Ancora sulle Primavere arabe

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di Jean-François Bayart

L’aggravarsi della guerra civile in Siria, la restaurazione autoritaria in Egitto, la tensione politica in Tunisia, la destabilizzazione del Libano, il caos perpetuo in Irak e Libia, l’irrigidirsi dell’autoritarismo di Erdoğan in Turchia, lo spettro della ripresa di un conflitto armato in Afghanistan – ammesso che si sia mai interrotto – facilitano scontati giochi di parole su l’«Autunno» o l’«Inverno» arabo e una ben triste antifona: «ve l’avevamo detto (che i musulmani erano inadatti alla democrazia)!»

Dal punto di vista della sociologia politica, l’inutilità o l’infantilismo di questi commenti eguagliano l’ingenuo entusiasmo che aveva accompagnato le Primavere arabe all’inizio del 2011. Avendo messo in guardia dall’emettere giudizi prematuri sulla «rivoluzione dei gelsomini» (1) in Tunisia, sento di avere il diritto di mettere in guardia contro l’irresponsabilità, per non parlare dell’idiozia, di tutti gli strani “liberali” o “democratici” e altri “laici”, che appoggiano il colpo di stato militare in Egitto – con l’allucinante pretesto che in fondo non è che un solo caso – e che sarebbero pronti a fare altrettanto se l’esercito prendesse il potere in Tunisia o in Turchia. Costoro non hanno imparato nulla dal putsch dei generali algerini del gennaio del ‘92 – e dall’orribile guerra civile che ne è scaturita – nonostante la responsabilità diretta della Sécurité militaire francese sia ormai di dominio pubblico.

Se però non possiamo impedire né agli intellettuali e attivisti del mondo arabo di “mettere i propri genitali sugli elettrodi” e di oliare da soli le sbarre delle loro prigioni, né ai loro omologhi occidentali di far pagare ad altri le proprie fobie identitarie, possiamo cercare di introdurre un po’ di ragione sociologica in un dibattito che ha perso ogni orientamento filosofico, etico e politico.

 

Possiamo parlare di una Primavera araba?

Per quanto di marca giornalistica e intuitiva, l’analogia delle rivolte del 2011, con la Primavera dei popoli nel 1848 (piuttosto che con la Primavera di Praga del 1968) aveva senso per tre motivi (2).

Il primo è che anche in questo caso “Primavera” andava coniugato al plurale, anche se usiamo il singolare. Da un contesto nazionale all’altro l’effetto di trascinamento è evidente, così come lo era stato in Europa nel 1848. Tuttavia, ciascun caso aveva la propria specificità, sia nelle sue origini, sia nella sua contingenza. Così come la rivoluzione di febbraio a Parigi non aveva molto a che fare con gli eventi occorsi in Italia, con la domanda di unità nazionale in Germania, o la rivolta di Budapest contro l’assolutismo centralizzatore degli Asburgo, ciò malgrado possiamo parlare di Zeitgeist. Allo stesso modo il rovesciamento di Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto, la ribellione armata contro la dittatura di Gheddafi in Libia, la protesta civile contro Assad, la contestazione di Saleh in Yemen, l’occupazione di Pearl Square in Bahrain, il Movimento 20 febbraio in Marocco – per limitarci ai principali episodi della prima metà del 2011 – rispondono a proprie logiche locali.

In secondo luogo, l’evocazione del 1848, e in particolare del caso francese, ha il vantaggio di ricordare che una rivoluzione politica può nascondere un’altra mobilitazione, quella sociale, su cui essa si appoggia, ma che presto sopprimerà una volta esaurita la convenienza: il rovesciamento, a febbraio, della monarchia di Luglio portò al crollo del movimento solo quattro mesi dopo, con l’introduzione di una Repubblica di stampo ultra conservatore che condurrà il suo presidente a istituire un Secondo Impero. In altre parole, dopo febbraio arriva giugno … e poi dicembre. In Tunisia è la questione sociale che ha scosso il regime di Ben Ali, e non è sorprendente che i successori di quest’ultimo non l’abbiano ancora affrontata, anche se non hanno (ancora?) affogato nel sangue i poveri che reclamano quanto loro dovuto. In particolare, il bacino minerario di Gafsa rimane dormiente, senza che questo apparentemente preoccupi Ennahda o anche, più curiosamente, la sinistra, i “democratici” e gli intellettuali tunisini (3). In Egitto, il viaggio da febbraio a dicembre è stato ancora più veloce.

Infine, il 1848 fu segnato dal trionfo dell’idea nazionale – o dello Stato-nazione – e da quello del capitalismo globale, forte dell’adozione del libero scambio, della rivoluzione industriale, dell’invenzione della macchina a vapore, della costruzione di ferrovie intercontinentali e della diffusione di linee telegrafiche transoceaniche. La Primavera dei Popoli dimostrò come l’universalizzazione dello Stato-nazione e il capitalismo non costituissero un gioco a somma zero, ma piuttosto una sinergia (4). La lezione rimane valida per il Medio Oriente e il Maghreb contemporaneo.

Da un lato, la comunità dei credenti musulmani – la umma – non ha alcuna significativa espressione politica, se non sotto la forma dell’Organizzazione di Cooperazione Islamica e della Lega araba a confronto con la quale l’Unione europea fa la parte di un coro gregoriano. Si è costituito un sistema regionale di Stati-nazione che assumono in sé gli stessi partiti islamici, che sono partiti nazionali che non sovvertono lo Stato, di cui intendono invece prendere il controllo, e che sono a volte gli eredi del nazionalismo più zelante, come Hezbollah in Libano, vincitore di Tsahal (IDF), o Hamas in Palestina, l’unica vera forza di resistenza all’occupazione israeliana. La traiettoria della rivoluzione iraniana aveva già dimostrato che lo Stato-nazione non è compatibile con l’Islam. Da questo punto di vista, l’Internazionale verde – l’unità d’azione che parte dai Fratelli Musulmani e si estende per tutto il Medio Oriente e il Maghreb, ovvero il perimetro dell’“arco di crisi” – all’interno della quale i jihadisti aumentano tra l’Afghanistan e la Mauritania, secondo i neo-conservatori francesi costituisce un partito fantasma. L’innegabile circolazione di combattenti da un fronte all’altro, la politica di franchising di Al Qaeda, l’aura ideologica del fondatore dei Fratelli Musulmani e gli scambi tra i movimenti che sostengono oggi, i finanziamenti politici e le armi che arrivano dal Golfo non assorbono la logica nazionale o locale. Che rimane irriducibile, come illustra la stessa storia dei Fratelli Musulmani, diversa a seconda che si tratti dell’Egitto o della Siria (5).

D’altro canto, la regione è entrata nell’epoca neoliberista già dal 1980, e i partiti islamici hanno a loro volta chiesto un “Islam di mercato” (6), sul modello dell’Akp turca; questo è dimostrato anche dall’orientamento della politica economica del PJD in Marocco, di Ennahda in Tunisia e – fugacemente – dei Fratelli Musulmani in Egitto. Ancora una volta, la Repubblica islamica dell’Iran – socialista e rivoluzionaria all’inizio – non fa eccezione. La liberalizzazione economica di Rafsandjani, per la ricostruzione nel 1990, è stata confermata dal riformista Mohammad Khatami dal 1997 al 2005, e addirittura radicalizzata da Mahmoud Ahmadinejad durante i suoi due mandati presidenziali del 2005-2013, nonostante il suo stile populista – o grazie ad esso? – ed è mantenuta ancora oggi da Hassan Rohani. Questa congiunzione dell’idea nazionalista e della globalizzazione capitalista, con la copertura dell’Islam, è così evidente nelle società arabo-musulmane contemporanee che diventa giustificato parlare di nazional-liberalismo piuttosto che di neoliberismo; un nazional-liberalismo di cui Recep Tayyip Erdogan e Ahmadinejad sono gli araldi stentorei (7).

Detto questo, dobbiamo ammettere che l’obiettivo delle Primavere arabe è stato costruito ideologicamente e politicamente dagli stessi attori, dai media, dai dirigenti occidentali presi in contropiede e, accessoriamente, da numerosi ricercatori che hanno approfittato dell’effetto inatteso e si sono precipitati a proclamare una nuova transizione, nonostante le loro precedenti delusioni e le critiche severe rivolte soprattutto da Guy Hermet e Michel Dobry a questo approccio, che è normativo e teleologico a un tempo (8).

A furia di voler scoprire una nuova ondata di democratizzazioni, gli uni e gli altri si sono bloccati su discussioni bizantine sul sesso delle rivoluzioni arabe, sulla loro stessa realtà e sulla loro natura, sulle loro origini e sulle loro cause. Perdendo, en passant, i risultati di decenni di lavori storici e sociologici che avevano sancito la futilità di tali questioni. Così facendo, abbiamo appiattito la specificità storica delle differenti situazioni nazionali e locali costitutive delle Primavere arabe, focalizzandoci su generiche categorie astoriche e asociologiche, quali la “gioventù”, l’islam, la “società civile”, le “reti sociali”. È stata così introdotta una periodizzazione del tutto arbitraria, politicamente, oppure ideologicamente di parte. Perché non prendere come punto di partenza delle “Primavere arabe”, o almeno musulmane, altri movimenti popolari come le rivolte algerine dell’ottobre ‘88, la rivoluzione politica in Mali del marzo ‘91, l’elezione di Mohammad Khatami a presidente della Repubblica islamica d’Iran o la Riforma indonesiana del ‘98, se non per restare fedeli ad un immaginario orientalista dell’arabismo, evitare la suscettibilità e l’interessata collera del grande vicino meridionale e non oltrepassare i limiti del “sicuritariamente corretto”?

In sostanza il problema è il termine “arabo”, piuttosto che l’idea di una “Primavera” e ancor di più il mostro semiologico di un mondo supposto come “arabo-musulmano”. Perché così come tutti gli arabi non sono musulmani, la maggioranza dei musulmani non sono arabi. E nei paesi arabi vivono berberi, curdi, ebrei, armeni, cristiani di discendenza europea, e sempre di più, migranti di altre origini. La questione, inoltre, è etnica o religiosa piuttosto che metodologica. Stiamo parlando di democrazia o di capitalismo in questa regione del mondo? O di una particolare specificità storica, irriducibile a quella già complessa della religione? O ancora di strutture sociali potenzialmente contraddittorie con il monoteismo universalista come il “principio di segmentarietà”, su cui ha tanto insistito Ernest Gellner, che ha visto nei fondamenti dell’Islam confraternite di santi in tensione con la religione ortodossa e gli eruditi ulema?

Ad ogni modo sarebbe molto discutibile una sociologia politica che non situasse gli eventi del 2011 in continuità con le precedenti mobilitazioni – relativizzando il ruolo dei social network nel cominciare la contestazione – senza evidenziare una tradizione di lotte civili, sociali, politiche che attestano una vecchia tradizione di militanza. Ad esempio: lo sciopero nel bacino minerario di Gafsa, in Tunisia, nel 2008; le rivolte che hanno ostacolato la liberalizzazione economica negli anni ‘70 e ‘80, sanguinosamente represse in Egitto, Tunisia e Marocco; i movimenti civili come la campagna per il milione di firme contro la discriminazione delle donne in Iran nel 2003; il movimento verde di protesta contro le frodi elettorali, sempre in Iran, nel 2009; o la “Primavera di Beirut”, nel 2005, dopo l’assassinio del Primo ministro Hariri.

La questione non è allora solo di ordine accademico. È eminentemente politica e di scottante attualità: in Tunisia, il decreto n. 97 del 2011 ha circoscritto il periodo rivoluzionario e ha sancito un risarcimento per le vittime della repressione poliziesca dal 17 dicembre del 2010 al 4 gennaio del 2011, escludendo i militanti e i giovani del bacino minerario di Gafsa che hanno subito l’ira del regime in seguito allo sciopero del 2008 (9). La mobilitazione di questi ultimi ha condotto le autorità ad accordare ai feriti nel corso di quegli eventi una compensazione monetaria più o meno simile, ma fuori da ogni quadro giuridico e in modo del tutto discrezionale. Cosa che rischia di portare al contenzioso anche l’iniziativa dei “martiri” dello sciopero generale del ‘78 o della rivolta del pane del 1984.

Più fondamentale ancora, le Primavere arabe possono essere iscritte in una linea di nazionalismo radicale che risale agli anni ‘50 – per esempio lo youssefisme in Tunisia, soprattutto in una città come Jendouba – o di un riformismo islamico del XIX secolo, e conosciuto come “momento moderno” (10) dell’Islam – che passa direttamente verso i Fratelli musulmani egiziani; ma più in generale, l’idea stessa di uno “Stato civile” (madani) si deve al riformista Muhammad Abduh, che rappresenta la maggior parte dei partiti islamici contemporanei – o ancora la storia locale come quella della città di Gafsa o la rivolta dei djebels Chambi a Kasserine, all’inizio del XX secolo in Tunisia.

Le Primavere arabe hanno scandito un cambiamento politico di tipo lineare, condensando “trasformazioni” di diverso tipo, trasformazioni complesse che solo la loro specificità storica rende intellegibili (11). Le Primavere hanno condiviso uno stesso momento, una stessa “situazione generale” (12), che caratterizza anche, più o meno, la grandezza e la decadenza dell’autoritarismo, la transizione demografica, la messa in opera di politiche pubbliche di ispirazione neoliberale in sostituzione del nazionalismo economico di Stato. Ma ognuno di questi fattori appare sotto una luce particolare a livello nazionale e si coniuga in modo diverso nelle diverse regioni di ciascun paese. Le “situazioni generazionali”, in termini sub-regionali, sono mediate da “gruppi reali” di militanti solidali tra loro, cui la frequentazione della stessa università, preferibilmente in Occidente, può conferire una dimensione transnazionale, ma che ancora una volta si erano formati nei misteri (labirinti?) delle storie nazionali e locali, dei sindacati, dei partiti, delle confraternite, delle istituzioni educative e culturali, dei cineclub, delle squadre sportive, dei circoli aziendali. In effetti ogni società chiamata arabo-musulmana ha la sua storia particolare – nazionale e territoriale –, che si manifesta sotto forma di una grande diversità nell’organizzazione dei rapporti sociali, della produzione, degli scambi economici, delle istituzioni, e nella loro elaborazione dell’immaginario. Agli antipodi delle differenti versioni dello storicismo, di ispirazione liberale e “transitologica”, o marxista, o culturalista, conviene partire da questo principio di storicità se vogliamo comprendere che cosa fossero e che cosa sono diventate le Primavere arabe nella loro pluralità, e anche nella loro relativa unità, e come si sono combinati i due aspetti.

 

Scenari

Dagli eventi di breve durata che hanno scosso questa parte del mondo dal 2011 stanno emergendo diversi scenari. Essi andrebbero considerati al di fuori delle narrazioni teleologiche e normative della transizione, o del tradimento, alle quali potrebbero al massimo sovrapporsi. In altre parole, nessun motivo storico e contingente e nessun fattore esplicativo li sovradetermina.

 

Il primo scenario, quello che sembrava sancire il corso delle cose, tra cui le elezioni, è stata la risposta conservatrice che i partiti islamici sono stati in grado dare alla mobilitazione popolare. Tali partiti sono stati in grado di essere presenti e di rispondere alle aspettative religiose e di maggiore giustizia sociale grazie al prestigio guadagnato durante gli anni in cui hanno subito la repressione dai vituperati regimi autoritari, beneficiando, oltre che dei finanziamenti ricevuti dalle monarchie del Golfo, della loro relativa verginità politica (13). Non dobbiamo troppo forzare il ragionamento comparativo per parlare di “rivoluzioni passive” delle piccole contro-élite rurali – prendendo in prestito concetto e analisi da Antonio Gramsci – e della mutazione che ne è seguita.

Le vittorie elettorali di Ennahda in Tunisia e della Fratellanza Musulmana in Egitto, così come del Partito della Giustizia e dello sviluppo (Pjd ) in Marocco nel contesto particolare della monarchia e la regola della sua Makhzen (ndt: governo del re del Marocco) (14), mostrano come questa sia la miglior chiave di lettura per il periodo 2011-2013. Questo percorso non è senza precedenti: l’inquadramento della rabbia popolare da parte del Fronte di salvezza islamico in Algeria, durante i disordini dell’ottobre 1988, su richiesta di un esercito travolto dal movimento giovanile urbano nei tre anni di multipartitismo che ne seguirono; il sequestro della rivoluzione iraniana da parte della figura tutelare di Khomeini e del partito repubblicano islamico che lo ha sostenuto; la partecipazione alla Riforma indonesiana delle principali forze politiche o sociali musulmane dopo la caduta del regime di Suharto, al cui regime erano stata associate. Sono, questi ultimi, eventi scritti tutti con lo stesso inchiostro. Inoltre, il modello più o meno esplicito dei partiti islamici coinvolti nel processo di risposta conservatrice alla mobilitazione popolare era il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) in Turchia, che è salito al potere per via elettorale nel 2002, senza aver nulla a che fare con una situazione di tipo rivoluzionario, ma iscrivendosi in un contesto sociale, economico e storico radicalmente diverso (15).

La risposta conservatrice che i partiti islamici hanno dato alla crisi politica non è necessariamente un’esclusiva della religione musulmana.

In un’opera fondamentale, Aux frontières de la démocratie, Guy Hermet ha chiarito che la logica dell’Europa del XIX secolo era l’obbedienza cristiana. E ha concluso: «Paradossalmente, (…) i migliori strateghi della democratizzazione non sono sempre i democratici più convinti, mentre gli istigatori del fallimento in molti casi sono stati tra i suoi araldi più zelanti» (16). L’Islam rischia di ispirare impeti rivoluzionari – come tra gli attivisti MKO e Foqan in Iran nel 1970, che hanno affrontato con le armi alla mano il potere di Khomeini, considerato conservatore –, o una sensibilità autoritaria riformista o a volte socialista, come nel caso delle diverse correnti della sinistra turca. Ma la chiave è oggi altrove. Nell’orientamento neoliberale dei partiti islamici conservatori contemporanei, incarnata principalmente dall’AKP di Recep Tayyp Erdoğan e Abdullah Gül, e dalla neoconfraternita (cemaat) di Fethullah Gülen, che si definisce una come organizzazioni di servizio (hizmet). Tale orientamento neoliberale è fatto proprio da Ennahda in Tunisia, dai Fratelli Musulmani in Egitto o dal partito della Giustizia e Sviluppo marocchino, orientando la privatizzazione del welfare sul modello caritativo, anche nel contesto di strategie elettorali e clientelari (17). Questo “islam di mercato” non ha niente di “cosmetico”. La sua espressione politica risale tanto alle trasformazioni profonde del campo religioso, mercificato negli anni ‘90, quanto al domino di banche e finanza, industria e commercio; e nella formazione di predicatori che si ispirano all’evoluzione del cristianesimo nordamericano (18).

Arrivati al potere, i partiti islamici affrontano tre sfide che solo l’AKP è fin qui riuscito a gestire, anche se ha subito le proteste di Gezi, represse nel giugno 2013. La prima sfida è assicurare la crescita economica, che potrebbe migliorare il tenore di vita delle masse, al costo di un drastica revisione del precedente modello di sviluppo. La seconda è quella di mantenere il controllo delle manifestazioni politiche dell’Islam. La terza sfida è governare in un contesto parlamentare, evitando conflitti con i laici e con i sostenitori dei regimi autoritari precedenti. In Egitto e in Tunisia, i partiti islamici al potere non hanno potuto evitare di spaccarsi con i salafiti e non hanno dimostrato competenza economica. Inoltre, i Fratelli musulmani hanno perso l’iniziativa politica e Ennahda in Tunisia è sotto la doppia pressione dell’opposizione di sinistra e dei nostalgici del vecchio regime.

In effetti, l’avvento al potere dei partiti islamici per via elettorale si iscrive non solo nel tentativo di uscire dall’autoritarismo, ma anche in un Kulturkampf tra religiosi e laici. Se democratizzazione pactada ci deve essere, in stile brasiliano, argentino o cileno, si deve trovare un compromesso tra il partito di Dio e la “festa della birra”, come dicono a Gafsa, e allo stesso tempo tra democratici e sostenitori del vecchio regime. Questa non è una conclusione scontata a giudicare dall’asprezza del confronto tra Ennahda e l’opposizione di sinistra in Tunisia. Ma la partita non è persa in partenza: le famiglie da un lato, i governi di coalizione e le manifestazioni pubbliche, dall’altro, sono luoghi di accomodamenti reciproci, soprattutto in Marocco. L’esempio della Turchia, 2002-2013, mostra che il rapporto dell’Islam con la democrazia parlamentare o le libertà civili non è né statico, né a somma zero ma piuttosto progressista e contingente. Parte della intellighenzia liberale è passata dal sostegno critico all’AKP, fino al 2010, alla sua contestazione, quando il primo ministro Erdoğan è stato visto come una replica del populismo di Adnan Menderes. D’altronde, l’ideologia e lo stile di vita secolarizzato e laicista hanno avallato l’autoritarismo e sono stati dispositivi utili a produrre subordinazione sociale nella Turchia kemalista, in Iraq, in Siria, in Iran, in Egitto e nei paesi del Maghreb.

 

Il secondo scenario è quello della “restaurazione autoritaria” (19), di cui la regione ha fatto esperienza in Algeria con il golpe militare del gennaio 1992 e in Tunisia con la repressione indistinta di islamici e democratici dopo una breve fase di liberalizzazione post-Bourghiba (1987-1989). Questo è il modello che è pronto a trionfare in Egitto, a prescindere da ciò che dicono gli intellettuali laici, quando sostengono che i Fratelli Musulmani non fossero “il popolo” (20) – nozione “asociologica” – e dimenticano che, democraticamente parlando, le manifestazioni di piazza non possono cancellare la legittimità conferita da elezioni successive, anche quando il numero dei manifestanti è gonfiato dal capriccio di valutazioni di fantasia e materialmente poco plausibili. Al di là delle aberrazioni ideologiche, l’importante è osservare la determinazione dell’esercito e dei fouloul – i privilegiati del vecchio regime – che, per preservare il loro impero economico attraverso intermediazioni di potere, guidano una “strategia della tensione” senza l’appoggio dei Fratelli musulmani e con il sostegno del partito salafita al-Nour, i soldi dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, e grazie alla pusillanimità della politica regionale degli Stati Uniti, che inizia solo quando si ferma quella di Israele (21).

Guardiamo ora la Tunisia. I gruppi di interesse formatisi attorno a Ben Ali non hanno mai abbassato le armi. Tanto da tramare la ribellione di palazzo del 14 gennaio 2011, nella speranza di disinnescare la pressione dalla strada. Il partito Nidaa Tunes è il loro portavoce principale, ma ciò non esclude che, oltre ai quadri del vecchio regime, si siano uniti ad esso Ennahda e alcuni “democratici”, tra cui l’ex comunista Ettajdid. Da parte sua, Ennahda – in ogni caso la sua componente governativa –, che inizialmente aveva trattato il movimento salafita con qualche indulgenza paternalistica, rubricando i suoi eccessi come errori di gioventù o inesperienza, ha finito per reprimerlo senza tuttavia tagliare i ponti con esso, come tendono a dimostrare le varie rivelazioni sulle circostanze degli omicidi politici del 2013.

In questo quadro, si può chiedere conto della facilità con cui la maggior parte degli osservatori e attori politici danno per scontata la teoria della responsabilità di Ennahda nelle uccisioni, anche se varrebbe la pena spiegare il vantaggio che il partito islamico dovrebbe ricavarne. Una buona analisi politica sostiene che non può essere scartata a priori l’ipotesi secondo la quale lo “Stato profondo” abbia armato killer tunisini per fomentare l’ira di laici e destabilizzare il governo. Inoltre, l’incapacità dell’esercito algerino di controllare il confine con la Tunisia per arginare il traffico di benzina, moneta falsa e droga, ha destabilizzato le formazioni di islamisti intorno a Kasserine, la Keff e Jendouba. Ed è intrigante, e non manca di inquietare, visto che gli algerini non si sono mai rassegnati a vedere fiorire accanto a loro una esperienza democratica, o qualcosa di simile. Non senza aver fatto pressioni per stroncare sul nascere la liberalizzazione del regime neo-destour e il riconoscimento degli islamisti nel 1987-1989, dopo l’avvento al potere di Ben Ali (22).

 

Le Primavere arabe hanno dato luogo anche a un terzo scenario, quello della modernizzazione conservatrice, che ha spinto le monarchie a cambiar tutto affinché tutto rimanesse uguale, come auspicato da Tancredi nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (23). Questo è il percorso che avevano imboccato il Marocco, l’Oman e la Giordania a partire dagli anni 1980-1990, e questo è quello che ha ripreso con gusto Mohammed VI con la sua Makhzen nel 2011, facendo adottare una nuova Costituzione e accettando la vittoria alle elezioni del Partito della Giustizia e dello Sviluppo al fine di tagliare l’erba sotto i piedi al Movimento 20 Febbraio. Lo statuto reale del Comandante dei Fedeli – tradizione che avevano inventato i costituzionalisti francesi a vantaggio di Hassan II – è sancito, e con esso la centralizzazione dello Stato, dal momento che la carta fondamentale dà ora il monopolio del potere religioso al monarca (24) … Naturalmente questo non significa prendere alla lettera il desiderio di Tancredi e dei suoi omologhi nella regione. Singolarmente in Marocco lo scenario di modernizzazione conservatrice, lontano dal congelare le cose, apre nuove opportunità di trasformazioni sociali e politiche, che tuttavia non è certo che le parti sappiano sfruttare magari traendo profitto dalla Costituzione del 2011 (25).

Ma lo scenario a cui bisogna prestare la massima attenzione, e di cui le conseguenze saranno più gravi, è la guerra civile che ha travolto la Siria, dopo diversi mesi di protesta pacifica, prima ancora che la Libia, dove l’opposizione a Gheddafi si è immediatamente armata per resistere alla repressione. Nessuno dei due paesi è attualmente fuori dall’incubo, ed è inutile sottolineare la crudeltà di questo corso. Che tuttavia non è irreversibile e la regione vanta una lunga storia di patti politici tra forze radicalmente opposte, come in Tunisia (1857 e 1988), Giordania (1989 e 1993), Libano (1943 e 1989).

In primo luogo, le cosiddette guerre civili debordano rapidamente oltre i confini statali. Si internazionalizzano, causano un esodo di persone che intensifica il traffico di armi e di flussi finanziari interstatali o transnazionali, che destabilizzano l’equilibrio regionale. Il caso della Libia è paradigmatico: Tunisia e Mali continuano a soffrire il peso degli effetti collaterali. Le ricadute dalla guerra in Siria rischiano di essere ancora peggiore e potrebbero portare a conflitti internazionali di primaria importanza a causa del coinvolgimento di Iran, Russia, Turchia e paesi occidentali – per non parlare di Arabia Saudita e Qatar – e rovinare l’architettura del diritto internazionale fino a banalizzare persino l’uso di armi chimiche proibite.

Inoltre, il trauma che una guerra civile lascia nella memoria di una nazione è di lunga durata, come attestano Spagna, Grecia, Italia a giudicare dalle polemiche sollevate dalla pubblicazione del libro Una Guerra civile di Claudio Pavone nel 1991. Un conflitto di questa natura comprende anche esorbitanti costi economici e genera specifiche categorie di popolazione che il ritorno alla pace dovrà sostenere in un modo o nell’altro: vedove e orfani o, più in generale, persone che hanno perso i loro cari in condizioni spesso spaventose; criminali di guerra e sostenitori del vecchio regime; rifugiati e sfollati, che non torneranno e daranno vita a una diaspora con rimesse che peseranno nell’economia nazionale e nei rapporti sociali; ultimo, ma non meno importante, i combattenti, che richiederanno un prezzo per il loro coraggio e la loro vittoria o per compensare la loro sconfitta. Di tutti gli scenari della Primavera araba, quello della guerra civile è senza dubbio quello che segnerà più profondamente le società coinvolte, ma anche il loro ambiente. Il precedente dell’Afghanistan merita di essere ricordato (26).

In tutti questi casi, la Primavera araba non può essere ridotta a scenari disincarnati di tipo politologico. Essi costellano complessi e secolari processi di formazione dello Stato nel contesto tumultuoso del graduale smantellamento dell’impero ottomano, la creazione di imperi coloniali in alcune province e la loro dislocazione pochi decenni dopo, il crollo dell’Unione Sovietica, i conflitti regionali che hanno accompagnato questo cambiamento generale da un mondo di imperi a un mondo di Stati-nazione. Al centro di questo processo di formazione dello Stato, interviene quello di una classe dominante che si trasforma in difensore dello Stato con il pretesto del nazionalismo o del nazional-liberalismo. La relazione che lo Stato e la sua classe dirigente hanno con l’idea di democrazia è solo un aspetto particolare sia nella sua temporalità, sia nell’organizzazione contemporanea. Se si vuole capire la Primavera araba al di là di infatuazioni e passioni del momento, è necessario mettere in discussione la storicità delle situazioni in cui sono avvenute, in particolare per l’economia, il passato politico e morale.

 

Il mito dell’“eccezionalismo arabo-mussulmano”

Con l’occhio sul mirino dell’attualità, giornalisti e ricercatori, drogati dall’ideologia culturalista, hanno a lungo glossato sull’“eccezione” che avrebbe rappresentato il mondo “arabo-mussulmano”, incapace di liberarsi dall’autoritarismo nel momento in cui l’America Latina, l’Europa centrale e orientale, l’Africa subsahariana se ne emancipavano, negli anni 1980-1990 (27). Non si trattava che di un’illusione ottica. La maggior parte delle Repubbliche sovietiche, a partire dalla Russia, hanno ricostituito uno Stato di polizia sulle rovine dell’unione da cui sono uscite; solo la prospettiva dell’adesione a l’Unione Europea ha evitato questa sorte ai paesi dell’Europa centrale e orientale – anche se si possono sollevare dei dubbi sul caso dell’Ungheria –; rari sono i paesi subsahariani che non abbiano conosciuto una restaurazione autoritaria dopo la grande ondata di contestazione dei regimi a partito unico nel 1989-1991, la Cina e il Vietnam delle riforme non organizzano sempre delle elezioni degne di questo nome, i fronzoli neoliberali del potere di Hu Sen in Cambogia non ingannano nessuno, e in America Latina né il Venezuela né, soprattutto, Cuba si sono democratizzate. L’affermazione di un “eccezionalismo arabo-mussulmano” è dunque un partito preso orientalista.

Ora, questa tesi ha l’inconveniente (o il vantaggio, per i diplomatici e i dirigenti occidentali, sempre pronti a sostenere i regimi autoritari contro il comunismo, l’influenza russo-sovietica o l’islamismo, purché si mostrino accomodanti con Israele) di occultare la ricorrente protesta sociale o politica, di cui – l’abbiamo detto – le Primavere arabe sono eredi (28).

Gli ultimi cinquant’anni sono stati punteggiati da moti detti della fame o del pane (nel 1979 in Egitto, nel 1981, 1984 e 1990 in Marocco, nel 1984 in Tunisia, nel 1989 in Giordania), da moti urbani (a partire dagli anni 1990 in Iran), da movimenti studenteschi (a partire dal 1965 a Casablanca, nel 1969 in Iran), da mobilitazioni civiche (nel 2005 in Libano, nel 2009 in Iran), da scioperi generali o settoriali (nel 1978 e nel 2008 in Tunisia, per tutta la durata degli anni 2000 in Egitto e in Iran), da campagne di raccolte di firme (in Marocco e in Iran) e anche da campagne contro la svalutazione della moneta nazionale, come in Libano nel 1987! Apatici, fatalisti, gli “arabo-mussulmani”? È tutto da dimostrare, salvo ritenere che la repressione selvaggia e armata dei moti e perfino delle manifestazioni, che è prevalsa negli anni 1960-1980 – il mese d’agosto del 2013 ha provato che l’esercito egiziano non aveva perso la mano – costituisca un motivo politicamente illegittimo di smobilitazione che solo la cultura o la religione può spiegare!

L’argomentare razionale della sociologia storica della politica, e la sua preoccupazione di non banalizzare le società extra-europee, possono preservarci da queste sofisticherie da bar dello sport che continuano a inquinare il dibattito pubblico. Riconosciamo prima di tutto che l’islam non esiste dal punto di vista delle scienze sociali (29). Esso non rappresenta mai un fattore esplicativo pertinente. Inoltre, le società dette islamiche sono plurali. Anche al di fuori di questo famoso mondo arabo-mussulmano, devono essere presi in considerazione, nella loro specificità storica, i Balcani (Albania, Bosnia, Macedonia), l’Asia anteriore (Turchia, Iran, Afghanistan), l’Asia centrale (dall’Uzbekistan al Kirghisistan), l’Asia del sud (Bangladesh, Pakistan, India), l’Asia del sud-est (Indonesia), l’Africa subsahariana (in particolare il Sahel e la costa swahili) e anche le minoranze mussulmane nei paesi a maggioranza cristiana, confuciana, buddista o altre (a cominciare dai paesi occidentali, la Cina, la Birmania, le Filippine, la Russia).

Se ci si riferisce al cuore della terra d’Islam, si deve per forza riconoscere un oggetto politico ben identificato dai ricercatori: la “situazione autoritaria” (30), suscettibile di riprodursi nel lungo periodo sotto il travestimento di regimi differenti, magari apparentemente democratici, come sistema (o sistema, dicevano i brasiliani, all’epoca della dittatura militare). Di primo acchito, si possono ben distinguere due grandi periodi: la fase nazionalista, che hanno superbamente incarnato Mossadeq in Iran, Nasser in Egitto, Modibo Keita in Mali, Ben Bella e Boumedienne in Algeria, Ben Youssef , Ben Salah e – fino al 1969 – Burghiba stesso in Tunisia; e la fase di liberalizzazione economica, che hanno avviato Sadat in Egitto, Mussa Traore in Mali, Burghiba – dopo il 1969 – e Ben Ali in Tunisia, Chadli in Algeria, Hascemi Rafsandjani in Iran, e che conduce al momento neoliberale dell’islam, con Turgut Özal e Recep Tayyip Erdoğan, o Mahmud Ahmadinejad, come battistrada, rispettivamente in Turchia e in Iran. Dal periodo nazionalista e statalista al momento neoliberale, la continuità del dominio è palese, anche se le sue molle sono cambiate: così, l’intervento delle istituzioni multilaterali di Bretton Woods e il ruolo delle multinazionali hanno potuto “multilateralizzare” la cooptazione delle contro-élite potenziali grazie all’intermediazione delle organizzazioni non governative della “società civile internazionale” (31).

A proposito di queste situazioni autoritarie, prese nella loro diacronia, si possono formulare cinque osservazioni in grado di fornire lumi sul futuro delle Primavere arabe.

In primo luogo, la maggior parte di queste situazioni autoritarie, ripetiamolo, si sono cristallizzate al momento del passaggio dal mondo imperiale – compreso quello dei domini coloniali – a un mondo di Stati-nazione, quando una parte della leadership nazionalista ha estromesso la sua ala radicale, o religiosa, o molto semplicemente i suoi concorrenti. Tra gli episodi più spettacolari della captazione autoritaria dello Stato-nazione, citiamo i processi del 1925-1926 per mezzo dei quali Mustafa Kemal si è sbarazzato dei superstiti del Comitato Unione e Progresso, che potevano vantarsi di una legittimità propria nella lotta di liberazione nazionale, dell’opposizione parlamentare interna al nuovo regime repubblicano e delle autorità religiose ostili alle sue riforme di secolarizzazione, approfittando dello schiacciamento della ribellione curda di Sheikh Said; la repressione da parte di Nasser, nel 1954, degli Ufficiali Liberi e dei Fratelli Mussulmani, da cui proveniva egli stesso e che avevano contribuito a portarlo al potere nel 1952; la liquidazione dei messalisti e la marginalizzazione dei capi civili del FNL in Algeria; la distruzione dell’ala youssefista del Neo-Destur, l’assassinio dello stesso Ben Youssef nel 1961 e l’arresto di Ben Salah nel 1969; l’isolamento della sinistra e l’assassinio di Ben Barka in Marocco.

La situazione autoritaria ha generalmente riprodotto l’assegnazione identitaria di tipo etno-confessionale nella quale i colonizzatori avevano rinchiuso certi segmenti della popolazione, sia per emarginarli nella loro subalternità, sia per cooptarli nel loro sistema di dominio. È così che i libanesi furono “parcheggiati nelle loro confessioni” – per riprendere la formula eloquente del costituzionalista Edmond Rabbath (32) – e che l’Irak riprese a proprio uso la classificazione britannica dei suoi cittadini su di base etno-confessionale. È anche in questo modo che nacque la “questione kabyla” in Algeria, o quella degli Amazigh in Marocco, senza della dimenticare la “questione cristiana” in Egitto o nel Machrek.

È infine questa logica che la repubblica kemalista adottò in Turchia per saldare e completare economicamente il genocidio degli armeni del 1915, e per scambiare la sua minoranza greca con i turcofoni di Grecia, nel 1923. La regione non soltanto non è ancora uscita da questa ingegneria identitaria, della quale è egualmente tributario Israele, ma è in procinto di riattualizzarla nel contesto della rivendicazione democratica o della restaurazione autoritaria: processi sempre propizi alle problematiche dell’autoctonia politica, (33) magari sul filo della guerra civile, come in Siria e in Irak. Ricordiamo, di passata, che gli accordi di Dayton del 1995, che hanno costruito la “pace” e la “democrazia” per assegnazione identitaria su base etno-confessionale, costituiscono un precedente.

Ciò malgrado, i conflitti identitari sono una funzione matematica della formazione dello Stato, cosi come l’etnicità in Africa subsahariana. Il fatto fondamentale del passaggio dall’impero allo Stato-nazione è proprio l’accettazione del quadro nazionale, perfino quando esso è una creazione recente e artificiale come nel caso del Machrek e della penisola arabica – un quadro nazionale che il panarabismo e l’islam sono incapaci di dissolvere, e di cui sono al contrario uno dei fermenti. Nello stesso tempo, e col rischio di affliggere il lettore, bisogna egualmente rassegnarsi all’idea che la definizione laica di tale Stato-nazione e la secolarizzazione “dall’alto” della società hanno generato l’emergere di un quasi-ethnos, quello dei “moderni” educati all’europea, sprezzanti nei confronti della religione o in ogni caso della sua forma demotica, che voltano ostentatamente la schiena alla “tradizione” (e al popolo), e la cui ideologia, la cui preoccupazione di “distinzione”, la cui arroganza perfino, hanno nutrito una concezione autoritaria del riformismo o della rivoluzione, costitutiva di una classe dominante “nazionale”, e che riducono alla subalternità sociale la massa della popolazione, incluse, a parte qualche eccezione, le donne, a lungo tenute fuori dalla scuola dai colonizzatori.

Si vede così che l’autoritarismo è nato nel momento preciso del passaggio dall’impero allo Stato-nazione e che esso si nutre delle sue ideologie culturaliste. Caso per caso, è facile individuare delle “relazioni genetiche concrete” che portano dall’impero alla situazione nazional-autoritaria: per esempio, la filiazione dal Comitato Unione e Progresso alla repubblica kemalista; la sua eredità in Irak, e perfino in Siria, attraverso gli ex-ufficiali dell’esercito ottomano; il nesso tra modernizzazione conservatrice della monarchia sherifiana durante il Protettorato, sotto il bastone di Lyautey, e quella che sarà guidata dall’Istiqlal, poi da Hassan II, in Marocco; la rifondazione del cesaro-papismo mussulmano da parte dei colonizzatori francesi che si rifiutavano di estendere all’Algeria il regime della Separazione istituito nella metropoli nel 1905, e il suo rinnovamento da parte del FNL, subito dopo l’indipendenza; la concatenazione dei riformismi islamico, ottomano, coloniale e nazionalista in Tunisia; il peso della tradizione san-simoniana in Egitto, anche presso i Fratelli Mussulmani; l’occupazione del potere e dell’economia da parte delle elite kolkhosiane delle repubbliche dell’Asia centrale, fedeli all’etno-nazionalismo staliniano ben dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Queste concatenazioni non sono esclusive – è anche grazie a questo momento storico che si propagano le idee di libertà pubbliche e di diritti dell’uomo – e non possono essere considerate le sole responsabili della cristallizzazione delle situazioni autoritarie contemporanee, nella misura in cui le peripezie delle due guerre mondiali – di cui la regione è stata teatro di operazioni importanti –, gli imperativi della guerra fredda o, più recentemente, quelli della “lotta contro il terrorismo”, nonché il complesso di superiorità culturale degli adepti della secolarizzazione o della laicità le hanno egualmente puntellate. Dobbiamo tuttavia ammettere che non possiamo pensare l’autoritarismo nella regione se l’astraiamo dalla “storia concreta” del passaggio dall’impero allo Stato-nazione, nel XX secolo, e particolarmente dal suo rapporto con gli imperi coloniali.

Una delle manifestazioni di questo processo, in secondo luogo, è il carattere asimmetrico della formazione nello Stato. Questa asimmetria è prima di tutto di ordine etno-confessionale, come abbiamo già sottolineato, e in questo caso l’islam o l’arabismo non hanno alcun privilegio: la Grecia, Israele, la Serbia, la Bulgaria si sono allo stesso modo fondate su politiche di declassamento politico, perfino di purificazione etno-confessionale delle loro minoranze, secondo il parametro del culturalismo come ideologia fondamentale della globalizzazione dei due ultimi secoli. Ma l’asimmetria della formazione dello Stato è anche di natura territoriale, cosa che, daccapo, non si distingue per nulla dalle traiettorie prevalse altrove.

Così come il Piemonte, in Italia, o la Prussia, in Germania, sono stati i vettori regionali dell’unità, la Tripolitania si è imposta alla Cirenaica in Libia, il Delta alla Alta valle del Nilo in Egitto, Tunisi e il Sahel alle provincie dell’interno in Tunisia, o ancora il Sud sul Nord in Mali. La maggior parte dei conflitti che accompagnano le Primavere arabe, o che sono rilanciati da esse, sono prodotti derivati da questa doppia asimmetria: la questione copta e più generalmente cristiana, i problemi curdo e berbero, certamente, ma anche il malcontento dell’hinterland in Tunisia o della Jezirah in Siria (35). Inoltre, il dominio che rimettono in questione le Primavere arabe, con diverso successo, è spesso quello di una asabiyya (una fazione mossa da spirito di corpo, secondo Ibn Khaldun) che si aggrega attorno un uomo, una famiglia, una città, piuttosto che quella di una classe dominante nazionale, propriamente parlando, anche se quella serve più o meno gli interessi di questa: la Siria dà una misura tragica del grado di autonomia che può acquisire una tale asabiyya, in questo caso quella di Assad, rispetto alla borghesia, in particolare sunnita o cristiana (36).

Questo ci conduce a una terza particolarità delle situazioni autoritarie della regione. L’esercizio del potere è sdoppiato tra le istituzioni formali, quali il parlamento, il partito unico o dominante, fors’anche lo stesso capo di Stato, e le strutture occulte o di retroguardia che tuttavia sembrano controllare l’essenziale del gioco.

Nel caso limite, il capo di Stato è il semplice procuratore di un consiglio di amministrazione al quale deve rendere conto, secondo una configurazione ben conosciuta dagli africanisti, e che abbiamo già evocato a proposito dell’Egitto (37). I casi dell’Algeria e della Siria sono paradigmatici, come hanno evidenziato i processi di successione presidenziale. In un contesto molto diverso, è nota la supremazia del Makhzen marocchino, che la nuova Costituzione, la vittoria elettorale del PJD nel 2011 o l’apertura al multipartitismo nell’ultimo periodo del regno di Hassan II non hanno rimesso in discussione. Quanto alla Repubblica islamica dell’Iran, essa è parimenti dominata da istanze tanto amichevoli quanto competitive malgrado la forza delle sue istituzioni rappresentative, istanze che la figura della Guida della Rivoluzione sussume, probabilmente più di quanto trascenda.

Ora, le Primavere arabe hanno certamente accentuato questo sdoppiamento delle strutture di potere: inducendo lo “Stato profondo” a farsi più profondo ancora, all’occorrenza nel quadro di una “strategia della tensione” destinata a favorire la restaurazione autoritaria; essendo opacamente investite dalle petrol-monarchie, le cui risorse finanziarie sembrano illimitate; diffondendo il neoliberismo i cui parternariati pubblico-privati e le pratiche di subappalto nella gestione delle imprese permettono montature politiche sul posto che sono agli antipodi della “trasparenza” tanto sbandierata dai suoi idolatri e possono essere risorse particolarmente flessibili dell’autoritarismo, come ha evidenziato l’esternalizzazione di alcuni servizi della compagnia nazionale dei fosfati nel bacino minerario di Gafsa a favore di operatori appartenenti a questa o a quell’altra tribù e che già controllano gli organismi locali del partito unico (38).

In quarto luogo, è anche importante interrogarsi sull’economia politica delle situazioni autoritarie, ben oltre la tematica logora e normativa della “corruzione” di alcune “mafie” che ha fiaccato il dibattito pubblico durante le Primavere arabe, particolarmente in Tunisia (39). Si tratta in realtà di un grossolano accumulo di capitale sotto la copertura di regimi i cui registi cavalcano in prima persona o per intermediario della loro famiglia e della loro asabiyya, posizioni di potere e posizioni di accumulo. Configurazione classica che si ritrova sotto tutti i cieli, e a cui il capitalismo occidentale è tutt’altro che estraneo. L’esercito ne è stato il gran beneficiario, per esempio in Turchia, in Egitto, in Algeria, in Iran, in Pakistan, in Indonesia, in Mauritania, e anche in un paese come il Marocco, nonostante la supremazia del Makhzen nell’economia del paese. Poiché, senza dubbio, le monarchie praticano esse stesse “il cavalcare”, quando non si tratta della “fusione-acquisizione”!

Una delle poste delle Primavere arabe si gioca allora sulla capacità dei protagonisti della situazione autoritaria di far durare a lungo la loro influenza sul mondo degli affari a dispetto dei cambiamenti politici. Un modo facile per riuscirci è quello di non mollare il boccone politico, a costo di sacrificare un po’ di zavorra, come il Partito comunista e l’esercito in Cina, o di restaurare un potere autoritario di tipo poliziesco imbellettato con un multipartitismo di facciata, come ha fatto Vladimir Putin in Russia.

Questa è la via che sembrano aver privilegiato gli eserciti egiziano e algerino. Tale è ugualmente la razionalità della “situazione termidoriana” in Iran (40). Ma l’esempio della Turchia, come quello della Thailandia, nell’Asia del sud-est, prova che l’istituzione militare può mettere a profitto il neoliberismo e compensare economicamente le perdite politiche cagionate dalla democratizzazione: spossato istituzionalmente e giudiziariamente dall’AKP, l’esercito – fatto anche salvo che esso resta un proprietario fondiario e immobiliare di prima grandezza, sia in città sia sulle coste – si è riorganizzato industrialmente e finanziariamente dagli anni ‘80 grazie alla creazione di due fondi extra budget, il TSKMEV (Fondazione Mehmetçik delle Forze armate turche) e l’SSDF (Fondo di sostegno all’industria della difesa), istituiti rispettivamente nel 1982, dal regime militare, e nel 1985, dal primo ministro civile Turgut Özal, nell’estensione di fondi pensione creati a partire dal 1961, l’Istituto di assistenza mutualistica dell’esercito (OYAK), forte di molteplici privilegi fiscali e giuridici, e divenuto, nell’intersezione dei settori pubblico e privato, una delle tre principali holding del paese, insieme con i gruppi Koç e Sabaci (41).

È evidente, dunque, che le situazioni autoritarie hanno radici nella storia, che sono politicamente e istituzionalmente così complesse che la nozione di dittatura non ha valore se non polemico, e che la loro base economica va oltre la semplice predazione “mafiosa”. Non ci si stupirà anche, in quinto e ultimo luogo, che esse dispongano di una autentica base popolare e che vengano prodotte “dal basso” dalle politiche pubbliche di uno Stato supposto onnipotente. Certo, non bisogna minimizzare l’ampiezza della repressione cui gli autoritarismi si abbandonano, e che assume talora dimensioni spaventose. In questi tempi in cui ci si turba per il supposto utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Assad contro la propria popolazione, nessuno deve dimenticare che manifestazioni, tumulti e ribellioni sono stati soffocati nel sangue con una brutalità inaudita a partire dagli anni ‘50 nella maggioranza dei paesi della regione, e la palma dell’orrore spetta a Iraq, Siria e Algeria, senza che peraltro ciò abbia dissuaso i dirigenti occidentali dal fare di Saddam Hussein, Assad padre e figlio o i militari algerini, partner d’elezione per lunghi anni. È parimenti di moda stigmatizzare il carattere repressivo della Repubblica islamica dell’Iran, ma il controllo poliziesco cui essa sottopone la propria popolazione è ben al di qua della sorveglianza panottica sui tunisini a opera del regime di Ben Ali, dal 1987 al 2011, e anche di quello di Bourguiba l’Adulato. Infine, in tutta la regione la tortura è stata (e resta) una realtà quotidiana cui non sfuggono né i delinquenti comuni, né gli oppositori politici.

Ciononostante, la longevità, la resilienza delle situazioni autoritarie non si spiegano solo con il ricorso sistematico alla coercizione, ancorché accertato. Questi regimi hanno anche proceduto per redistribuzione – in particolare con il sotterfugio delle sovvenzioni pubbliche ai prodotti di prima necessità, la cui diminuzione o soppressione è sempre stata la loro pietra d’inciampo e il disinnesco di gravi tumulti –, per cooptazione e tramite una sorveglianza, un controllo o una repressione economica che hanno generato una fetta di “schiavitù volontaria” (42). Ciò che in ambito normativo e polemico si definisce la corruzione non è null’altro che una modalità di questa cooptazione, nel contesto dato di economia politica e morale. Ora, quel contesto è prodotto da istituzioni sociali o rappresentanze culturali, ivi comprese quelle religiose, che hanno conservato la propria autonomia nei confronti dello Stato autoritario. Si tratta certamente di una società civile, cioè una società in rapporto con lo Stato, piuttosto che indipendente da esso, una società civile che non sussume assolutamente il mondo delle ONG internazionalmente riconosciute: per esempio quelle delle gilde del bazar, degli ulema, dei sindacati, che non sono riusciti a mettersi completamente al passo dei regimi muscolari come quelli di Moubarak e Ben Ali. Soprattutto, lo Stato deve venire a patti con l’ordine e l’ethos della famiglia, altra istituzione sociale sulla quale la sua influenza è tra le più scarse, e che la Repubblica islamica dell’Iran, nel suo più forte slancio rivoluzionario, non ha segnatamente mai potuto sottomettere (43).

È il motivo per cui sono così ingannevoli le interpretazioni binarie che, per esempio, mettono l’accento sull’irriducibile conflitto tra Stato (dolat) e nazione (mellat) in Iran, o sulla dominazione “mamelucca”, poi beldi, in Tunisia. Anche il mito dello “Stato forte” turco ormai si dilegua. Quest’ultimo è sempre stato in interazione con la società, e penetrato dalle sue componenti, al punto da veder minacciata la propria integrità, come nella seconda metà degli anni ‘80 (45). Oggi le asserzioni sull’entrismo della neoconfraternita (cemaat) dei fethullahci [ndt seguaci di Fethullah] nella polizia e nella giustizia, finanche nel governo, non è che una manifestazione di questa antiquata realtà. Gli Stati della regione costituiscono dunque una variante di ciò che ho definito come “Stati-rizoma” (46), in cui gli scambi con la società non si riducono alla sola resistenza di quest’ultima a ciò che loro si oppone, con questa o quella modalità sediziosa, ma a tutta una gamma di “transazioni collusive” (47) o “transazioni egemoniche” (48) alle quali possono peraltro contribuire o condurre i famosi tumulti della “via araba”. L’hanno dimostrato nel dettaglio le ricerche di Fariba Adelkhah e di Asef Bayat sull’Iran, di Diane Singerman, di Julia Elyachar e di Patrick Haenni sull’Egitto, o di Irene Bono sul Marocco (49).

La questione cruciale è allora quella di fare le parti dell’agency e della capacità d’azione dei gruppi sociali subordinati nel quadro della dominazione che si esercita su di loro, secondo la definizione puntuale che ne aveva dato Edward Thompson (50) (ma che è stata purtroppo offuscata dal suo abuso) e della capacità propria di questi stessi gruppi di produrre del sociale, anzi politico, in spazi/tempi altri da quelli dei regimi o degli Stati. Si ritrova in quell’ambito un dibattito che ha corso negli studi coloniali (51). Su questo piano, le analisi, citate in modo sistematico, di Asef Bayat sulla “quieta invasione dell’ordinario” (the quiet encroachment of the ordinary) per iniziativa dei subalterni, per esempio sotto forma di insediamento spontaneo o di commercio di strada informale, sono piuttosto deludenti, nonostante il loro apporto di informazioni (52). Esse restano prigioniere della visione semplicistica delle “armi del debole” (53) cara a James Scott, della categoria restrittiva di agency e di una concezione univoca della “resistenza”. Il concetto di “riservatezza”, di “senso di sé” (Eigensinn) che ha proposto Alf Lüdtke nella sua “storia del quotidiano” della classe operaia tedesca, è molto più euristico per comprendere la formazione dello Stato nella sua integralità, nella sua complessità e nella sua ambivalenza, tenendo conto dell’istituzione immaginaria della società nella dimensione della sua economia morale (54). Lüdtke getta nuova luce non solo sulla riproduzione della situazione autoritaria con il passare dei decenni, ma anche sulla vera posta delle Primavere arabe (55).

 

Perché di ciò non bisogna disperare, nonostante la tristezza – o la gioia cattiva – che regna ormai negli animi. È ben possibile – probabile? – che i processi di restaurazione autoritaria, la rigenerazione termidoriana dell’avventura rivoluzionaria, la modernizzazione conservatrice delle monarchie o la prosecuzione di una coercizione spietata finiscano per ricondurre a sistema e le “democrazie senza democratici” (56). Ma è improbabile che gli eventi dei due ultimi anni non abbiano colpito in profondità le società e non abbiano seminato i germi di altre trasformazioni, d’altre fratture. D’altronde fu così nel caso della Primavera dei Popoli nel 1848. I suoi effetti si fecero sentire nel lungo periodo, molto tempo dopo che il fumo dei cannoni che l’avevano soffocata nei vari paesi del Vecchio Continente, dal 1852, si era dissipato. In politica, come nella natura, le stagioni si susseguono e non si somigliano. Ciò nondimeno, è molto raro che le rondini non ritornino sulle terre che hanno visitato.

 

 

Note

(1) Indécences franco –tunisiennes (17 gennaio 2011) e Tunisie: la partie n’est pas jouée (29 marzo 2011)

(2) Perry Anderson paragona allo stesso modo la « Primavera araba » con le Guerre di liberazione del 1810-1825 nell’America ispanica e con la caduta dei regimi del blocco dell’est nel 1989-1991 : « On the concatenation in the Arab world », New Left Review, 68, marzo-aprile 2011, pp. 5-15.

(3) Si veda, a cura di Béatrice Hibou, « Mouvements sociaux : refus de l’économisme et retour au politique », Economia [Rabat],13, novembre 2011-febbraio 2012, pp. 21-58, in particolare le frasi riferite da Maurizio Gribaudi, « Entre ordre et justice sociale : deux conceptions de la démocratie », pp. 27 –30; Béatrice Hibou, « Le moment révolutionnaire tunisien en question : vers l’oubli du mouvement social ? » (pdf), Paris, CERI, maggio 2011 ; Béatrice Hibou (in collaborazione con Hamza Meddeb e Mohamed Hamdi), La Tunisie d’après le 14 Janvier et son économie politique et sociale. Les enjeux d’une reconfiguration de la politique européenne, Copenhaghen, Réseau euro –méditerranéen des droits de l’Homme, giugno 2011.

(4) Jean-François Bayart, Le Gouvernement du monde. Une critique politique de la globalisation, Paris, Fayard, 2004.

(5) Olivier Carré, Gérard Michaud, Les Frères musulmans. Egypte et Syrie (1928 –1982), Paris, Gallimard, Julliard, 1983.

(6) Patrick Haenni, L’Islam de marché. L’autre révolution conservatrice, Paris, Le Seuil, 2005.

(7) Sul concetto di nazional-liberalismo, si veda Jean-François Bayart, Le Gouvernement du monde, op. cit. e Sortir du national-libéralisme. Croquis politiques des années 2005-2012, Paris, Karthala, 2012.

(8) Per una discussione rigorosa delle Primavere arabe nei termini della sociologia e dell’economia politica, si veda, a cura di Béatrice Hibou, « La Tunisie en révolution ? », Politique africaine, 121, marzo 2011, pp. 5-67 e, a cura di Mounia Bennani-Chraïbi e Olivier Fillieule, « Retour sur les situations révolutionnaires arabes », Revue française de science politique, 62 (5-6), ottobre-dicembre 2012, pp. 767-939. La Ve Rencontre européenne d’analyse des sociétés politiques (Paris, 2-3 febbraio 2012), « Les Printemps arabes : mythe et fictions », ha egualmente dato luogo a degli scambi molto ricchi ed è accessibile in versione audio (http://www.fasopo.org/reasopo.htm#jr). Si veda altresì G. Hermet, Le passage à la démocratie, Paris, Presses de Sciences Po, 1996 e M. Dobry, « Les voies incertaines de la transitologie : choix stratégiques, séquences historiques, bifurcations et processus de path dependence », Revue française de science politique, vol. 50, n° 4-5, août-octobre 2000.

(9) Sul movimento sociale del 2008, vedi Amin Allal, « Réformes néolibérales, clientélismes et protestations en situation autoritaire. Les mouvements contestataires dans le bassin minier de Gafsa (2008) », Politique africaine, 117, marzo 2010, pp. 107-126.

(10) Nadine Picaudou, L’Islam entre religion et idéologie. Essai sur la modernité musulmane, Paris, Gallimard, 2010.

(11) Sulla distinzione tra «cambiamento» e «trasformazioni», vedi Michel Foucault, L’Archéologie du savoir, Paris, Gallimard, 1969, pp. 224-228.

(12) Karl Mannheim, Le Problème des générations, Paris, Nathan, 1990.

(13) Sulla capacità dei movimenti islamici a rispondere alle attese sociali, poco studiata, vedi Mohamed Tozy e Béatrice Hibou, L’Offre islamiste de justice sociale au Maroc et en Tunisie, Paris, Fasopo, dicembre 2012 e novembre 2013, che dimostrano al tempo stesso l’ambivalenza, le contraddizioni perfino, della letteratura politico-religiosa in materia, e l’inanità delle politiche condotte dai governi venuti fuori dagli eventi del 2011 in questi due paesi.

(14) Sulla Sonderweg marocchina, si veda Mohamed Tozy, Monarchie et islam politique, Paris, Presses de Sciences Po, 1999.

(15) Jean-François Bayart, L’Islam républicain. Ankara, Téhéran, Dakar, Paris, Albin Michel, 2010, capitolo 3.

(16) Guy Hermet, Aux frontières de la démocratie, Paris, Presses universitaires de France, 1983, p. 207.

(17) Sul caso turco, vedi Ayşe Buğra, « Poverty and citizenship : an overview of social policy environment in Republican Turkey », International Journal of Middle East Studies, 39, 2007, pp. 33-52 ; sul caso del Marocco e della Tunisia, vedi Mohamed Tozy e Béatrice Hibou, L’Offre islamiste de justice sociale au Maroc et en Tunisie, op. cit.

(18) Vedi, oltre Patrick Haenni, L’Islam de marché, op. cit., Fariba Adelkhah, Etre moderne en Iran, Paris, Karthala, 1998 e Les Mille et une frontières de l’Iran. Quand les voyages forment la nation, Paris, Karthala, 2012 ; Gwenaël Njoto-Feillard, L’Islam et la réinvention du capitalisme en Indonésie, Paris, Karthala, 2012 ; Ayse Buğra, Osman Savaşkan, « Politics and class : the Turkish business environment in the neoliberal age », New Perspectives on Turkey, 46 (2012), pp. 27-63; Irene Bono, Mohamed Wazif, Nouvelle visibilité islamique et dynamique du capitalisme contemporain au Maroc, Paris, Fasopo, maggio 2010.

(19) Avevo proposto questa nozione riguardo alle strategie di restaurazione dei regimi presidenziali a partito unico in Africa dopo la grande ondata di rivendicazioni democratiche, nel 1989-1991, e in generale sotto la copertura di un multipartitismo di facciata. Si veda per esempio Jean-François Bayart, « La problématique de la démocratie en Afrique noire. La Baule, et puis après ? » (pdf), Politique africaine 43, ottobre 1991, pp. 5-20 e « L’Afrique invisible », Politique internationale 70, inverno 1995-1996, pp. 287-300.

(20) Si veda L’interview consternante de Mahmoud Hussein [Bagat Elnadi e Adel Rifaat] in Libération, 16 agosto 2013, pp. 6-7.

(21) Sulla «strategia della tensione» condotta da Ahmad Shafiq, l’ultimo Primo Ministro di Mubarak, e sfortunato candidato alle elezioni presidenziali del giugno 2012, a partire dagli Emirati Arabes Uniti, vedi Esam Al-Amin, « The Grand Scam : spinning Egypt’s military coup », Counterpunch, 19-21 luglio 2013.

(22) L’impotenza dell’esercito algerino sulla frontiera tunisina è tanto più curiosa in quanto si mostra nello stesso momento più efficace sulla frontiera marocchina, se si giudica da diverse testimonianze e reportages: vedi per esempio Isabelle Mandraud, « A la frontière entre l’Algérie et le Maroc, la guerre de l’essence est déclarée », Le Monde, 3 ottobre 2013.

(23) Tomasi di Lampedusa, Le Guépard, Paris, Le Seuil, 2007, p. 32 (nuova traduzione di Jean-Paul Manganaro, coll. « Points »).

(24) Mohamed Tozy, « Des oulémas frondeurs à la bureaucratie du ‘croire’. Les péripéties d’une restructuration annoncée du champ religieux au Maroc » in Béatrice Hibou, a c. di, La Bureaucratisation néolibérale, Paris, La Découverte, 2013, pp. 129-154.

(25) Béatrice Hibou, « Le Mouvement du 20 février, le Makhzen et l’antipolitique. L’impensé des réformes au Maroc » (pdf) ; Mohamed Tozy, « Islamists, technocrats and the Palace », Journal of Democracy, 19 (1), gennaio 2008, p. 34-41.

(26) Vedi per esempio Fariba Adelkhah, a c. di, « Guerre et terre en Afghanistan », Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée, 133, giugno 2013.

(27) Per una critica di questa spiegazione, vedi Ghassan Salamé, a c. di, Démocraties sans démocrates. Politiques d’ouverture dans le monde arabe et islamique, Paris, Fayard, 1994.

(28) Vedi per esempio Mounia Bennani-Chraïbi, Olivier Fillieule, a c. di, Résistances et protestations dans les sociétés musulmanes, Paris, Presses de Sciences Po, 2003.

(29) Jean-François Bayart, L’Islam républicain, op. cit.

(30) Guy Hermet, « Dictature bourgeoise et modernisation conservatrice. Problèmes méthodologiques de l’analyse des situations autoritaires », Revue française de science politique, XXV (6), dicembre 1975.

(31) Julia Elyachar, Markets of Dispossession. NGOS, Economic Development, and the State in Cairo, Durham, Duke University Press, 2005 e « Finance internationale, micro-crédit et religion de la société civile en Egypte », Critique internationale, 13, ottobre 2001, pp. 138-152.

(32) Citato in Ghassan Salamé, dir., Démocraties sans démocrates, op. cit., p. 147.

(33) Jean-François Bayart, Peter Geschiere e Francis Nyamnjoh, « Autochtonie, démocratie et citoyenneté en Afrique », Critique internationale, 10, gennaio 2001, pp. 53-70.

(34) Max Weber, L’Ethique protestante et l’esprit du capitalisme, Paris, Plon, 1964 (riedizione nella collezione Agora, 1985), p. 44.

(35) Vedi, sul caso tunisino, http://blogs.mediapart.fr/blog/jean-francois-bayart/241011/la-tunisie-vue-de-louest-ou-le-trompe-loeil-electoral e Béatrice Hibou, in collaborazione con Jean-François Bayart e Hamza Meddeb, La Révolution tunisienne vue des régions. Néolibéralisme et trajectoire de la formation asymétrique de l’Etat tunisien, Paris, Fasopo, dicembre 2011.

(36) Michel Seurat ne aveva dato molto presto la dimostrazione: si veda il suo volume postumo L’Etat de barbarie, Paris, Le Seuil, 1989.

(37) Jean-François Bayart, Béatrice Hibou, Stephen Ellis, The Criminalisation of the State in Africa, Oxford, James Currey, 1998 e Jean-François Bayart, « L’Afrique invisible », art. cit.

(38) Béatrice Hibou, «Tunisie. Economie politique et morale d’un mouvement social», Politique africaine, 121, marzo 2011, pp. 5-22. Si veda anche, sul «quarto settore» nell’Iran contemporaneo, Fariba Adelkhah, Les Mille et une frontières de l’Iran, op. cit.

(39) Béatrice Hibou, La Force de l’obéissance. Economie politique de la répression en Tunisie, Parigi, La Découverte, 2006 e « Le moment révolutionnaire tunisien en question : vers l’oubli du mouvement social? », art. cit.(http://www.sciencespo.fr/ceri/sites/sciencespo.fr.ceri/files/art_bh.pdf )

(40) Jean-François Bayart, L’Islam républicain, op. cit., cap. 4.

(41) Gabriela Anouck Côrte-réal Pinto, Armée sans frontière. Redéploiement économique du pouvoir militaire dans la Turquie néolibérale, Parigi, Istituto di studi politici di Parigi, 2012.

(42) L’opera classica è quella di Béatrice Hibou, La Force de l’obéissance, op. cit., le cui pubblicazioni successive hanno ben mostrato, nella circostanza, che non c’era alcun «eccezionalismo arabo» nella materia e che il regime tunisino poggiava su impulsi simili a quelli dei regimi nazional-socialista, fascista e comunista (si veda in particolare il suo Anatomie politique de la domination, Parigi, La Découverte, 2011).

(43) Fariba Adelkhah, Être moderne en Iran, op. cit. e La Révolution sous le voile. Femmes islamiques d’Iran, Parigi, Karthala, 1991.

(44) Fariba Adelkhah, Les Mille et une frontières de l’Iran, op. cit. e Etre moderne en Iran, op. cit.; M’Hamed Oualdi, Esclaves et maîtres . Les Mamelouks des Beys de Tunis du XVIIe siècle aux années 1880, Parigi, Publicazioni della Sorbona, 2011.

(45) Benjamin Gourisse, L’Etat en jeu. Captation des ressources et désobjectivation de l’Etat en Turquie (1975-1980), Parigi, Università Parigi I Panthéon Sorbona, 2010, (in pubblicazione presso le edizioni Karthala, nel 2013).

(46) Jean-François Bayart, L’Etat en Afrique.La politique du ventre, Parigi, Fayard, 1989 [2006].

(47) Michel Dobry, Sociologie des crises politiques. La dynamique des mobilisations multisectorielles, Parigi, Stampe della Fondazione nazionale di scienze politiche, 1986.

(48) Jean-François Bayart, Romain Bertrand, « De quel ‘legs colonial’ parle-t-on? », Esprit, dicembre 2006, pp. 134-160.

(49) Fariba Adelkhah, Etre moderne en Iran, op. cit. e Les Mille et une frontières de l’Iran, op. cit.; Julia Elyachar, Markets of Dispossession, op. cit.; Patrick Haenni, L’Ordre des caïds. Conjurer la dissidence urbaine au Caire, Parigi, Karthala, 2005; Diane Singerman, Avenues of Participation. Family, Politics, and Networks in Urban Quarters of Cairo, Princeton, Princeton University Press, 1995; Asef Bayat, Street Politics: Poor Peoples Movements in Iran, New York, Columbia University Press, 1997; Béatrice Hibou, La Force de l’obéissance, op. cit.; Hamza Meddeb, Courir ou mourir. Course à el khobza et domination au quotidien dans la Tunisie de Ben Ali, Parigi, Istituto di studi politici di Parigi, 2012, (http://www.fasopo.org/reasopo/jr/th_meddeb.pdf) e « L’ambivalence de la ‘course à el khobza’. Obéir et se révolter en Tunisie », Politique africaine, 121, marzo 2011, pp. 35-52; Irene Bono, « Le ‘phénomène participatif’ au Maroc à travers ses styles d’action et ses normes », Les Etudes du CERI, 166, giugno 2010 e « L’activisme associatif comme marché du travail. Normalisation sociale et politique par les ‘activités génératrices de revenus’ à El Hajeb », Politique africaine, 120, dicembre 2010, pp. 25-44 (così del resto l’insieme del dossier « Le Maroc de Mohammed VI: mobilisations et action publique » in questo stesso numero).

(50) Edward P. Thompson, The Poverty of Theory and Other Essays, Londra, Monthly Review Press, 1978, p. 280.

(51) Jean-François Bayart, Les Etudes postcoloniales. Un carnaval académique, Parigi, Karthala, 2010.

(52) Asef Bayat, Life as Politics. How Ordinary People Change the Middle East, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2010.

(53) James C. Scott, Weapons of the Weak. Every Day Forms of Peasant Resistance, New Haven, Yale University Press, 1985.

(54) Alf Lüdtke, dir., Histoire du quotidien, Parigi, Editions de la Maison des sciences de l’homme, 1994 e Des ouvriers dans l’Allemagne du XXe siècle. Le quotidien des dictatures, Parigi, L’Harmattan, 2000, così come Eigen-Sinn: Fabrikalltag, Arbeiterfahrungen und Politik vom Kaiserreich bis in dem Faschismus, Amburgo, Ergebnisse, 1993.

(55) Voir Béatrice Hibou, «Tunisie. Economie politique et morale d’un mouvement social», art. cit.

(56) Ghassan Salamé, dir., Démocraties sans démocrates, op. cit.