LE DEMOCRAZIE DEGLI ALTRI Antiche gentes e democrazia – Alberto Cacopardo

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LE DEMOCRAZIE DEGLI ALTRI Antiche gentes e democrazia

di Alberto Cacopardo

 

Nei monti dell’Afghanistan nordorientale, proprio a ridosso dell’attuale confine col Pakistan, a nord di quelle aree tribali Pashtun che tanto filo da torcere stanno dando ai governi, si trova una regione vasta e impervia, nota oggi col nome di Nuristan, che fino a poco più di un secolo fa si era sottratta da tempi immemorabili al controllo di qualsiasi apparato statale.

Nota allora sotto il nome di Kafiristan, “terra degli infedeli”, questa regione era disseminata di insediamenti di pastori-contadini-guerrieri che parlavano quattro o cinque lingue diverse, tutte di arcaica matrice indoeuropea, così come di tipico sapore indoeuropeo erano i culti politeisti praticati fino all’islamizzazione seguita all’invasione afghana di fine Ottocento.

I bellicosi guerrieri Kafiri avevano sistemi politici piuttosto sofisticati, radicati in tradizioni antichissime, che appartenevano al tipo noto in antropologia politica come “acefalo”, privo cioè di qualsiasi forma di apparato di comando centralizzato.

Fra i Kafiri, le unità politiche di base erano costituite dai villaggi (grom), insediamenti variabili da alcune decine a varie centinaia di abitanti, che si confederavano in collettività più ampie secondo linee di affinità linguistico-culturale e di contiguità territoriale. I membri di questi più ampi gruppi etno-politici non avevano in comune alcun apparato politico permanente, ma erano legati da vincoli di alleanza e cobelligeranza che li univano nei conflitti con altri gruppi, sia Kafiri che musulmani.

Poiché questi diversi gruppi presentavano fra loro, pur nell’ambito di un modello comune, differenze significative, ci rifacciamo qui specificamente all’esempio di uno di essi, quello dei Kom, che si può ritenere abbastanza tipico sul piano dell’organizzazione politica, ed è soprattutto fra i meglio conosciuti, essendo stato documentato dall’unico osservatore occidentale che abbia vissuto in Kafiristan prima dell’islamizzazione (Robertson 1896) nonché, successivamente, da una serie di ricerche etno-storiche che ci consentono di tracciare un quadro attendibile del loro sistema socio-politico

I Kom abitavano, come abitano a tutt’oggi, la bassa valle del Bashgal, a ridosso dell’attuale confine pakistano. Erano, a fine Ottocento, cinque o seimila. La loro società era segnata, come spesso accade nelle società acefale, da un ethos marcatamente egualitario. Questo abbracciava la grande maggioranza della popolazione, costituita dagli uomini liberi (adze), escludendo l’esigua minoranza degli schiavi artigiani, i bari, che erano in numero inferiore al dieci per cento. Come gli intoccabili dell’India, i bari erano considerati ritualmente impuri ed estranei al corpo sociale.

Gli adze, invece, erano uomini fatti tutti della stessa stoffa: erano tutti sia pastori sia contadini sia guerrieri. Non c’era fra di essi divisione del lavoro, se non fra i due generi, e non si praticava il commercio per mestiere. Non esisteva una classe di guerrieri, né una casta di sacerdoti, né la figura di un capo politico. Sul piano economico, tuttavia, la società degli adze presentava differenze di censo sensibili, anche se assai meno marcate di quelle osservabili in qualsiasi democrazia contemporanea. Vi era un ristretto numero di famiglie particolarmente ricche, una larga maggioranza mediamente benestante e una piccola minoranza di lan’a (i “rognosi”), persone cadute in miseria per debiti.

Esisteva tuttavia fra i Kom una sorta di aristocrazia di merito. Avevano infatti un sistema di rango altamente formalizzato, che prevedeva una serie di titoli che conferivano privilegi di ordine soprattutto simbolico, come quello di indossare certi emblemi o ornare la casa di particolari disegni. Questi titoli si potevano acquisire in due modi. Diveniva le moch il guerriero che avesse ucciso un certo numero di nemici, soprattutto musulmani. Diveniva invece mü moch (o ar’o, o mir) chi offriva all’intera collettività un certo numero di imponenti festini, che potevano durare anche parecchi giorni, durante i quali, in mezzo a danze, canti, rullare di tamburi e recitazione di encomi e genealogie, i convitati si cibavano dei cereali accumulati da mesi allo scopo e della carne di dozzine di animali sacrificati.

Fra i Kom, insomma, si diventava nobili non in virtù dell’avere, ma del dare. Né si trattava di una nobiltà acquisita una volta per sempre. I titoli di rango erano soggetti ad una forma di trasmissione ereditaria condizionata: gli eredi acquisivano sì il diritto ad indossare gli emblemi, ma allo stesso tempo l’obbligo di rinnovare, e possibilmente superare, le azioni meritorie dei loro ascendenti, sotto pena di veder rapidamente dissipato il prestigio ereditato. Questo impediva la formazione di una pura aristocrazia di sangue e imponeva soprattutto forti limiti ai processi di concentrazione della ricchezza, specialmente del bestiame, poiché gli oneri richiesti dalle elargizioni erano spesso tali da dissipare larga parte del patrimonio di una famiglia.

Gli antropologi hanno spesso interpretato questo tipo di fenomeni nei termini di una competizione per il prestigio che viene in qualche modo assimilata alla competizione di mercato. Che a tutte le latitudini gli uomini siano sempre pronti a gareggiare fra loro alla stregua di maschietti di otto anni, è un concetto che nutre un forte appeal per un certo spirito anglo-americano contemporaneo, che ha fatto della competizione fra individui un cardine mitologico del suo ethos. Ma nel caso dei Kom, dove le posizioni di status non erano a numero chiuso, e non era dunque necessario sopraffare qualcun altro per attingerle, non è detto che questa categoria risulti illuminante. Non vi è dubbio che, ovunque, gli uomini (per non dire delle donne) preferiscano essere apprezzati e rispettati dai propri simili piuttosto che venirne disprezzati. Ma non può sfuggire la profonda differenza che corre fra una norma che dice: “sarai rispettato se userai le tue forze e i tuoi beni per giovare al tuo prossimo” e la prescrizione, praticamente opposta, che dice: “sarai rispettato se userai le tue forze e i tuoi beni per giovare a te stesso”. E’ per lo meno attendibile interpretare il comportamento dei Kom, più ancora che come frutto di competitività individuale, come atto di adeguamento ad una norma, atto etico per eccellenza, adempimento di un dovere sacro.

Tanto più che, a differenza di quanto accadeva in genere nei sistemi a big man melanesiani (cf. ad es. Salisbury 2006, p. 113), fra i Kom il prestigio acquisito coi titoli di rango non portava necessariamente con sé alcuna forma di autorità politica.

Politica è la sfera delle decisioni e dei problemi che riguardano tutti. Chi prendeva queste decisioni e chi si occupava di questi problemi fra i Kom? Abbiamo già visto che l’unità politica di base era costituita dal singolo villaggio, poiché era a questo livello che si prendevano quasi tutte le decisioni di interesse collettivo. Ciascun villaggio aveva tre organi politici distinti: il consiglio degli anziani (jesht), l’assemblea di villaggio (gramv’iri), e i magistrati elettivi (ur’o).

L’organo politicamente più rilevante era senza dubbio il consiglio dei jesht, che si occupava in genere di tutte le decisioni di ordinaria amministrazione, come la gestione dei beni comuni del villaggio (foreste e pascoli estivi), le opere pubbliche, i rapporti con l’esterno, o la composizione dei conflitti. Il consiglio comprendeva almeno un rappresentante per ciascuno dei lignaggi patrilineari in cui si articolava la comunità, ma non era a numero chiuso, non era rigidamente formalizzato e la partecipazione effettiva alle riunioni poteva variare ampiamente in funzione degli argomenti da discutere. Le deliberazioni dei jesht erano in teoria vincolanti per tutti, ma essi non disponevano di mezzi per imporre con la forza le loro decisioni alla collettività, che era decisamente vigile e piuttosto suscettibile. Nelle parole di Robertson: “Un’opinione pubblica che vendica qualsiasi oltraggio contro se stessa mettendo prontamente a ferro e fuoco la casa del responsabile non è un potere da prendere alla leggera” (1974, pp. 436-437). Conosciamo infatti più di un caso in cui la spontanea ribellione della gente costrinse i jesht a più che frettolose marce indietro. Come gli anziani dei Germani di Tacito (Germania, 11), i jesht si facevano valere “auctoritate suadendi, magis quam iubendi potestate”, più per la autorevolezza a persuadere che per la potestà di comandare.

Anche il rapporto fra i jesht e il gramv’iri doveva essere qualcosa di simile a quello descritto da Tacito fra principes e plebs. Il gramviri si riuniva nel corso dell’anno solo occasionalmente per deliberare sulle questioni più importanti (fra cui le innovazioni al corpus normativo consuetudinario) o più controverse. In occasione della festa primaverile del Duban, tuttavia, teneva una sessione “ordinaria” per l’annuale elezione degli ur’o, una magistratura a termine che fra i Kom di fine Ottocento aveva soprattutto funzioni di “polizia”, con il compito di coordinare le attività pubbliche, dirimere liti minori, o infliggere multe per la violazione delle norme sulle attività agro-pastorali. Questo tipo di magistrature a termine sono diffuse ancora oggi in tutto l’arco ex-Kafiro dello Hindu Kush afghano-pakistano. Le loro esatte funzioni hanno avuto ed hanno variazioni sensibili di tempo in tempo e da luogo a luogo: possono estendersi fino alla composizione delle dispute più gravi e alla gestione ordinaria di tutti gli affari comuni, in un rapporto variabile con la magistratura degli anziani (i jesht dei Kom), che ha comunque uno status più stabile e permanente nel tempo, sebbene più informale.

Nel caso dei Kom, non c’è dubbio che l’autorità politica in sé risiedesse nelle mani dei jesht, che si occupavano degli affari di ordinaria amministrazione ed esercitavano una notevole influenza sulle deliberazioni del gramv’iri e sulla stessa selezione dei magistrati elettivi. Come si diventava jesht? Non si tenevano elezioni e non vi era un’investitura formalizzata. Il leader politico emergeva nel tempo in virtù delle sue qualità personali, che altro non erano che i presupposti di quell’auctoritas suadendi così tacitianamente evocata da Tacito. Intelligenza, eloquenza, determinazione si combinavano in varia misura con il prestigio derivante dalle prodezze belliche e dagli atti di generosità canalizzati nel sistema di rango. La dignità sociale e rituale conferita dai titoli costituiva un requisito utile, ma non indispensabile, per l’esercizio di influenza politica. Come osserva Sahlins (1972; trad. it. 1980, pp. 144-145) a proposito della sua “economics of respect”: “Questo rispetto [nato dalla generosità] dovrà competere con tutti gli altri tipi di deferenza che possono essere tributati nei rapporti diretti. Di conseguenza, nelle società più semplici la base dominante dell’autorità non è necessariamente economica: in confronto con lo status generazionale, o con attributi e capacità personali, ora mistiche ora oratorie, il fattore economico può essere politicamente trascurabile.” Simili sistemi informali di selezione della leadership potevano forse flettere in direzione dell’oligarchia quando l’élite utilizzava il suo potere per perpetuare se stessa e i propri interessi, ma nel caso del Nuristan è la stessa longevità di questi sistemi, antichi certamente di secoli e probabilmente di millenni, a testimoniare che il modello doveva possedere solidi anticorpi contro il dispotismo.

I sistemi politici dei Kafiri si distinguevano per di più da quelli Nuer (e anche dai Pashtun tribali con cui confinavano) per un aspetto notevole. Fra Pashtun e Nuer la faida di sangue è un elemento cardine della cultura, che istituzionalizza la violenza interna, perpetuandola spesso per molte generazioni. Fra i Kafiri, l’omicidio interno non era sanzionato con la vendetta della parte offesa, ma con l’esilio decretato dai jesht e con la perdita di tutte le proprietà. La faida era dunque stroncata sul nascere dalla sanzione di ordine penale inflitta dal corpo politico. In assenza di monopolio della forza e di un apparato statale, il caso Kafiro sembra indicare che ne cives ad arma veniant non è sempre indispensabile un Leviatano.

Abbiamo dunque a che fare con un esemplare modello di democrazia alternativa, da contrapporre all’estenuata e mendace democrazia occidentale? Innanzitutto c’è da chiedersi se la categoria di democrazia sia applicabile a questo tipo di sistemi. Non saremmo i primi ad esserne tentati: Istintivamente, e senza alcuna formalizzazione teorica, numerosi autori hanno riconosciuto l’esistenza di una sostanziale affinità transculturale.

Ciononostante, è evidente che le democrazia contemporanee appartengono ad un ordine di realtà diverso da quello dei sistemi acefali in generale. Questa realtà si chiama lo stato. Le democrazie moderne sono apparati politici centralizzati dotati di monopolio della forza e capaci di esercitare il potere su popoli di centinaia di milioni. I sistemi acefali sono privi di apparati centralizzati, privi di monopolio della forza e incapaci di governare moltitudini. E’ quasi risibile andare cercando modelli da imitare fra i Kom o fra i Pashtun o fra i Nuer. Non è risibile tuttavia riconoscere che le democrazie moderne ed i sistemi acefali hanno qualcosa in comune che li distingue dalla monarchia assoluta, dal dispotismo o dalla dittatura. Ciò che li accomuna è, per dirla con Tocqueville, “il dogma della sovranità popolare”, per il quale “tutti gli individui rappresentano uguali porzioni di sovranità” (1981; trad. it. 2007, p. 73) In altri termini, sono entrambi meccanismi politici costruiti allo scopo di scongiurare l’eventuale sopruso del potere.

Se vogliamo categorizzare, possiamo vedere le democrazie moderne e le “ordinate anarchie” agresti o pastorali come membri distinti di una più ampia classe di sistemi politici che le racchiude entrambe. Parenti più o meno lontani, più o meno dissimili, le due cose discendono da una medesima pulsione. Questo vuol dire che la democrazia moderna ha radici molto estese e molto antiche, ben al di là della Grecia di Pericle. E forse qui c’è materia da meditare per chi pretende di esportarla ad altri.

I Nuristani di oggi non sono molto cambiati. Sono diventati devotissimi musulmani, sono stati in prima fila nella resistenza antisovietica, hanno supplito negli ultimi trent’anni all’assenza dello stato sperimentando nuove forme di autogoverno di ispirazione islamica e, ai primi d’ottobre 2009, sono stati proprio i Kom a lanciare una sanguinosa offensiva contro il pericolante avamposto degli americani in Bashgal, sottraendo la valle, forse definitivamente, al controllo dell’esercito più potente del mondo. Ma in mezzo al turbine della storia che li investe, i Nuristani ancora eleggono ogni anno i loro ur’o, ancora fanno “emergere” gli anziani, ancora si riuniscono in gramviri.

In tutto l’Afghanistan ci sono molti popoli che, come i famigerati Waziri oltreconfine, non sono da meno dei Nuristani per spirito d’indipendenza e capacità di autogoverno.

Se Tocqueville vivesse oggi, è forse qui che cercherebbe le fondamenta su cui edificare un futuro democratico per l’Afghanistan. Non così i suoi tardi epigoni contemporanei, che pretendono d’imporre con la forza ad un popolo libero una geometrica architettura di potere, estenuata e mendace, piovuta letteralmente dal cielo. C’è una parte dell’Occidente che, accecata dalla rabbia e dall’orgoglio, non è più capace di capire il mondo, ma pretende tuttavia di dominarlo. A proposito del destino dell’Afghanistan, vale forse la pena di rimeditare le parole con cui Morgan nel suo Ancient Society (2005, p. 552), immaginava per la sua specie un avvenire migliore: “Democrazia nel governo, fratellanza nella società, equa distribuzione di diritti, istruzione per tutti […]. Sarà una resurrezione, in una forma più alta, della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità delle antiche gentes”.

 

Per saperne di più

 

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Alberto Cacopardo, antropologo, insegna all’Università di Firenze.