Democrazia progressiva e democrazia odiosa

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di Stupendoman

 

1. Luciano Gallino, uno dei pochi intellettuali che si sono spesi con coerenza e con impegno nella battaglia delle idee contro l’incontrastato dominio del pensiero conservatore, ha sostenuto di recente in una intervista che “non ci sono saggi, libri, testi da contrapporre all’egemonia culturale neoliberale, qualcosa che contrasti la favola dei mercati efficienti, della finanza che inaugura una nuova fase del capitalismo e altre amenità simili”. Ci permettiamo di dissentire. Per quel che ci è dato di capire, negli ultimi anni si è sviluppata, insieme alla solita paccottiglia folkloristica e alla panflettistica d’accatto, una produzione intellettuale che attraversa diversi campi del sapere, e che offre strumenti cognitivi sofisticati e riflessioni innovative, spesso sostenute da analisi empiriche rigorose, da cui è possibile trarre materiali e suggestioni utili a impostare su nuove e più credibili basi una lotta politico-intellettuale all’altezza delle sfide che incombono. I libri e le ricerche dello stesso Gallino ne sono del resto una limpida testimonianza.

Questo numero di “Nuvole” presenta un florilegio di recensioni dedicate ad alcuni libri ed autori che giudichiamo thought-provoking, scelti tra una trentina di opere meritevoli di attenzione e che, a nostro giudizio, possono offrire una piattaforma intellettuale di buon livello per una discussione ordinata che sinora è mancata. Tra i titoli che proponiamo vi sono non solo opere di ispirazione “progressista” e “di sinistra”, riferibili a una tradizione culturale e a uno schieramento che si ispira a idee di uguaglianza e di impegno democratico, ma anche alcuni testi eterodossi portatori di tesi discutibili, ma che nondimeno presentano a nostro giudizio un interesse intrinseco e un’apertura intellettuale tali da trascendere la collocazione degli autori. Molto semplicemente, il nostro scopo continua ad essere quello che ha animato una tradizione intellettuale benemerita della sinistra storica sintetizzata nell’espressione “conoscere per trasformare”: una massima che da tempo non sembra più essere patrimonio della sinistra istituzionale, schiacciata sulla quotidianità del politicantismo ministerialista e dei palcoscenici mediatici; ma che a quanto pare non sembra interessare più di tanto neppure quella parte della sinistra sociale che vede nelle pratiche diffuse di resistenza, di sperimentazione sul territorio e di antagonismo il terreno privilegiato di crescita della conoscenza. L’illusione che ci anima è di contribuire a elaborare una contronarrazione collettiva credibile e rigorosa, capace di sfidare la retorica degenerata, maleodorante ma efficace, che impregna il dibattito pubblico corrente, e di smarcarsi dal framing dominante che ci opprime intellettualmente e politicamente.

Che si torni a parlare senza diplomazie, come accade da qualche tempo e come avviene in queste pagine, di grandi temi da tempo desueti – capitalismo, stato, democrazia, lotta di classe, programmazione, economia pubblica ecc. – reagendo sia al vaniloquio pettegolo dei talk show che alla deriva minimalistica e specialistica delle scienze sociali, polarizzate tra il culto dell’irrilevanza e l’ossequio interessato al pensiero unico, non è secondo noi il segno di un rigurgito ideologico e di una regressione verso l’infantilismo politico, ma una testimonianza di vitalità utile a scuotere lo spirito estenuato del tempo. La destra non ha avuto paura di proporre narrazioni partigiane e di riproporre mitologie regressive rivolte a vellicare gli istinti peggiori della gente, e ha avuto successo. Perché la sinistra dovrebbe rinunciare a ribadire i suoi miti e i suoi valori positivi e a rielaborare la parte più gloriosa della sua tradizione politica e intellettuale per adattarla alle sfide del presente?

Alcuni dei testi che presentiamo circolano da tempo nel dibattito pubblico internazionale. Il valore aggiunto di una loro riproposizione consiste nel confrontarli e farli interagire, magari analizzandoli attraverso prismi inconsueti e ponendo loro interrogativi inediti. Altri sono meno conosciuti e sono stati poco presenti sui palcoscenici mediatici e sulla stampa, ma a nostro giudizio meritano di entrare a far parte del repertorio ricostruttivo di un pensiero di sinistra attuale al suo tempo. Gli argomenti che trattano, tornati al centro del dibattito economico e politologico degli ultimi anni, evocano temi e dilemmi ricorrenti del pensiero progressista: la crescita apparentemente inarrestabile delle disuguaglianze nel cuore stesso delle democrazie avanzate, il rapporto sempre più sbilanciato tra politica e mercato, l’ambigua presenza dello stato nell’economia e nella società neoliberista, la decadenza dei partiti e dei sindacati, il fallimento delle elezioni e il declino dell’azione collettiva, la torsione elitaria del pluralismo politico ed economico e la crisi contestuale della sovranità e dell’intermediazione politica, la cattura dello stato attraverso la corruzione e la pressione, l’incombere all’orizzonte della “fine del lavoro” ad opera delle nuove tecnologie digitali.

 

2. Qui proponiamo di affrontare questo catalogo di problemi insolubili in cerca di soluzioni da una peculiare angolazione: quella del cambiamento dello stato democratico nelle economie politiche avanzate degli ultimi decenni. Del resto, questa rivista ha fatto sin dalla sua fondazione proprio della critica delle degenerazioni, dei fallimenti e delle “trasformazioni della democrazia”, nel più ampio quadro del contrasto tra democrazia reale e democrazia immaginata, uno dei fuochi della sua agenda di ricerca.

“Trasformazione” è qui da intendersi nel senso di dialettica negativa che congiura alla dissoluzione di un modello di civilizzazione democratica, instauratosi in un tempo e in uno spazio circoscritti, preludio sempre meno improbabile ad una di quelle ondate di riflusso che rischiano di trascinare indietro l’intera umanità. Il punto di partenza – condiviso da molti degli autori convocati – è che ad un certo punto, grossomodo intorno alla metà degli anni settanta, la storia dell’Occidente ha, per così dire, cambiato verso. Da luogo in cui più che altrove è avanzato un processo di emancipazione collettiva senza precedenti, – dove le opportunità di vita e di lavoro si sono moltiplicate, la protezione dal rischio dei cittadini si è istituzionalizzata, le distanze sociali si sono significativamente ridotte (anche se non certo annullate: lungi da noi l’idea che si sia trattato di una processione trionfale), e le masse organizzate nei partiti e nei sindacati hanno potuto esercitare un peso rilevante sulle decisioni pubbliche – i paesi sviluppati retti da ordinamenti competitivi sono diventate – attraverso un tortuoso processo involutivo durato un trentennio e tuttora in pieno corso – un luogo di sperequazioni e di nuovi privilegi, di disuguaglianze e di esclusioni crescenti, terra di conquista di élites predatorie e voraci, corruttrici e spregiudicate, dove “chi vince prende tutto”.

In questa traiettoria parabolica la democrazia è stata dapprima – durante i celebratissimi “trenta gloriosi” – levatrice e garanzia di progresso e di sviluppo; successivamente, è diventata sempre più testimone inerte, se non addirittura strumento, più o meno compiacente e malleabile, della restaurazione classista del capitalismo contemporaneo. E’ in questo senso che parliamo di “trasformazione della democrazia”: non solo esito, ma anche matrice, prima impotente e poi corriva, del cambiamento regressivo di cui siamo testimoni arrabbiati e impotenti. Capire perché, e come, ciò sia potuto succedere, mettere a fuoco i meccanismi di questa grande trasformazione della politica occidentale è una condizione preliminare, anche se ovviamente non sufficiente, per invertire la tendenza. Occorre capire il problema per trovare la soluzione.

Che cosa sia successo in questi decenni comincia ad essere oggi più chiaro (malgrado i tanti punti tuttora oscuri o controversi) e i lavori che discutiamo sono di quelli che contribuiscono a migliorare la nostra comprensione. Schematizzando, ma anche forzando, le diverse posizioni, possiamo sostenere che dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi si siano alternati due modelli democratici contrapposti. Il primo – potremmo chiamarlo evocativamente “democrazia progressiva” ma, perché no, anche “democrazia sostanziale”, recuperando un aggettivo a suo tempo vituperato ma aggi tornato curiosamente in auge – incarna una concezione e una pratica “sociale” della democrazia estranea al mainstream accademico non meno che a quello politico. In questa chiave, la parte “dura” del regime democratico – il suo impianto procedurale basato sul voto di maggioranza egualitario e periodico e sul potere degli elettori di licenziare i governi sgraditi – non è separabile dalla parte “soffice” riferibile alla sua missione storica irrinunciabile: promuovere l’uguaglianza e la giustizia sociale, favorire lo sviluppo delle capacità degli individui e l’impegno civico dei cittadini, migliorare la vita dei popoli. In questa visione, e nella prassi corrispondente, i due aspetti, quello formale e quello materiale, sono consustanziali: simul stabunt, simul cadent.

L’altra visione della democrazia, quella formalistica che dalle accademie è tracimata nel senso comune interessato dei politici e nelle pratiche dei governi, la considera invece una procedura concorrenziale di selezione della leadership, un modo di costituire l’autorità attraverso elezioni aperte e competitive. In quanto tale essa è compatibile con qualsiasi risultato politico e con qualsiasi configurazione della struttura di classe e di distribuzione della ricchezza. Come ha osservato icasticamente uno dei suoi teorici più illustri, la democrazia può anche essere “odiosa”, ma se rispetta i requisiti formali di competitività e di accesso resta comunque democrazia. Ebbene, la democrazia effettualmente operante nelle economie politiche avanzate dell’ultimo quarto del Novecento si è progressivamente trasformata, da democrazia progressiva, nella “democrazia odiosa” che abbiamo dinanzi ,la quale produce non uguaglianza ma disuguaglianza e esclusione. Al punto che i cittadini, che hanno sia pur tardivamente cominciato a rendersene conto, sempre più reagiscono con la sfiducia, con il disimpegno elettorale e civico, con l’antipolitica, aprendo una crisi di legittimità i cui esiti sono ignoti.

A ben vedere, in questo scenario in movimento, il cambiamento ha investito non solo e non tanto la forma di governo e le regole decisionali (rimaste abbastanza diverse da paese a paese), quanto l’assetto delle grandi politiche pubbliche che strutturano la trama e l’ordito istituzionale dei sistemi politico-economici: gli assetti di welfare, i mercati del lavoro, i sistemi dell’istruzione, le politiche fiscali, la struttura dell’economia pubblica. In questa chiave, al centro della storia del deficit democratico attuale vi sono proprio le grandi politiche pubbliche e le loro trasformazioni. E’ soprattutto su questo terreno che si è indirizzata l’offensiva generale.

La letteratura politologica ha cominciato a dar conto delle modalità attraverso le quali la rivoluzione conservatrice neoliberale ha svuotato e trasformato l’ambiente istituzionale della democrazia progressiva agendo sulle grandi politiche pubbliche di importanza sistemica. Che si sia trattato di politiche attive o di revisioni, di mancati aggiornamenti o di introduzione di elementi spuri suscettibili di evolvere in senso antipopolare, di “liberalizzazioni” o di boicottaggi e di rallentamenti rivolti a snaturare o a neutralizzare le conquiste sociali della fase precedente, i risultati sono stati convergenti. Pressoché ovunque l’“istituzionalizzazione del dualismo” o lo svuotamento delle politiche più avanzate hanno scandito le tappe di una rivoluzione istituzionale silenziosa e incrementale, condotta entro l’involucro rassicurante della democrazia formale, sortendo l’effetto di privarla della sua anima progressiva. Oggi non si tratta che di completare l’opera, suggellando anche giuridicamente questa trasformazione e rendendola irreversibile con la chiusura dei pochi canali ancora aperti ad un’azione di contrasto.

Contestualmente, anche i sindacati e i partiti popolari di massa – insostituibili presidi istituzionali e motori della democrazia progressiva – hanno subito drastici cambiamenti nella loro capacità di intermediazione e di controllo: i primi si sono indeboliti (e burocratizzati) a seguito della destrutturazione dell’ordine fordista e della conseguente ristrutturazione produttiva; i secondi hanno subito e metabolizzato un drammatico svuotamento etico-politico e un mutamento della loro composizione organica che li ha portati a riallinearsi intorno ai vincitori e a formare cartelli politici finalizzati all’estrazione di rendite. Si sono, per così dire, deistituzionalizzati, divenendo da strutture integrative di sostegno dell’intero impianto progressista, strutture aggregative auto-interessate e interamente fungibili. In questa deriva anomica, un posto di rilievo lo hanno avuto le elezioni, regredite al ruolo di rituali spettacolarizzati laddove le grandi decisioni di policy sono appannaggio di ristrette élites e di gruppi organizzati, con le loro protesi lobbistiche o mafiose. Nell’era progressiva, le elezioni e i governi “contavano”, pur nel quadro di sistemi di intermediazione degli interessi imperniati sul ruolo del lavoro organizzato nei grandi sindacali industriali e sul business imprenditoriale. Nella fase attuale, il nesso tra preferenze dell’elettore mediano, il contenuto della politiche e gli indirizzi di governo è stato integralmente reciso e lo “spettacolo elettorale” è divenuto fine a se stesso, pressoché ininfluente nel determinare il cambiamento politico-istituzionale. Va da sé che il declino storico delle elezioni non impedisce di perpetuare la finzione del potere popolare, o di reclamarne periodicamente la restituzione attraverso l’ingegneria elettorale; anche perché le cariche rappresentative restano un cespite cospicuo di prebende per una folta schiera di personaggi in carriera. In questo paesaggio devastato, ciò che chiamiamo “neoliberismo” (ma meglio sarebbe dire “rivoluzione conservatrice” dal momento che, come abbiamo imparato a nostre spese, il neoliberismo tanto liberista non è) altro non è che l’istituzionalizzazione dei cambiamenti e dei metodi a cui si è accennato in un sistema di governance fattosi regime nazionale e internazionale.

 

3. “Mi vengono idee che non condivido” dice il perplesso protagonista di una celebre vignetta di Altan. Lo stesso potremmo dire a proposito delle implicazioni che conseguono da questa analisi sommaria.

La prima è che l’era della democrazia progressiva è irreversibilmente alle nostre spalle: possiamo rimpiangerla ma non riesumarla. Si è trattato di una fase della storia del capitalismo e dello stato democratico circoscritta nello spazio e nel tempo, frutto di un concorso di condizioni esterne (la società industriale, la ricostruzione postbellica, l’equilibrio internazionale, la speranza diffusa in un mondo migliore) e interne (la presenza di partiti e sindacati verticalmente integrati capaci di alimentare un’azione collettiva continuativa, di uno stato interventista e proprietario, di rapporti di forza non troppo sbilanciati tra capitale e lavoro) che sono tutte venute meno. Se poi le tecnologie politiche che hanno dominato quell’epoca – i partiti, i sindacati e le stesse elezioni – siano da considerarsi strumenti irrimediabilmente obsoleti e vadano sostituiti (ma con che cosa?), o possano invece essere riconfigurati e rivitalizzati per essere spesi in un nuovo quadro politico di emancipazione e di progresso, è questione che merita una riflessione ad hoc.

Secondo punto. La democrazia realmente operante – quella che non solo consente e avalla, ma che alimenta le disuguaglianze, contribuendo a generare esclusione, malessere e anomia, che riproduce privilegi e corruzione, che nell’ultimo quarto di secolo è passata da una guerra all’altra e che oggi respinge i migranti creati dai conflitti che essa stessa ha provocato – sembra ben lontana da quel “valore universale” per anni stentoreamente proclamato. Mai come oggi, da almeno ottant’anni, la grande illusione democratica sembra alle corde. Perché è sempre più chiaro a molti che ciò che è successo di inaccettabile e di ingiusto, è successo non nonostante la democrazia, ma grazie ad essa, con la sua decisiva complicità. Ben lungi dal non decidere, come si va dicendo, in questi anni la democrazia ha deciso anche troppo. Solo che ha preso decisioni fondamentali – quasi sempre eterodirette -che sono in molti a ritenere “odiose” e che, a quanto pare, non è possibile cambiare con gli strumenti che sono nella disposizione comune dei cittadini, in primis le elezioni così come oggi si presentano. Bisognerà trovare altri mezzi, diversi da quelli proposti dal modello standard accreditato dall’establishment, che cambino la democrazia reale in una democrazia diversa e migliore o in qualcos’altro, non sappiamo cosa. Senza violenza ma con fermezza: radicalmente. Magari operando sottotraccia, in modo incrementale e surrettizio, con pazienza e senza clamori, proprio come han fatto lorsignori in questi ultimi lustri di regresso senza avventure.

 

4. Tutto questo conduce al possibile demiurgo della auspicabile futura metamorfosi. Che non si vede, né in azione né in potenza, quantomeno nei nostri lidi. Non sembra esservi traccia in giro, malgrado le autocertificazioni ricorrenti, di un attore collettivo credibile e risoluto non solo a resistere alla deriva corrente (che sarebbe già qualcosa), ma a farsi carico di un compito di rigenerazione sociale di lunga lena che oggi appare quasi sovrumano. Se, come si dice, c’è vita a sinistra, per il momento l’encefalogramma non la registra. Forse per una fase non breve converrà accontentarsi quantomeno di capire, per dirla col poeta, “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.