In quale direzione sta andando la Cina?

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di Elisa Chinellato

Nei primi anni 2000 la crescita cinese è stata invidiabilmente alta, sebbene un poco rallentata dopo lo scoppio della crisi finanziaria globale. Gli indicatori sociali davano importanti segnali di miglioramento nella qualità della vita della popolazione cinese e la povertà aggregata diminuiva, perciò le prospettive di crescita economica erano positive. Allo stesso tempo, però, il governo cinese era chiamato ad affrontare e contrastare alcuni cambiamenti sempre più visibili, cambiamenti che iniziavano a palesarsi con forza all’interno della società cinese: le disuguaglianze in Cina stavano aumentando, il costo della crescita in termini di problemi ambientali stava crescendo così come la dipendenza dall’estero per lo sfruttamento di alcune risorse naturali, in particolar modo di quelle energetiche.

Tre domande sono divenute palesi nella Cina nata dopo le riforme. Quali sono le componenti che influenzano in maniera fondamentale l’attuale sviluppo cinese? Quanto del progetto di Deng di creare una “società del benessere” è stato veramente realizzato?[1] E ancora, quali sono, oggi, le grandi sfide, soprattutto a livello interno, che la Cina deve affrontare?

È oramai assodato quanto la crescita cinese sia stata formidabile e decisamente unica nella storia e come questa essa abbia alimentato una crescita del reddito pro-capite che, a sua volta, è stata una delle determinanti fondamentali del drastico calo del tasso di povertà: se dopo l’avvio delle riforme, nel 1981, secondo le stime della World Bank, i poveri che in Cina vivevano con meno di 1,25 dollari al giorno (PPA) rappresentavano circa il 40% del totale della popolazione, nel 2011 tale percentuale era scesa all’1,3 %.

Accanto a tendenze positive per la povertà assoluta, sono però aumentate le disparità. Le disuguaglianze di reddito e nella qualità della vita tra popolazione urbana e popolazione rurale sono cresciute, così come le disparità nelle condizioni lavorative, nei servizi assistenziali e nell’istruzione.

Dal punto di vista strettamente economico, il percorso compiuto dalla Cina durante il ventennio delle riforme ha permesso a questo paese di presentarsi al mondo all’inizio del nuovo Millennio con un tasso di crescita del PIL reale molto sostenuto che l’ha condotta alla seconda posizione nell’economia mondiale. Esportazioni e importazioni sono diventate il grande motore della crescita cinese all’inizio del nuovo millennio.

In parte per le scelte economiche portate avanti durante l’epoca delle riforme, in parte per questioni “storiche”, la Cina si è presentata all’inizio del XXI secolo con una strategia economica caratterizzata da alti risparmi e bassi consumi delle famiglie, questi ultimi fermi a meno della metà del PIL e ben al di sotto di una media mondiale che si attestava intorno al 78%. Vi era inoltre una grande accumulazione di capitale e una crescita trainata soprattutto dalle esportazioni.

Gli IDE (investimenti diretti esteri) in entrata sono stati uno dei driver principali della crescita cinese: durante il primo decennio delle riforme erano giunti a rappresentare una percentuale sul PIL decisamente bassa rispetto a quanto accadeva alle altre economie asiatiche nel medesimo periodo ma, a partire dalla fine degli anni Novanta, lo stock degli investimenti diretti esteri in entrata cominciarono ad aumentare rapidamente giungendo nel 2000 al 16,2% del PIL.

L’aumento degli IDE è stato particolarmente significativo nel primo quinquennio del nuovo Millennio, ed ha contribuito a realizzare una quota importante nella crescita economica del paese nel periodo in esame.

La Cina è inoltre approdata nel nuovo Millennio con un livello di consumo sia pubblico sia privato cresciuto sensibilmente, ma con una percentuale dei consumi sul PIL decrescente. Fino al rilancio dei consumi privati a partire dalla seconda metà del primo decennio del Duemila, il consumo è stato soprattutto trainato dai consumi pubblici.[2] La caduta del tasso di consumo si è accompagnata alla crescita dei risparmi: nel periodo 2010-13 il tasso di risparmio lodo totale rappresentava oltre il 50% del PIL. Un confronto tra consumi e investimenti permette di portare alla luce un aspetto che ha caratterizzato e caratterizza tutt’ora l’economia cinese e la sua esperienza di crescita: la Cina ha puntato molto sugli investimenti e sulle esportazioni, ma ha dato un’importanza relativa al sostegno dei consumi.

L’insieme delle riforme commerciali e legali intraprese dalla Cina a partire dall’inizio degli anni Novanta ha notevolmente inciso anche sul suo modello di specializzazione internazionale, dirigendolo prevalentemente verso la produzione di quei beni per cui il paese godeva di un vantaggio comparato indiscutibile, ossia quelli ad alta intensità di lavoro o, comunque, che richiedevano fasi produttive standardizzate.

Protagonista indiscusso della crescita internazionale dell’economia cinese è stato il settore industriale, in particolar modo quello manifatturiero, che ha registrato un catching up senza precedenti. Secondo quanto fornito dai dati del governo cinese, la produzione manifatturiera nel 2012 rappresentava circa il 45% del PIL, seguito dal settore dei servizi (43,1%) e dal settore agricolo (10%)[3]

L’industria è divenuta il motore della crescita cinese, attraverso una specializzazione produttiva che, con il tempo, è diventata del tutto peculiare. Da una parte, la Cina risulta avere un vantaggio comparato in quei beni prodotti attraverso tecniche ad alta intensità di lavoro. Ma dall’altra presenta un vantaggio comparato anche nei settori più avanzati, in primis quello tecnologico, come i computer e la telematica, dove contribuisce nelle fasi di lavoro più intensive e che richiedono manodopera scarsamente qualificata.

Nello specifico la convenienza della Cina a specializzarsi deriva proprio dal fatto che i prodotti scambiati sui mercati internazionali non sono standardizzati. La Cina ha saputo sfruttare soprattutto l’abbondanza di fattori produttivi e l’apertura alla partnership straniera cosicché, oggi, le quote internazionali della Cina nei settori in cui ha un vantaggio comparato riguardano soprattutto quelli dove vi è un uso intensivo dei fattori produttivi e una frammentazione verticale della produzione.

Il vantaggio comparato di cui oggi la Cina gode e che le permette di continuare a crescere rapidamente deriva in parte dalla delocalizzazione produttiva attuata in questo paese dalle imprese multinazionali. Non a caso il peso percentuale della produzione dei settori tradizionali, quale il tessile e l’ alimentare, è diminuita mentre è cresciuta la produzione dei settori tecnologici.

Corollario di questa caratteristica del settore industriale cinese è che il paese deve esportare moltissimo per poter sostenere il costo dell’importazione dei prodotti con un valore aggiunto più elevato di cui è carente, così da cercare di mantenere la sua bilancia delle partite correnti in surplus o in equilibrio.

Il catching up registratosi nel settore industriale cinese raccoglie, anche se solo in parte, i frutti del modello di crescita industriale coreano e taiwanese. Queste due sono state, storicamente, dopo il Giappone, le principali economie asiatiche a ridurre il divario con i paesi occidentali nel più breve tempo. Il modello coreano di recupero tecnologico è avvenuto mediante la nascita di grandi conglomerati industriali (Chaebol) che si appoggiavano, e si appoggiano tutt’ ora, a centri di ricerca e sviluppo creati e promossi dal governo mentre la crescita taiwanese è stata portata avanti soprattutto da un gran numero di piccole e medie imprese che si sono appoggiate alle multinazionali straniere[4]. Il settore industriale cinese si configura come il risultato della somma dei due modelli di crescita citati appena sopra, a cui si unisce lo sfruttamento degli IDE stranieri, come è capitato più generalmente nel modello di crescita dell’intero Sud-Est Asiatico. La Cina vanta grandi imprese come Lenovo o Huawei in grado di competere con le multinazionali straniere nel mercato interno ed estero ma che, da una parte, hanno strategie di partnership con le multinazionali per le quali si impegnano nell’attività di assemblaggio finale dei prodotti, dall’altra parte sono anche abbastanza forti per operare sui mercati occidentali con acquisizioni o investimenti[5].

Questo nuovo modello di crescita ha spinto con successo il Paese verso l’interconnessione che è quanto mai evidente nella pratica di subfornitura tramite la quale le imprese straniere affidano alcune parti del processo produttivo alle imprese cinesi per mantenere sotto controllo i propri costi di produzione[6].

Il sistema appena delineato ha portato la Cina ad essere, oggi, leader delle esportazioni mondiali: se nel 2000 le esportazioni cinesi erano un terzo di quelle statunitensi e la metà di quelle coreane e tedesche nel 2013 la Cina si è inserita al primo posto tra i paesi esportatori superando gli USA, la Germania e il Giappone.

A partire dal Duemila, però, la Cina ha scoperto non solo di avere tra i più alti tassi di crescita economica del mondo, ma anche un livello di diseguaglianza interna assai elevato.

Sin dall’epoca maoista, i servizi sociali in Cina sono sempre stati erogati da un sistema basato in gran parte sulle comuni agricole e le imprese statali: la loro progressiva ristrutturazione e, in diversi casi, la vendita delle imprese statali ha comportato per la maggior parte della popolazione la perdita di importanti benefici assistenziali in un periodo in cui i costi iniziavano ad aumentare.

Quanto appena illustrato ha inevitabilmente innescato una corsa al risparmio che si è rivelata inefficiente e potenzialmente pericolosa. Dato che in Cina la principale forma di risparmio è il deposito bancario, questo sistema ha finito con l’aumentare la liquidità già in eccesso degli istituti di credito e, inevitabilmente, a contrarre i consumi privati. L’assenza di un welfare veramente universale, come verrà spiegato di seguito, non ha fatto altro che contribuire a rafforzare la situazione appena brevemente delineata.

A partire dal Decimo Piano Quinquennale, la leadership politica ha cercato di affrontare il problema di una società che le riforme avevano reso marcatamente ineguale. Quando la Cina ha iniziato il suo cammino di riforma era uno dei paesi più poveri del mondo. nonostante una politica interna intenzionata a perseguire una strategia di riduzione della povertà della sua popolazione, le diseguaglianze sono aumentate molto più che in altre regioni asiatiche e in America Latina.

La crescita della diseguaglianza è particolarmente evidente nel rapporto tra popolazione urbana e popolazione rurale e tra le regioni. Secondo il Fondo Monetario Internazionale il gap di reddito tra popolazione urbana e rurale registra, oggi, un rapporto di 3:1 a favore delle città e secondo le statistiche fornite dall’Ufficio Nazionale di Statistica cinese ad avere il reddito più alto nel 2010 erano le regioni costiere. Quest’ultime hanno infatti potuto beneficiare per prime delle riforme e dei provvedimenti di apertura nei confronti del mercato che hanno ampliato le opportunità lavorative al di fuori del settore statale e di quello agricolo e accresciuto la ricchezza dei centri urbani. La diseguaglianza tra regioni è, però, una questione complessa dal punto di vista dei dati di cui si può disporre: quasi tutte le statistiche in merito fanno riferimento alla quota di PIL pro capite ma i dati relativi alla popolazione che servono per misurarlo non tengono conto della grande quantità di lavoratori migranti che il sistema dell’hukou rende “invisibili”: le statistiche finiscono per sovrastimare il PIL pro capite delle regioni costiere che sono quelle che maggiormente attraggono la forza-lavoro migrante e siccome il fenomeno migratorio è cresciuto enormemente negli ultimi anni il tasso di crescita del PIL pro capite tra le regioni risulta per alcune sovrastimato[7].

Il sistema pensionistico, quello sanitario e quello educativo sono la riprova di quanto in Cina la strada per appianare le diseguaglianze tra mondo rurale e mondo urbano sia decisamente in salita. Durante l’epoca maoista più del 90% della popolazione rurale godeva di assistenza sanitaria di base gratuita e garantita dalla cooperativa di appartenenza. Le cose sono cambiate con la progressiva decollettivizzazione delle comuni agricole e la nascita del sistema di responsabilità: nelle zone rurali il sistema sanitario garantito in passato venne completamente smantellato e nel 2003 solamente il 20% della popolazione rurale godeva di una qualche forma di assistenza sanitaria di natura, però, privata[8].

La situazione è diversa per le aree urbane dove i lavoratori residenti ufficiali si vedono garantite due tipologie di copertura sanitaria, una a cui contribuiscono con il 30% del proprio salario e un’altra garantita dall’impresa per cui lavorano. Tuttavia i migranti interni illegali non godono in genere di tali provvidenze.

Lo sviluppo economico cinese presenta degli squilibri non solo dal punto di vista sociale ma anche dal punto di vista dello stesso modello di crescita, la quale è fortemente sbilanciata a favore di risparmi, esportazioni ed investimenti.

Un primo fattore di squilibrio nella crescita cinese nasce nel rapporto tra settore privato e settore pubblico[9]. Tra il 2005 e il 2012 gli investimenti compiuti dalle imprese di stato sono aumentati allo stesso ritmo degli investimenti delle imprese private e molto di più di quelli compiuti dalle imprese di proprietà straniera. In risposta alla crisi finanziaria globale la Cina ha intensificato il sistema di incentivi all’investimento basato sull’Outbound Catalogue[10] favorendo soprattutto gli investimenti delle imprese di stato all’estero, tramite il rafforzamento del sistema di prestito, segnale di una continua preferenza dei canali di stato per i progetti di internazionalizzazione[11].

Lo scarso ribilanciamento della politica economica a favore dei consumi privati è il secondo elemento di forte squilibrio oggi evidente nel modello di crescita economica cinese. La contrazione registrata nel tasso di consumo ha avuto il suo contraltare nell’aumento del ruolo degli investimenti nella crescita cinese, trainati dall’aumento dei risparmi. Nel periodo 2010-2013, secondo quanto analizzato dal Fondo Monetario Internazionale, il rapporto medio tra investimenti e PIL ha raggiunto il 48%, il più alto tra le economie appartenenti al G-20, mentre il tasso di consumo privato continuava a contrarsi[12].

La crescita dell’occupazione si è accompagnata ad un incremento della produttività del lavoro nel settore industriale e dei servizi, ma anche a una crescita moderata dei salari. Ciò si è rivelato vantaggioso dal punto di vista del costo del lavoro, ma è stato anche una delle cause dell’aumento dei risparmi privati.

Un altro elemento di squilibrio è evidenziato dalla composizione della forza lavoro[13]. Storicamente, la crescita cinese è stata principalmente affidata al settore manifatturiero e agricolo, piuttosto che al settore dei servizi che ha cominciato a crescere in maniera sostenuta dall’inizio del nuovo Millennio. Lo sviluppo del settore dei servizi e un aumento della forza lavoro in questo settore sono stati frenati da almeno tre elementi: il settore dei servizi garantisce una scarsa copertura nel contesto della sicurezza sociale, manca un solido sistema finanziario in grado di sviluppare un altrettanto solido mercato finanziario per i cittadini e le imprese private cinesi e, infine, il tasso di cambio fortemente sottovalutato ha inciso positivamente nel rendere la Cina competitiva nei costi di produzione e nelle esportazioni, ma ha influito negativamente sulla crescita del settore dei servizi[14].

Tuttavia, con l’avvento del nuovo Millennio il governo cinese è diventato maggiormente conscio della necessità di un riequilibrio nella crescita economica e sociale. A partire dal Decimo Piano Quinquennale 2000-2005, ma ancora di più con i due Piani successivi 2006-2010 e 2011-2015, la leadership cinese si è apertamente posta il problema di un maggior equilibrio e una maggiore qualità dello sviluppo economico. Le parole d’ordine che hanno accompagnato l’implementazione dei tre Piani che si sono susseguiti dall’inizio del Duemila sono state continuità, armonia e stabilità.

Nei primi cinque anni del Duemila la Cina ha avuto come obiettivo quello di garantire che la crescita fino ad allora realizzata non subisse una battuta d’arresto ma proseguisse ad un ritmo sostenuto. Le politiche della leadership centrale hanno mirato, pertanto, alla correzione del problema del basso livello di consumo privato mediante la richiesta ai governi locali di aumentare il salario minimo e attraverso una politica di riduzione delle tasse, in particolare quelle riguardanti i cittadini delle aree rurali[15]. All’incoraggiamento da parte della leadership centrale nei confronti delle amministrazioni locali affinché portassero avanti questi obiettivi, si è affiancato un aumento sensibile della spesa pubblica nei settori sociali come la sanità e l’istruzione.

Ma è soprattutto con l’Undicesimo e il Dodicesimo Piano che la Cina ha dimostrato di voler imprimere una svolta vera e propria nel suo sentiero di crescita.

Tra il 2006 e il 2010 la Cina ha perseguito l’obiettivo della correzione dei suoi squilibri. In altre parole: la leadership centrale si era resa ufficialmente conto di come il rapido sviluppo economico si era accompagnato a cambiamenti strutturali che avevano contribuito alla crescita degli squilibri economici e sociali, per non parlare degli effetti negativi sull’ambiente. Sotto l’Undicesimo Piano Quinquennale dunque, la Cina è intervenuta in tema di protezione sociale attraverso il miglioramento dei servizi assistenziali e l’aumento della copertura pensionistica attraverso la raccolta dei dividendi delle imprese statali. Ha aumentato la flessibilità del tasso di cambio dello yuan-RMB, introdotto una tassa sui carburanti e aumentato gli investimenti pubblici per rendere l’agricoltura più moderna[16].

L’ampio pacchetto di stimolo per prevenire i possibili effetti della crisi economica globale improntato a una crescita della green economy e delle infrastrutture non ha, però, fatto si che i progressi nel riequilibrare la crescita dessero completamente i frutti sperati. Se da un lato l’export è rallentato, riequilibrando (modestamente) la bilancia commerciale, e le disparità di reddito sono diminuite (anche se di pochi punti percentuali), dall’altra non si è registrato un progresso sufficiente nello spostare la crescita economica verso il settore dei servizi piuttosto che quello industriale e non si è registrato un adeguato miglioramento nei principali indicatori ambientali, quali l’emissione di CO2.

Dall’armonia si è dunque passati alla stabilità. Il Dodicesimo Piano Quinquennale, che copre l’economia cinese dal 2011 al 2015, dà ancora più enfasi al miglioramento degli standard di vita della popolazione.

Questo Piano è innovativo soprattutto per due ordini di ragioni. Perché richiede apertamente di spostare a monte la catena del valore produttivo, ponendo maggiore enfasi su innovazione[17], ricerca e qualità della vita dei lavoratori. Ma anche perché, per la prima volta, viene apertamente discusso il nodo della corruzione con l’annuncio di programmi volta a combatterla in tutti i livelli governativi anche attraverso un programma di miglioramento nell’allocazione delle finanze pubbliche.

La leadership cinese è ben consapevole dei limiti del modello di export-led con cui il paese è cresciuto dagli anni 1990 a oggi ed è altrettanto consapevole delle difficoltà nel creare una crescita economica qualitativa piuttosto che quantitativa. La Cina continua a essere, infatti, un paese ancora troppo legato alle esportazioni e agli investimenti. A livello sociale le politiche di welfare sono ancora troppo deboli e azioni positive in questo senso dovrebbero riguardare non più soltanto una politica di espansione del credito e delle infrastrutture quanto, piuttosto, tagli fiscali mirati (soprattutto una riduzione delle tasse sui consumi e sulla spesa sociale) ed un aumento della spesa pubblica verso le fasce più deboli della popolazione .

La Cina deve anche intervenire sul rapporto tra redditi da lavoro e redditi da capitale. Negli ultimi due decenni il paese ha registrato una notevole diminuzione della quota dei redditi da lavoro, una situazione che in Cina è aggravata dal basso costo della manodopera a causa dell’enorme surplus di forza lavoro proveniente dalle aree rurali[18]. Tutto ciò influisce notevolmente sulla crescita delle diseguaglianze. I redditi da capitale sono infatti meno equamente distribuiti dei redditi derivanti dal lavoro. Un mercato del lavoro maggiormente regolamentato e un aumento del salario minimo dovrebbero aiutare a far crescere la quota dei redditi da lavoro sul PIL.

Pechino ha effettivamente cambiato marcia all’ombra dei due piani quinquennali, considerati come i più innovativi dal punto di vista delle politiche di cui si fanno portatori. Questo però, se da un lato ha significato la nascita di una maggior attenzione nei confronti dei problemi sociali, dall’altra non è ancora stato completamente in grado di risolvere gli squilibri presenti nel suo sistema economico. Si tratta di una sfida che il Dodicesimo piano quinquennale, a cui si unisce il programma China 2030[19], ha raccolto e sta portando avanti in un processo in divenire che, come appena illustrato, presenta molte luci ma anche numerose ombre.

 

[1] All’avvento delle riforme Deng mise in evidenza come tutti i provvedimenti presi erano attuati con l’ottica di creare una società xiaokang, una società del benessere che, in termini economici, era individuata laddove i cittadini potessero disporre di un PIL pro capite tra gli 800 e i 2000 dollari.

[2] http://databank.worldbank.org/data/views/reports/tableview.aspx

[3] In particolare la produzione agricola è passata dal rappresentare circa il 30% del PIL durante gli anni Ottanta, a meno del 20% a partire dagli anni Novanta, segno della perdita di importanza di questo settore a favore di industria e servizi che, invece, hanno registrato la tendenza opposta (cfr. National Statistical Yearbook, 2011 e World Bank Indicators).

[4] La Acer è oggi un grande colosso taiwanese pur mantenendo numerosi contratti di subfornitura con imprese multinazionali occidentali.

[5] Assessing China’s Economic Catch-Up at the Firm Level and Beyond: Washington Consensus, East Asian Consensus and the Beijing Model, K. Lee, M. Jee and J. H. Eun, in “Industry and Innovation”, 2014.

[6] Ibidem.

[7] Inequality in China: an overview, J. Knight, The World Bank Research Observer, 2013.

[8] China From Poor Areas to Poor People China’s Evolving Poverty Reduction Agenda, World Bank Document, 2009.

[9] Two Sides of the Same Coin? Rebalancing and Inclusive Growth in China, H. Lee, M. Syed, and X. Wang, IMF Working Paper, 2013.

[10] Si tratta del Catalogo contenente tutti i settori nella quale il governo centrale incoraggia l’investimento estero da parte delle imprese cinesi.

[11] China’s economic growth and rebalancing, European Central Bank, 2013.

[12] How effective are Macroprudential Policy in China?, B. Wan and T. Sun, IMF Working Paper, 2013.

[13] China quarterly upgrade: sustaining growth, World Bank Working paper, 2012.

[14] Inequality in China: an overview, J. Knight, The World Bank Research Observer, 2013.

[15] In particolar modo venne introdotta una riforma fiscale nel 2000 con l’obiettivo di ridurre la pressione fiscale uniformandola per tutte le città ed i villaggi. Principali interventi furono l’eliminazione di tutte le tasse informali nonché l’adeguamento dei trasferimenti da parte dei governi di livello superiore.

[16] International Bank for Recostruction and Development and Multilateral Investments Guaranteed Agency Country Partnership Strategy for the People Repubblic of China, for the period FY 2013-2016, World Bank Document, 2012.

[17] Il governo cinese ha varato nel 2012 un pacchetto di spesa pari a 609 milioni di dollari per sostenere le imprese in grado di produrre innovazione. Questa politica di promozione dell’innovazione tecnologica prevede anche lo spostamento verso le regioni centrali di molti processi produttivi, con l’obbiettivo di favorire l’occupazione e contrastare, di conseguenza, l’immigrazione interna (cfr. Refurbishing State Capitalism: A Policy Analysis of Efforts to Rebalance China’s Political Economy, C. A. McNally, in “Journal of Current China Affairs”, 2013).

[18] Two Sides of the Same Coin? Rebalancing and Inclusive Growth in China, I. H. Lee, M. Syed, and X. Wang, International Monetary Found Paper, 2013.

[19] Nel settembre del 2010 la Cina e la Banca Mondiale celebrarono i primi trent’anni di collaborazione. Data considerata storica negli ambienti istituzionali dello stesso governo cinese, per commemorare questa partnership Pechino ha varato una nuova collaborazione con la Banca quello stesso anno con l’obbiettivo dichiarato di identificare e analizzare le sfide che Pechino dovrà affrontare nei prossimi vent’anni (China 2030, Buildng a Modern, Harmonious and Civil Society, World Bank document and Refurbishing State Capitalism, A Policy Analysis of Efforts to Rebalance China’s Political Economy).