile dalla collettività.

I lavoratori sembrano essere demoralizzati, molti non mettono neppure in discussione le prerogative manageriali, mentre i sindacati continuano a indebolirsi. Uno dei casi più eclatanti è quello dei dipendenti dell’istruzione pubblica: si addossa agli insegnanti la colpa per le modeste performance di molte scuole, mentre la vera causa deve ricercarsi nell’intreccio di una miriade di cause socio-econimiche. Fintanto che l’Unione Sovietica dichiarava di rappresentare gli interessi dei lavoratori –ed effettivamente aveva un’economia di piena occupazione, sebbene con un basso potere di acquisto dei salari– essa rappresentava un’alternativa che aleggiava in sottofondo, quasi una dichiarazione di colpa subliminale per il potere del capitale statunitense.

Egemonia neo-liberista

Non è una coincidenza che la scomparsa del socialismo reale abbia coinciso con l’instaurazione di politiche neo-liberiste e di un potere egemonico su scala globale. Morto l’orso, il mostro si è scatenato: il capitalismo – al quale la classe operaia aveva messo una museruola e/o la maschera “dal volto umano” del welfare state – una volta libero si è strappato maschera e museruola, mostrando la sua vera natura selvaggia. Senza più “il grande nemico”, che almeno simboleggiava un’alternativa a una società e a un’economia completamente dominata dalla logica della produzione capitalista, le classi dominanti hanno scatenato l’offensiva in tutto il mondo: la deregolamentazione dei mercati, l’attacco ai sindacati, l’outsourcing, le privatizzazioni di beni e servizi pubblici, in breve le ben note politiche neoliberiste che hanno portato benefici a strati molto ristretti della popolazione. Avendo smantellato parti sostanziali del welfare state, le forze più reazionarie del capitalismo sono riuscite a riportare indietro il terreno della lotta politica ai primi decenni del ventesimo secolo, cioè a prima del new deal.

L’aumento delle disuguaglianze

Forse la misura concreta più semplice dell’effetto della caduta dei regimi comunisti è l’aumento delle disuguaglianze negli USA nel corso degli ultimi decenni. Questo fenomeno ha avuto inizio durante gli anni ’80, con le politiche neoliberiste e un periodo di grave stagnazione in URSS, e ha assunto proporzioni eclatanti dopo l’89. In larga misura, questo è il risultato tangibile della fine di un periodo di competizione globale a favore di un’egemonia capitalista incontrastata.

Ecco alcuni indicatori che dimostrano l’aumento delle disuguaglianze:

– Il ritorno ai valori precedenti la seconda guerra mondiale dell’indice di Gini e del rapporto tra il 10% dei redditi più alti e il 10% di quelli più bassi(Piketty, T. e E. Saez, Income Inequality in the United States: 1913-1998, in “Quarterly Journal of Economics”, 118, 1, 2003, pp. 1-39).

– L’aumento di disuguaglianze retributive e delle condizioni di lavoro per le stesse mansioni nell’ambito dei medesimi settori, da cui risulta un’enorme crescita delle differenze negli standard di vita che implica una diversa collocazione di classe e il venir meno della coesione di gruppi che un tempo erano coesi. Confrontiamo, per esempio, un professore ordinario di Harvard e un professore aggiunto, che non ha garanzia di stabilità del posto di lavoro: quest’ultimo ha un reddito al di sotto della soglia di povertà, insegna in una decina di corsi nel medesimo anno accademico e si deve spostare per lunghe distanze tra una sede universitaria e l’altra (cfr. Chang Hwan, K. e A. Sakamoto, The Rise of Intra-Occupational Wage Inequality in the U.S. 1983-2002, in “American Sociological Review”, 73, 2008, pp. 129-157).

– L’andamento assolutamente piatto del reddito mediano e dei redditi bassi. Viceversa il reddito del 10% della popolazione più ricca ha conosciuto un incremento che l’ha portato, dal 1980 al 2007, da 6 a 15 volte il reddito del decile più povero della popolazione

– L’aumento dei senzatetto, un fenomeno di dimensioni impensabili prima degli anni ‘80.

– La crescita del numero di persone senza una valida assistenza medica che, con i recenti licenziamenti, ha raggiunto i 50 milioni di individui, vale a dire un cittadino su sei (alcuni dei quali privi di qualsiasi assistenza pubblica).

– Il crescente indebitamento degli Americani, con un debito privato pari ormai a circa 1.34 volte il reddito nazionale, fenomeno che riflette il tentativo di reagire, in termini di mantenimento degli standard di vita, alla stagnazione economica.

In conclusione, è vero che il benessere odierno degli Stati Uniti è legato alla Cina “comunista” in una misura che non era immaginabile vent’anni fa. Ma non è meno vero che per gran parte degli anni precedenti il 1989, il benessere (ora perduto) della larga maggioranza degli Americani è stato legato, in maniera complessa, ma anche stretta, all’esistenza del “socialismo reale”.

 

*Larry Garner e Roberta Garner sono professori in Scienze Politiche all’Università St. Paul di Chicago.