Introduzione

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di Francesco Pallante

Con questo numero 48, Nuvole torna a occuparsi di mondo arabo-musulmano. È un tema che seguiamo da tempo, per due ragioni fondamentali: (1) intanto perché l’Italia è un Paese del Mediterraneo ed è insopportabile l’idea che l’unica risposta alle sollecitazioni provenienti dalle altre sponde possa essere di tipo militare; (2) in secondo luogo perché nel Maghreb-Mashrek sembra concentrarsi una serie di nodi, a rilevanza interna ed esterna, suscettibili di stimolare riflessioni di portata più generale sulle società contemporanee e le loro reciproche relazioni.

Il numero si compone di pochi, ma corposi, contributi: un saggio di Jean-François Bayart sulle “Primavere arabe”, un’intervista a Noam Chomsky sulla sua esperienza di ebreo militante per la causa palestinese, un’intervista a Meron Benvenisti sulla problematica attualità del sionismo. È una scelta che non risponde alla logica usa-e-getta di molte pubblicazioni on-line; ma che si pone in continuità con lo stile riflessivo della nostra rivista e, soprattutto, in sintonia con l’esigenza di reagire al modo uniforme, superficiale e preconcetto con cui gli organi di informazione hanno generalmente affrontato le vicende mediorientali degli ultimi anni.

La questione che principalmente ci ha interrogati riguarda gli sconvolgimenti che hanno colpito i Paesi dell’area: dal Marocco al Bahrein, passando per Libia, Tunisia, Egitto, Siria, Iraq, Yemen, senza dimenticare Turchia, Libano, Giordania, Iran. Un’ondata impressionante, se solo si pensa all’apparente immobilismo che aveva a lungo connotato i sistemi socio-politici locali (e che aveva indotto gli osservatori più conformisti a parlare – in linea con la teoria huntingtoniana delle «ondate» di democratizzazione – di «anomalia araba»). Il saggio di Bayart, apparso originariamente sul blog “Mediapart” (http://blogs.mediapart.fr/blog/jean-francois-bayart/311013/retour-sur-les-printemps-arabes), mostra quanto la lettura dell’immobilismo sia, in realtà, uno stereotipo dovuto al mancato approfondimento delle diverse storie nazionali; eppure non si può negare il senso di sorpresa causato dall’improvvisa caduta in successione, come fossero tessere di un domino, di regimi dalla decennale solidità. Ancora Bayart ci ricorda che qualcosa di simile avvenne in Europa con il “contagio” rivoluzionario del 1848, pur nella diversità delle singole situazioni nazionali che ne risultarono colpite. E dunque: situazioni diverse che si influenzano l’una con l’altra, producendo un fenomeno che – però – può dirsi unitario solo esteriormente. La storia, talvolta, procede così.

Proprio la tentazione di accomunare i diversi accadimenti sotto una lettura unitaria – quella delle “Primavere arabe” – ha segnato le narrazioni offerte all’opinione pubblica in questi anni. Una lettura integralmente (integralisticamente?) unitaria: quanto ai soggetti (i giovani acculturati), alle cause (il carattere tirannico dei regimi preesistenti), ai mezzi impiegati (i social network), agli obiettivi (la conquista dei diritti “naturali” di libertà). È evidente l’effetto auto-rassicurante esplicato da tale narrazione. I musulmani sono così diversi da noi perché arretrati e ignoranti; se ci odiano è perché vorrebbero essere liberi e ricchi come noi. E allora: basta far studiare i giovani ed ecco che la loro mente si apre, le tirannie risultano insopportabili, Facebook, Twitter e YouTube esplicano a pieno la loro natura democratica “dal basso” e, voilà, la libertà è finalmente conquistata. Che i moti popolari possano essere dettati da conflitti culturali, economici o sociali; che nelle società non occidentali possano essere diffusi e radicati modelli culturali autoctoni; che i diritti siano il prodotto di decisioni politiche frutto di contingenze storiche precise (e non un qualcosa che, come le mele, esiste in natura); che sulle vicende nazionali possano influire interessi geopolitici esterni: tutto questo non è pensabile. La libertà e la democrazia sono il destino dell’umanità, a patto – ben inteso – che gli uomini sappiano farne buon uso: altrimenti basta giocare un po’ con le parole, accusando i vincitori delle elezioni democratiche di intenti golpisti e attribuendo intenti democratici ai militari che si (ri)prendono il potere. Viene da chiedersi se, oltre all’ottusa pretesa della superiorità culturale occidentale, dietro non ci sia altro: forse il disperato bisogno di “normalizzare” quell’incomprensibile tipo antropologico – il musulmano – che da quindici anni a questa parte ci è da ogni parte additato come irriducibile nemico?

I temi in ballo sono così ampi che il numero qui presentato è davvero un granello di sabbia. D’altro canto occorre confessare le difficoltà che abbiamo incontrato nel procedere: forse mai come in questi anni si è scritto tanto sul mondo arabo-musulmano, ma quasi sempre a “inquadratura stretta”, circoscrivendo le analisi a singoli fenomeni (se non a singoli aspetti di singoli fenomeni). Si possono così trovare interessanti analisi sugli interessi economici dell’esercito egiziano, sul ruolo dei sindacati nella società tunisina, sulla concezione della donna presso i ribelli siriani, ecc.; mentre è più difficile trovare scritti che, anche mettendo insieme chiavi di lettura differenziate, si propongano quantomeno di suggerire ricostruzioni di carattere generale. Non è certo questa la sede in cui azzardare tentativi di questo genere. Ci si può limitare a qualche breve considerazione articolata su tre piani, distinti ma sovrapponibili: uno interno ai singoli Paesi; uno di respiro regionale; uno di livello internazionale.

Innanzitutto, non si può negare che, benché collocate in un insieme di fenomeni più ampio, le vicende di ogni singolo Stato rispondono (anche) a logiche locali, che meriterebbero di essere approfondite e ricondotte a unità di per sé. Questo è stato sicuramente fatto per alcuni Paesi (Egitto e Tunisia su tutti), meno per altri, benché di sicuro interesse (si pensi, in particolare, all’Arabia Saudita e al Qatar, potenze regionali le cui dinamiche di funzionamento interne restano in buona misura misteriose).

In secondo luogo, sul piano regionale, gli avvenimenti in corso appaiono come tanti momenti di un complessivo rimescolamento di carte, alla ricerca di nuovi equilibri interni. Meriterebbero, così, di essere analizzate le politiche messe in campo dai vari attori regionali, le reciproche influenze-interferenze, gli scontri diretti e indiretti. La tradizionale chiave di lettura che attribuisce grande rilievo alla frattura sunniti/sciiti va, in quest’ottica, arricchita con la frattura emersa, all’interno dell’islam politico sunnita, tra fratellanza musulmana e fondamentalismo di matrice salafita (quale che sia la declinazione che poi quest’ultimo assume nei singoli contesti). Il caso egiziano è, da questo punto di vista, esemplare, con il movimento salafita che sostiene il governo golpista dei militari nella repressione dei fratelli musulmani. Più complicata la situazione in Siria, anche grazie all’abilità dei lealisti – ben sostenuti dalle forze sciite iraniane e libanesi (nonché, su un piano diverso, dalla Russia) – nel frammentare il campo sunnita e provocare una radicalizzazione ulteriore persino rispetto alle posizioni salafite (di qui il progressivo imbarazzo in cui è caduto l’Occidente nel sostenere la ribellione). Diverso ancora il caso libico, dove il fronte sunnita è rimasto invece compatto, così consentendo un’ampia convergenza di forze ai danni di Muhammar Gheddafi (e della stessa Libia, a leggere le cronache sulla situazione attuale). Si spiega in tal modo l’altrimenti incredibile rimescolio di alleanze da uno scenario all’altro: basti pensare – per fare un solo esempio – ad Arabia Saudita e Turchia, alleate in Siria e nemiche in Egitto.

Infine, non c’è dubbio che l’area di cui ci stiamo occupando sia al centro della politica internazionale dalla fine della guerra fredda. Interessi statunitensi, europei (a loro volta piuttosto disomogenei), russi, cinesi si intrecciano con quelli degli attori regionali e locali, contribuendo a rendere ulteriormente incerto il quadro complessivo. Libia e Siria rappresentano, da questo punto di vista, i casi più eclatanti. Dal punto di vista occidentale, lo schema resta sostanzialmente quello “inventato” da Bush padre ai tempi della prima guerra del Golfo: utilizzare i diritti umani come paravento dietro cui nascondere i propri interessi economici. I russi, da questo punto di vista, sono più diretti: non vogliono trovarsi fuori dai giochi e, dopo gli errori commessi in Libia, si sono ben arroccati in difesa del siriano Assad. D’altro canto, occorre anche registrare un certo disorientamento degli Stati Uniti, che per la prima volta sembrano rimasti privi di interlocutori fidati in più di una capitale araba. Riemergono qui tutti i limiti dell’approccio occidentale di cui si diceva all’inizio, emblematicamente riassumibili nell’incapacità di accettare che le istituzioni democratiche possano produrre esiti diversi dalla libertà.

Emarginata – nella “sterilizzazione forzata” imposta da Israele, con la complicità delle potenze internazionali – rimane la questione palestinese, a lungo epicentro delle vicende regionali. Che resti una ferita simbolica per la comunità musulmana mondiale, oltre che un’oggettiva questione di giustizia per l’umanità intera, è indiscutibile. Ma altrettanto indiscutibile è il successo della strategia di contenimento-annullamento ispirata da Ariel Sharon, criminale di guerra riconosciuto, eppur celebrato senza ritegno come “uomo di pace” in occasione della sua morte. L’indebolimento complessivo del fronte anti-israeliano ha a tal punto ringalluzzito lo Stato ebraico che persino l’apatica diplomazia europea si è sentita in dovere di ricordare che la colonizzazione non può essere rilanciata senza limiti. Un quadro nel quale non destano particolari speranze le iniziative del Segretario di Stato Kerry – accusato da Israele di essere in preda a un’«ossessione» per la pace (!) –, che da mesi cerca di mettere sul tavolo quel che Clinton aveva chiarito 15 anni fa con i suoi famosi “parametri”; così come le pur lodevoli prese di posizione dell’Assemblea generale dell’Onu a favore dello Stato di Palestina (dapprima con l’innalzamento del rango della delegazione palestinese a quello di «Stato osservatore», poi con la proclamazione del 2014 «Anno di solidarietà con il popolo palestinese»).

Ecco, allora, il senso di tornare sui nodi del conflitto israelo-palestinese con le lunghe interviste a Noam Chomsky e a Meron Benvenisti, intellettuali impegnati e attivisti coraggiosi per la loro capacità di riflettere criticamente sul proprio campo di appartenenza.

Il colloquio tra Chomsky e Mouin Rabbani (originariamente pubblicato sul Journal of Palestine Studies e qui tradotto integralmente per la prima volta in italiano) è una lunga cavalcata attraverso il pluridecennale interessamento del professore del M.I.T. per la questione israelo-palestinese, dalle simpatie per il sionismo socialista e a vocazione binazionale degli anni ’40 al divieto di entrare in Palestina che lo Stato di Israele gli inflisse nel 2010 per impedirgli di partecipare a una conferenza alla Birzeit University. Si tratta di un’intervista ricchissima di motivi di riflessione: il 1967 come momento di svolta della vicenda, con la immediatamente chiara intenzione israeliana di tenersi i territori occupati; la graduale trasformazione della percezione del sionismo presso l’ebraismo americano, inizialmente piuttosto tiepido e poi, via via, sempre più abilmente “arruolato” da Israele; il dibattito, interno allo schieramento pacifista, tra i sostenitori della “soluzione dei due Stati” e quelli dello “Stato unico binazionale”; gli ambigui rapporti tra Stati Uniti, Arabia Saudita e fondamentalismo islamico; l’uso politico della Shoa messo in atto da Israele (coronato dal successo con l’identificazione – oramai comunemente accettata, ahinoi – di anti-sionismo e anti-semitismo); il rapporto con Edward Said; l’incapacità della dirigenza palestinese di comprendere quanto fosse importante accreditarsi come interlocutori rassicuranti presso l’opinione pubblica americana; i limiti intrinseci degli accordi di Oslo per il loro carattere sostanzialmente non vincolante (cosa ben chiara fin da subito a Rabin); il ruolo, per certi versi sovrastimato, della lobby ebraica negli Usa; la convinzione che la chiave per la risoluzione del conflitto si trovi a Washington e nell’opinione pubblica americana ben più che in Medio Oriente.

Altrettanto interessante il dialogo tra Benvenisti e Ari Shavit, anch’esso pubblicato qui per la prima volta in italiano (l’uscita originaria è avvenuta sul quotidiano israeliano Haaretz). Benvenisti è un sabra, come si dice in Israele, vale a dire un ebreo nato in Palestina, non uno immigrato da fuori; e proprio a partire da questa circostanza egli costruisce la propria riflessione sul sionismo e sulla situazione attuale dello Stato ebraico, uno Stato – così dice – fondato sulla «purezza del sangue» con un «gruppo di servi – gli arabi – a cui non applichiamo la democrazia» (posizione fatta propria nel febbraio 2014 dall’inviato speciale dell’Onu Richard Falk, che nel suo rapporto non ha esitato a parlare di «apartheid»). L’aspetto forse più spiazzante della posizione dell’ex vicesindaco di Gerusalemme (veste nella quale esercitò un ruolo da occupante) è il rifiuto della soluzione dei due Stati, a favore della creazione di uno Stato unico binazionale abitato da tutti coloro che «amano la stessa terra». Di qui il passaggio a definire il sionismo una «illusione» è breve: la presenza araba in Palestina avrebbe fin da subito dovuto aprire gli occhi agli immigrati ebrei, ma ha invece alimentato un razzismo che, nel corso dei decenni, ha trasformato il sionismo in un movimento reazionario. Diversamente da Chomsky, Benvenisti individua il punto di svolta nel 1948, non nel 1967: nel momento, cioè, della nascita di uno Stato etnico, che non poteva che porsi in posizione conflittuale con i suoi vicini (in questa prospettiva, il 1967 non fu che l’esasperazione di una situazione già esistente). Tutto quel che ne è poi seguito ha reso impossibile ogni ipotesi di futura separazione tra palestinesi e israeliani (e, d’altro canto, se si guarda alla storia dell’ultimo secolo, i due popoli hanno vissuto più a lungo sotto un’unica autorità – ottomana, inglese, israeliana – che sotto autorità diverse).

Quello che qui presentiamo è, in definitiva, un numero certamente inadeguato di fronte alle difficoltà di comprensione suscitate dalla situazione corrente. D’altro canto, i nostri propositi sono decisamente limitati: in negativo, segnalare l’urgenza di analisi ad ampio spettro; in positivo, provare a fornire almeno un piccolo contributo. Il giudizio – come si dice in questi casi – spetta ai lettori.