Passaggio di fase. Dati e considerazioni su Torino al tramonto del primo ciclo postfordista – Salvatore Cominu

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Passaggio di fase. Dati e considerazioni su Torino al tramonto del primo ciclo postfordista

di Salvatore Cominu

 

Le prossime elezioni amministrative si collocano nel mezzo di una fase particolarmente critica per il territorio torinese. Per svariate ragioni, infatti, appare giunto all’epilogo il ciclo che per brevità definiamo del primo postfordismo, apertosi all’inizio degli anni ’90, in un’epoca di grandi rivolgimenti a livello nazionale (crollo della prima Repubblica, affermarsi di nuovi soggetti politici, riforme elettorali) e internazionale (fine dei regimi socialisti, accordi di Maastricht, ecc.), e segnato da importanti discontinuità nelle procedure di formazione della leadership locale – elezione diretta del sindaco e dei presidenti di Provincia. A demarcare i primi anni ’90 dal decennio precedente fu anche la grave crisi del 1992-93, che provocò intense ricadute sulla struttura produttiva e occupazionale torinese. Le elezioni che nel 1993 portarono alla prima giunta Castellani s’inquadravano dunque in cambiamenti economici, geopolitici e istituzionali di grande portata. Per diverse ragioni possiamo affermare di vivere oggi un altrettanto importante passaggio di fase. Nel contributo che segue, si restituiranno alcuni argomenti “di servizio” per una valutazione sul posizionamento “strutturale” di Torino al termine di questo ciclo: quale interpretazione possiamo fornire del cambiamento (del mix produttivo, del lay out urbano, della composizione sociale del lavoro, della struttura demografica) di Torino? La città e coloro che la abitano, più prosaicamente, stanno meglio o peggio di venti anni prima?1

Le analisi sulla condizione metropolitana sono di norma condotte attraverso la comparazione longitudinale (nel tempo) o latitudinale (nello spazio) di indicatori strutturali tra loro variamente combinati. Lo “stato di salute” di un territorio (città, regione, ecc.) non discende però meccanicamente delle sue performance economiche. Best performer, secondo la nostra opinione, non è necessariamente la città con il più elevato PIL procapite o la maggiore concentrazione di funzioni direzionali, ma quella dove le persone hanno maggiori possibilità di realizzare i loro progetti, conseguire ragionevoli standard qualitativi di vita, accedere alle risorse comuni che hanno concorso a produrre. Ai “movimenti” di critica del PIL come misura esclusiva del benessere è da riconoscere il merito di avere posto al centro del discorso la natura multidimensionale dello sviluppo: per quanto la produzione di ricchezza ne sia tuttora premessa ineliminabile, benessere materiale e benessere percepito dipendono anche da condizioni sociali, ambientali, regolativi e via di seguito.

I benchmark territoriali offrono una misura del tutto convenzionale del posizionamento delle città. Basati di norma su indicatori costituiti da valori medi o pro capite, possono fornire esaustivi quadri aggregati delle risorse presenti nei territori, ma dicono poco sul modo in cui le stesse si distribuiscono tra gli attori, sul rango dei soggetti economici locali o sul grado d’integrazione dei gruppi sociali. Il rischio insito nell’abuso di questo metodo è di “reificare le città come attori unitari”2 celando la molteplicità degli interessi, spesso conflittuali, dei gruppi sociali.

Ulteriore questione, la configurazione strutturale dell’economia metropolitana, secondo il nostro punto di vista, dipende da fattori che perlopiù eccedono il perimetro d’azione dei poteri locali. Caratteristiche istituzionali e regimi regolativi, in generale, hanno grande rilevanza nella spiegazione dei risultati economici, ma gli strumenti in grado di orientare o correggere in misura sensibile le traiettorie di sviluppo a disposizione degli attori locali appaiono tuttora circoscritti. Ciò non significa che l’azione delle amministrazioni non debba essere sottoposta a giudizio critico anche in virtù dei risultati economici del territorio. Mentre è però plausibile e doveroso giudicarle in base alla qualità dei servizi locali, all’allocazione delle risorse, al rapporto tra costi e benefici delle scelte, ai fenomeni di privatizzazione o pubblicizzazione degli spazi, all’approccio verso i problemi sociali, è assai problematico riconoscere loro ii meriti di un posizionamento economico vantaggioso o le colpe di un arretramento.

Il primo postfordismo

Il cambiamento di Torino negli ultimi venti anni ha assunto carattere emblematico proprio poiché la città, più ancora degli altri poli metropolitani del Nord-Ovest, rispondeva al modello stereotipato della company town fordista. In virtù di questa dimensione simbolica si è finito per enfatizzare gli aspetti distintivi di Torino, sebbene i cambiamenti osservabili nel capoluogo piemontese, a ben vedere, non abbiano carattere eccezionale e si situino nello stesso solco di altri centri industriali italiani ed europei.

I cambiamenti del mix produttivo sono talmente noti che in questa sede è sufficiente richiamarli. Il ciclo di deindustrializzazione, proceduto attraverso l’alternanza di fasi “ordinate” e repentine accelerazioni, parte da lontano. Nei trent’anni compresi tra il 1971 e il 2001, Torino (come Milano e Genova) ha dimezzato il suo esercito industriale. A lungo il fenomeno è stato legato più alle esternalizzazioni delle industrie che all’emergere di nuove aree produttive, ma dagli anni ’90 la creazione di posti di lavoro nei servizi si è almeno in parte sganciata dalla domanda industriale. Torino, pure rimanendo tra i territori con un peso di attività industriali tra i più elevati in Italia, è anche il sistema locale del lavoro (SLL) che nella prima metà dello scorso decennio ha conosciuto il più intenso ricambio settoriale per valore aggiunto e occupati (il più forte incremento nei servizi e la più forte contrazione nell’industria). Ciò non toglie che alla vigilia dell’ultima grande crisi, nel 2007, il SLL di Torino si distinguesse ancora per un’incidenza del lavoro industriale più elevata degli altri sistemi metropolitani.

Addetti alle UL delle imprese per settore di attività economica in alcuni SLL metropolitani (2007)

Manif.

Costr.

Comm.

Turismo

ICT

Finanza

Assic.

RE

(Immob))

Serv

Qualif.

Istr San

Assist

Altri

Servizi

Tot

Torino

27,0

8,4

28,8

5,0

5,8

2,1

16,0

4,1

2,8

100,0

Milano

19,4

7,1

31,3

6,8

5,8

2,6

20,3

3,9

2,7

100,0

Venezia

21,4

9,4

40,0

2,8

3,1

2,0

13,8

4,3

3,3

100,0

Genova

16,9

8,9

40,3

3,5

4,2

1,9

16,4

4,3

3,7

100,0

Bologna

26,1

7,4

32,2

4,5

4,5

2,3

15,2

5,0

2,8

100,0

Firenze

22,1

8,1

36,3

3,6

4,9

2,2

14,8

4,9

3,1

100,0

Roma

9,4

9,4

36,1

9,5

5,0

1,9

19,7

5,3

3,7

100,0

Napoli

18,4

10,6

37,4

4,1

2,8

1,2

16,6

5,6

3,4

100,0

Media SLL Metro

20,1

8,7

35,3

5,0

4,5

2,0

16,6

4,7

3,2

100,0

(Nostra elaborazione su dati ASIA, Istat 2010)

La distribuzione degli occupati per settore economico evidenzia inoltre che la terziarizzazione di Torino è legata principalmente allo sviluppo dei business service (ICT, servizi professionali) e del settore finanziario, mentre l’incidenza occupazionale del settore commerciale e turistico appare assai limitata. In molte imprese industriali è peraltro divenuto difficile distinguere attività di trasformazione e di servizi. Com’è stato inoltre osservato3, la configurazione del sistema manifatturiero si è modificata dal tradizionale modello “a clessidra” (con un elevato numero di occupati nelle grandi aziende e nelle microimprese) ad una fisionomia caratterizzata dall’emergere di un ruolo centrale delle medie imprese e di quello che è stato definito “quarto capitalismo”.4

 

Una seconda “grande trasformazione” ha modificato in profondità la composizione sociale del lavoro metropolitano. Anche su questo argomento è da osservare che, per quanto basata su mix produttivi differenti, la composizione socio professionale nelle grandi città tende a convergere più che a divergere: in tutte, nelle professioni qualificate è oggi impiegato oltre il 40% degli occupati, in quelle di livello intermedio un terzo circa delle posizioni complessive, laddove gli occupati nelle attività non qualificate (ufficiali) si riducono al 20-25% del totale. Nel 2001, rispetto alle altre maggiori città del Centro-Nord, Torino aveva ancora una percentuale più elevata di “operai industriali” ma la trasformazione era già avvenuta e avrà successiva accelerazione nel corso degli anni ’00. Il confronto della struttura professionale provinciale tra 1997 e 2007 evidenzia un processo di rapida qualificazione: nell’ambito di un incremento complessivo di quasi 80.000 unità, nel 2007 si erano guadagnati circa 150.000 occupati in attività qualificate, a fronte dei 36.000 persi nelle professioni intermedie e dei 32.000 in quelle non qualificate. Questa crescita è stata trainata dal forte incremento dei tecnici, il più rilevante in valore assoluto, e dei professionisti (il gruppo con l’incremento percentuale più elevato), a fronte di una rimarchevole contrazione (nella fascia intermedia) degli impiegati e (in quella non qualificata) degli operai generici. Dal punto di vista dell’incidenza sull’occupazione totale, le professioni qualificate sono passate in soli dieci anni dal 30% al 42% sul totale degli occupati provinciali. Quanto esposto non deve comunicare l’idea di un mercato del lavoro urbano composto esclusivamente da professionals. Le previsioni di assunzione5 manifestate dagli imprenditori a fine 2007 e fine 2008 mostravano che in tutte le città i profili più richiesti rientravano nel livello intermedio e che la domanda di lavoro non qualificato assorbiva tra il 20% e il 30% della richiesta complessiva.

Gli altri fenomeni rilevanti riguardo alla struttura occupazionale dei due decenni in esame sono stati i) l’incremento della partecipazione femminile, con un tasso di occupazione a Torino (56%) ampiamente sopra la media italiana (44% circa); ii) l’inclusione di ampie quote di lavoratori migranti; gli stranieri residenti rappresentavano nel 2009 il 13,6% della popolazione cittadina, una quota superiore a molte altre concentrazioni urbane italiane; iii) l’introduzione, nella normativa sui contratti di lavoro, di forti elementi di flessibilità “ai margini” dello zoccolo duro dei salariati, che hanno contribuito ad accrescere le fila dei lavoratori esposti a carriere insicure, fallendo nella sostanza l’obiettivo (mai realmente perseguito dai legislatori) di coniugare flessibilità e sicurezza.

Questo ciclo ha conosciuto (e conosce nuovamente) diversi passaggi critici dal punto di vista occupazionale, con rilevanti fenomeni di espulsione di lavoratori in età matura e forti difficoltà – come nella fase attuale – d’inserimento dei giovani. Il periodo che separa i primi anni ’90 dalla fine degli anni ’00 non può tuttavia essere descritto in termini di deriva sociale o deragliamento occupazionale. Gli ammortizzatori sociali “fordisti” (CIGS e indennità di mobilità) hanno assicurato alla maggioranza degli espulsi dal settore industriale un atterraggio “morbido”. Raramente si considera inoltre il rilevante ruolo compensativo svolto per oltre un decennio, almeno sul piano occupazionale, dal settore delle costruzioni, sia in termini diretti sia in virtù del rilevante indotto di forniture artigiane e servizi professionali mobilitato dagli investimenti immobiliari.

Economia della conoscenza o marginalizzazione?

In questo passaggio, che Torino ha condiviso con altre metropoli ex-industriali, il territorio si è rafforzato o si è impoverito? Statistiche occupazionali, conti economici, livello di impiego degli ammortizzatori sociali nel biennio 2009-2010 non dovrebbero lasciare spazio a dubbi. In questa sede, tuttavia, preferiamo riformulare la domanda e chiederci se il segno delle trasformazioni suesposte sia interpretabile secondo la chiave più diffusa prima della crisi, cioè come transizione verso un’economia della conoscenza (ipotesi per la quale Torino mantiene un vantaggio competitivo sul versante delle risorse cognitive e immateriali per lo sviluppo) ovvero come tendenziale marginalizzazione (ipotesi per la quale retrocede sotto tutti i punti di vista, compreso il campo knowledge). Gli indicatori a nostra disposizione suggeriscono interpretazioni discordanti.

Certamente negli ultimi anni Torino ha recuperato parte del ritardo di scolarizzazione che la vedeva in relativo svantaggio rispetto ad altri territori. I giovani tra i 20 e i 24 anni iscritti agli atenei piemontesi sono balzati dal 25% del 1991-92 ad oltre il 40%. Nonostante ciò, il confronto tra Piemonte (che presenta livelli di scolarità inferiori al capoluogo) e altri territori vede la regione in relativo svantaggio. Il tasso d’iscrizione universitaria è affine a Veneto e Lombardia, ma è nettamente inferiore a Emilia Romagna e Toscana. Torino ha incrementato la capacità di attrarre nei suoi atenei studenti dall’estero e ciò è indiscutibilmente un bene (al Politecnico la quota di stranieri si avvia verso il 20%); la percentuale di universitari stranieri della città è ampiamente superiore alla media nazionale e seconda solo a Bologna, mentre per quota di stranieri iscritti a corsi di dottorato Torino condivide con Venezia la prima piazza.

Il punto di forza da tutti sottolineato è la comparativamente elevata spesa percentuale in R&D sul PIL, sopra la media Ocse oltre che di quella italiana, fanalino di coda tra i paesi sviluppati6. Si tratta però di un dato da situare nel tempo. Nel periodo 1994-2004 l’incidenza nazionale della spesa in R&D del Piemonte è infatti diminuita, passando dal 15,4% al 12,5% del totale, in virtù del progressivo restringimento della componente privata. Inoltre il dato aggregato non rivela la forte concentrazione della spesa in pochi grandi centri di ricerca (in altre parole, è una spesa superiore ma meno differenziata che in altre regioni).

Per intensità della produzione brevettuale nel 2005 Torino si poneva, tra le province metropolitane, al secondo posto dietro Bologna7, notevolmente sopra le altre grandi città italiane, mentre nel 2007 la regione Piemonte presentava dati inferiori a Emilia-Romagna, simili alla Lombardia e sostanzialmente allineati alla media UE a 27 (certo, molto distanti da Germania e Svezia), quindi abbondantemente al di sopra di quella italiana. Secondo gli ormai datati indicatori dell’Urban Audit dell’Eurostat, nel 2004 Torino aveva una quota di occupati nei business serviceinferiore a Milano, ma sostanzialmente allineata a Roma e Bologna, e una quota di occupati nei servizi ICT inferiore ai due maggiori centri italiani ma largamente superiore a tutte le altre città. Altre indagini evidenziano che nel 2007, con l’11,8%, il Piemonte era la regione italiana con la più elevata incidenza di occupati in industrie a medio-alta e alta tecnologia (davanti a Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto) e con il 3,9% di occupati seguiva il Lazio nella graduatoria dell’incidenza di occupati in servizi ad alta tecnologia, al di sopra delle altre regioni italiane e della stessa media UE a 27. Infine, secondo le elaborazioni del Regional Innovation Scoreboard8, il Piemonte si collocava nel 2006, per grado complessivo d’innovazione, a fianco della Lombardia, dietro il Lazio e poco avanti dell’Emilia Romagna, in posizione intermedia su scala continentale ma ai vertici nazionali.In breve, sul versante delle risorse per l’innovazione e degli indicatori più utilizzati come proxy dell’economia della conoscenza Torino – almeno alla vigilia della nuova grande crisi – sembrava mantenere una posizione alta nel panorama nazionale, seppure i suoi precedenti vantaggi apparivano in erosione. Nonostante ciò, tutte le statistiche economiche mostrano chiaramente come Torino e il Piemonte negli ultimi quindici anni siano cresciuti a un ritmo più lento di quasi tutte le altre aree del Centro-Nord. L’analisi del PIL pro capite nei principali centri urbani testimonia tali difficoltà: a parte Bologna (il cui dato in valore assoluto è però assai più elevato), Torino è stata la città con la variazione 1998-2006 più contenuta. Per effetto di tale dinamica, è stata distanziata da Roma e Firenze (che nel 1998 avevano valori analoghi a Torino) e superata anche da Venezia, che nel 1998 era indietro; solo Genova, tra le grandi città settentrionali, nel 2006 rimaneva ancora alle spalle. Delle grandi città del Centro-Nord, peraltro, Torino è (insieme a Genova) quella in cui il tasso di disoccupazione presenta strutturalmente valori più elevati.

Transizione verso l’economia della conoscenza e progressivo scivolamento nelle graduatorie della competitività territoriale non sono processi contradditori. L’analisi sul presente e sul futuro, secondo la nostra opinione, deve necessariamente incorporare questa duplicità. La crisi tuttora in corso ha impattato pesantemente sul tessuto produttivo locale. Per due anni consecutivi (2009 e 2010) il Piemonte è la regione con il più elevato numero di ore pro capite di CIG autorizzata (ordinaria, straordinaria e in deroga) e seconda in valore assoluto dietro la Lombardia. Nell’ultimo anno le richieste hanno raggiunto i 185 milioni di ore (equivalenti a oltre 110 mila occupati standard), sebbene nel 2010 gli incrementi maggiori si siano registrati in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Puglia. Quanto alla disoccupazione, il tasso provinciale ha raggiunto nel 2010 il 9,4%, quota che non trova riscontri in nessun altra provincia del settentrione ed è superiore a quasi tutte quelle del Centro Italia. Più in generale, si fa strada il timore che la via d’uscita dalla crisi non intersechi la crescita dell’occupazione, materializzando lo spettro della jobless recovery.

Gli “svantaggi competitivi” di Torino

Focalizzare l’attenzione sugli effetti generati dalla contrazione produttiva derivante dallo stato di crisi, suggerisce implicitamente che il crash dipenda dalla recessione. Qui s’intende puntualizzare viceversa che la perdita di “rango” del capoluogo piemontese è un processo di lunga durata: se la crisi ha impresso un’accelerazione, la tendenza è stata evidente in tutti gli ultimi venti anni. Il confronto con i primi anni ’90 restituisce quindi l’immagine di un declassamento della città. Allora, per quanto la deindustrializzazione fosse già parte integrante del discorso pubblico su Torino, la città disponeva ancora di risorse, capitali, imprese, infrastrutture per produrre, al vertice nazionale e internazionale.

I fattori che concorrono a spiegare il ridimensionamento di Torino nello scenario competitivo del Nord Italia sono molteplici. Tra questi, ci sembra utile rilevarne alcuni non sempre adeguatamente rimarcati. Negli ultimi venti anni si è realizzato un progressivo riequilibrio tra versante occidentale e orientale del Centro-Nord, con la concentrazione di sistemi di PMI e imprese capofila più strutturate lungo la direttrice pedemontana lombardo-veneta e l’asse emiliano. Per contro in Piemonte, anche in virtù dei precedenti “fordisti”, la proliferazione di sistemi produttivi cresciuti per effetto agglomerazione è stata più limitata; ciò rende la struttura economica meno varia e più esposta alle crisi settoriali. Inoltre, il Piemonte e Torino convergono verso un modello di organizzazione industriale imperniato sulla media impresa, ma non rappresentano i motori di questo modello d’industrializzazione, peraltro sotto stress e in forte difficoltà anche nelle sue regioni d’incubazione (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna su tutte). In secondo luogo, la metropoli torinese appare almeno in parte penalizzata dalla posizione periferica rispetto alle principali direttrici di collegamento, in un’economia che premia l’importanza degli scambi e la posizione di gateway tra locale e internazionale. Milano è molto più “città delle reti” di quanto non possa realisticamente ambire a esserlo Torino.

Terza e più fondamentale questione, la transizione dopo-fordista non è consistita solo in un travaso di imprese e occupati dall’industria ai servizi (sebbene questo sia un aspetto empiricamente osservabile). Secondo l’opinione di alcuni studiosi tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 si è realizzato un radicale mutamento della “costituzione materiale” del paese, con la ristrutturazione dei poteri economici e l’emergere di nuovi centri di comando9, le privatizzazioni, gli aggiustamenti del welfare e le riforme del mercato del lavoro, l’emergere della finanza come motore dell’accumulazione e regolatore dei comportamenti sociali e imprenditoriali. Il nuovo intreccio tra finanza e produzione ha favorito (con modi peculiari anche in Italia) una nuova concentrazione di potere nel settore bancario, assicurativo e nel ramo immobiliare, nonché nei nuovi gestori di risorse in precedenza a proprietà pubblica o fortemente regolate dallo Stato (telefonia fissa e mobile, concessioni autostradali e business correlati, settore energetico, trasporti, altri servizi pubblici, ecc.). I centri nevralgici di questo sistema non risiedono a Torino, che negli ultimi dieci anni ha peraltro “perso”, di fatto, i suoi storici istituti di credito.

Accanto a questi “svantaggi” le vicende dell’ultimo anno hanno ridato corpo allo spettro che periodicamente agita Torino, l’abbandono di Fiat. Non intendiamo dilungarci in questa sede su un argomento più che noto. I punti di forza che il territorio può vantare sono ancora correlati alla presenza di un articolato sistema di progettazione e produzione di auto facente perno sul Lingotto, alle produzioni di Fiat Industrial (veicoli industriali e agricoli), al settore aerospaziale (pure a rischio di ridimensionamento) e alla domanda di servizi qualificati (ricerca, alta formazione, progettazione, design, test, ecc.) richiesti da questi e pochi altri pivot – nel ramo alimentare, nelle macchine elettriche e nei sistemi per produrre. L’industria dell’auto nel corso degli anni ’90 e della prima parte dello scorso decennio si è configurata sempre più come “industria dei componenti” che di produzione diretta di automobili10. Nel 1993 negli stabilimenti torinesi erano fabbricate 570.000 auto, a fronte delle 250.000 fuoriuscite da Mirafiori nel 2007 e delle circa 125.000 del 2010. Le incognite sul posto di Torino nel futuro organigramma mondiale del gruppo Fiat-Chrysler, con il probabile ridimensionamento dell’insediamento locale di “funzioni intelligenti”, rappresentano certamente un aspetto non prescindibile per qualsiasi riflessione sul futuro del sistema locale. I rischi per il sistema della componentistica, che nel 2007 in Piemonte contava circa 950 società di capitali e occupava 140 mila addetti (di cui 100.000 nella regione) sono in ogni caso elevati. Lo stesso sistema è peraltro oggetto da anni di un’intensa attività internazionale di shopping: molte importanti firme della componentistica, dell’engineering e del design sono divenute di proprietà estera.

Per contro, dopo quasi tre anni di crisi conclamata appare evidente che il terziario di servizi qualificati che aveva trainato la crescita occupazionale dagli anni ’90 non è oggi in grado di compensare le perdite del settore industriale. Più in generale, resta ancora da definire nella pratica cosa significhi “economia trainata dai servizi”. In termini di valore aggiunto, molte attività terziarie ad alta intensità di conoscenza generano redditi assai lontani da quelli dell’industria a elevata automazione. Il boom dello scorso decennio di alcune economie europee (parliamo del caso inglese e della stessa Spagna) è da ricercare assai più nell’intreccio tra finanza e real estate che nei profitti realizzati da creativi, designer, imprese del web. Ciò non significa che lo sviluppo di questi settori cruciali per ogni economia urbana sia poco importante; il solo fatto che decine di migliaia di giovani nella nostra città si siano orientati su queste attività, intraprendendo carriere incerte e discontinue, testimonia di per sé la necessità di elaborare più avanzate forme di supporto alla crescita di questi settori. Una parte non marginale di lavoro nei servizi avanzati è organizzato da micro unità destrutturate, quando non erogato con formule di auto-impiego che sarebbe retorico chiamare imprenditoria.

Un terziario in grado di interpretare un ruolo autonomo di motore dello sviluppo richiederebbe un diverso posizionamento torinese (e italiano) nella divisione “cognitiva” del lavoro su scala internazionale. E’ vero, infatti, che l’industria dei contenuti culturali (cinema, animazione, videogame, format televisivi, editoria multimediale, ecc.) è uno dei business rilevanti del nostro tempo, ma è altrettanto certo che il livello industriale e tecnologico delle produzioni italiane in questi campi è modesto. Nel ramo delle ICT operano a livello mondiale veri colossi economici, ma non risiedono certo a Torino (né a Roma o Milano) i creatori degli standard “a monte” della produzione di software e contenuti globali. In Italia, in seguito alle fusioni degli anni ’00, sono nati alcuni grandi gruppi nel settore del credito; Torino è un luogo dove lavorano tanti bancari, assicuratori, consulenti che raccolgono e impiegano denaro e realizzano servizi informativi e tecnici per la circolazione dei flussi mobiliari, sulla base però di convenzioni e prodotti sviluppati altrove e organizzati in reti i cui nodi strategici risiedono perlopiù 120 chilometri a est.

Non ci resta che piangere?

Ricapitolando, la transizione postfordista non ha avuto segno neutro, poiché nel passaggio consumatosi negli ultimi venti anni Torino ha subito un declassamento: almeno dal punto di vista delle dinamiche economiche e della capacità di leadership, è oggi meno centrale di vent’anni prima. E’ un fatto, non una percezione. Analogamente, per quanto il futuro appaia difficile da diagnosticare, sarebbe facile scommettere su un ulteriore impoverimento negli anni a venire11.

Mentre nel passato anche recente vi sono state fasi in cui Torino perdeva posizioni a favore di altre aree del paese, è tuttavia da rilevare che oggi le tendenze sopra illustrate sembrano riguardare l’Italia nel suo complesso. Chi partecipasse a dibattiti sullo stato dell’economia in Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, Toscana, Liguria, si troverebbe di fronte a interrogativi e paure non dissimili da quelle manifestate dagli osservatori piemontesi. E’ il paese in generale a perdere posizioni e subire un declassamento nella divisione internazionale del lavoro emersa nel primo decennio del secolo e delineatasi più nitidamente nel corso della crisi. La stessa attesa dell’uscita dalla crisi (con frazioni di Pil in risalita su dati concatenati che vengono salutati come grandi segni di rilancio) contiene un risvolto patologico, se si pensa che da oltre un anno i paesi del Far East, dell’America Latina e dell’Europa Orientale hanno ripreso a “crescere” con percentuali simili a quelle pre 2008. Il malessere torinese, in questo contesto, sembra più collegato ad una sorta di “effetto tunnel” (la corsia su cui marcia la città è ferma, mentre quella vicina procede a passo d’uomo) che a una dissonanza dal coro.

Il confronto che da decenni oppone declinisti e ottimisti ha di conseguenza ripreso fiato, con i primi che dispongono oggi di argomenti più sostanziosi dei secondi. Chi scrive sente di condividere solo in parte, o per niente, i toni catastrofisti che informano molte analisi sul presente e sul futuro di Torino. In primo luogo, declassamento e impoverimento non escludono la prospettiva dell’apertura di nuove e inedite possibilità. Sistemi di competenze e conoscenze non si annientano nell’arco di pochi anni e possono essere riconvertite creativamente a favore di nuovi attori o dei soggetti che sapranno organizzarle. Per lo stesso mondo dell’automotive si può pronosticare un ridimensionamento selettivo, più difficilmente una cancellazione. Certo, Torino è destinata a non crescere più e forse vivrà una contrazione anche demografica. Sicuramente i lasciti dell’industrialismo rischiano di sedimentare uno strato di popolazione a rischio di esclusione strutturale – con quanto ciò significa in termini sociali. Una città senza veri primati da esibire, come Torino si appresta con ogni probabilità a divenire, non è necessariamente una città depressa.

Ancora meno comprensibile è il catastrofismo a uso politico: se chi governa di norma indora la realtà, sembra che stare all’opposizione imponga l’obbligo del registro apocalittico. Il catastrofismo non ha mai prodotto azione collettiva, semmai costituisce da sempre l’anticamera del disimpegno, dell’individualismo o (nei casi estremi) della delega a “uomini forti”. Proprio la compresenza tra processi di accelerata trasformazione e di declino, al contrario, dovrebbe essere letta come opportunità per riorientare la bussola dello sviluppo. Sottraendola magari all’idea, a lungo dominante, che il futuro si debba costruire svalorizzando i beni collettivi e facendo dumping territoriale; la tradizione partecipativa e di sperimentazione sociale della città e le nuove energie di cui nonostante tutto dispone, possono costituire oggi un prezioso serbatoio cui attingere per un programma volto ad includere, distribuire opportunità e risorse, restituire la città agli usi e ai bisogni di chi la vive e dovrà viverla nel futuro.

 

Note

1. Alcune considerazioni di seguito riportate erano contenute in un rapporto pubblicato nel 2010 dalla Fondazione Antonino Monaco intitolato Post-Torino, curato dall’autore di questo contributo e dalla Dottoressa Chiara Casalino. Le opinioni qui riportate sono viceversa da attribuire esclusivamente all’autore.

2. P. Le Galès, Le città europee, Il Mulino, Bologna 2006.

3. G. Berta/A. Pichierri, Libro Bianco del Nord-Ovest, Carocci, Roma 2007.

4. La definizione è stata inizialmente proposta dall’economista Andrea Colli (Il quarto capitalismoMarsilio, 2003 Venezia) che lo identificava nel sistema delle “imprese di medio-grandi dimensioni, attive su mercati internazionali sia in termini commerciali che di produzione diretta, prevalentemente organizzate in forma di gruppo”.

5. Fonte: indagini Excelsior – Unioncamere, www.excelsior.unioncamere.net

6. Eurostat Regional Yearbook 2009, Eurostat Statistical Books, 2010.

7. Ocse, StatExtract, Patents by region database, 2008.

8. I dati del RIS (qui riferiti al 2006), che confronta 208 regioni europee in base a un repertorio di indicatori relativi all’innovazione, mostravano come nessuna regione italiana rientrasse nei primi trenta posti della graduatoria continentale; solo il Lazio (44°) figurava tra le prime 50, mentre altre cinque regioni comparivano nella metà superiore: Lombardia (71°) e Piemonte (73°), con il medesimo score, Emilia-Romagna (81°), e più distanziate Liguria e Friuli Venezia-Giulia. Per contro, ben otto regioni italiane erano incluse tra le ultime cinquanta.

9. Il tema è stato frequentemente sollevato, tra gli altri, da Sergio Bologna nel corso di più interventi pubblici, oltre che nella pubblicazione Ceti medi senza futuro, Derive Approdi, Roma 2007.

10. A. Enrietti, L’industria dell’auto fra crisi e trasformazionein La Questione settentrionale. Economia e società in trasformazione(a cura di G. Berta), Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2007.

11. Curiosamente, nell’arco di pochi mesi, sono stati pubblicati (con discreta enfasi sulla stampa locale) due “global report” che sulle possibilità di “uscita dalla crisi” del territorio torinese fornivano due previsioni di segno diametralmente opposto. Da una parte il Global Metro Monitor 2010 della London School of Econoics e Deutsche Bank Research posizionava Torino al primo posto tra le città italiane italiano per opportunità di rilancio, seppure la città si posizionasse al di sotto della 100ma posizione tra le città incluse nel campione (150). Più recentemente uno studio del McKinsey Global Institute (“Urban World: mapping the economic power of cities”), basato sul monitoraggio delle 2000 maggiori città metropolitane del mondo, forniva per il capoluogo piemontese una previsione di crescita pari a zero fino al 2025; peraltro le altre città italiane non uscivano molto meglio dal check up, poiché la crescita prevista per Roma era dello 0,2% e per Milano dello 0,4%.