Come stanno le cose?

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di Guido Ortona, professore ordinario di Politica Economica, Università del Piemonte Orientale (in pensione)  guido.ortona@uniupo.it, giugno 2018

 

Il dibattito sulla situazione economica del nostro paese è sempre più coinvolgente, e ad esso partecipano -come è giusto, data la gravità della situazione- anche persone attente e interessate ma che non dispongono delle informazioni necessarie per rendere proficua la discussione. Abbiamo preparato questo breve vademecum sperando di contribuire a colmare questa lacuna.

 

1. Premessa. In Italia, più che in altri paesi, viviamo in generale in una bolla di ignoranza. Questo fa sì che spesso abbiamo delle idee sbagliate non perché siamo cattivi o stupidi, ma perché abbiamo in mente uno stato del mondo che non è quello vero. La disinformazione in Italia non opera tanto con censura o fake news, mi pare, quanto con la selezione delle informazioni. Faccio un esempio. Viene detto con una certa enfasi che l’occupazione ha raggiunto i livelli del 2008; non viene detto che il monte ore lavorate è ancora inferiore del 5% circa. Del resto una non-profit americana classifica la libertà di stampa dei diversi paesi mondiali in quattro categorie, libera, semilibera, poco libera e non libera. Italia e Grecia sono gli unici due paesi dell’Europa Occidentale ad appartenere alla seconda categoria anziché alla prima.

 

Note 1. Nel seguito farò riferimento solo ad alcuni paesi rappresentativi, per brevità.  2. Come promemoria, il pil italiano (2017, arrotondato) è di 1700 miliardi, e il debito pubblico è circa il 132% del pil. 3. Supporrò che l’inflazione (che peraltro è molto bassa) sia zero. Il motivo è che l’effetto dell’inflazione sul rapporto debito/pil è complesso ed erratico: a prima vista lo riduce, in quanto 100 euro di debito al momento dell’emissione valgono meno al momento del rimborso. Però se i famosi mercati si aspettano inflazione chiederanno un interesse più alto, ed è possibile che la spesa reale complessiva (rimborso più interessi) superi quella che si avrebbe in assenza di inflazione. 4. I dati sul pil includono anche una stima dell’economia sommersa.

 

Parte prima – Dati

 

2. Prima peculiarità dell’Italia: la mancata crescita economica. L’Italia ha alcune peculiarità negative che fanno sì che essa appartenga a una categoria di paesi diversa da quella dei paesi europei più sviluppati. La prima è la mancata crescita.

 

Crescita del pil pro capite

Paese pil pro

capite, 1995

pil pro

capite, 2016

Crescita

in %

Tasso di crescita

del  pil pro capite

non PPP 2006-2016,

medio annuo e totale

Italia 33152 34715   4.17 -0.6       -5.8
Francia 30900 38059 28.17 0.8          8.3
Regno Un. 28600 39230 37.17 1.2        21.9
Germania 33653 44260 31.52 1.1        10.5
Spagna 25051 33349 33.12 0.3          3.0

Prime tre colonne: Dati a prezzi costanti del 2011 in dollari PPP (cioè tenendo conto della differenza del potere d’acquisto). Quarta colonna: pil pc non PPP a prezzi costanti. Nel 2016 e nel 2017  il pil totale è cresciuto (dello 0.9% e dell’1.5%), ma con il tasso più basso dell’Unione, a parte la Grecia; quindi il divario è comunque aumentato.

 

3. Seconda peculiarità italiana: la disoccupazione. Gli economisti preferiscono riferirsi al tasso di occupazione, vale a dire la percentuale di occupati sulla popolazione in età di lavoro, piuttosto che al tasso di disoccupazione, che è la percentuale di occupati su coloro che vorrebbero lavorare, perché questo secondo dato è influenzato dai cosiddetti “lavoratori scoraggiati”, cioè coloro che hanno smesso di cercare lavoro perché tanto non lo trovano (in Italia sono circa 3 milioni). Ecco i dati (2016):

 

Tasso di occupazione (popolazione in età 20-64).

Paese

Tasso %

Italia 62.4
Francia 70.6
Regno Un. 78.2
Germania 79.2
Spagna 65.5

 L’Italia è penultima nella UE, davanti alla Grecia (57.8%).

 

La situazione è particolarmente seria per i giovani:

 

Percentuale di giovani di  età 15-34 NEET, 2016

Paese Tasso %
Italia 26.0
Francia 15.7
Regno Un. 13.0
Germania 10.5
Spagna 19.5
Media UE 15.6

NEET: “not in employment, education or training”, cioè che non studiano e non lavorano.

 

4. Terza peculiarità dell’Italia: il sottodimensionamento del settore pubblico. In Italia i dipendenti pubblici sono troppo pochi.

 

Addetti al settore pubblico, 2015

paese popolazione

totale

(migliaia)

occupati

nella PA

(migliaia)

 

occupati

nella PA

per 1000 ab.

Italia   62.500   3.055   48.9
Francia   64.300   5.530   83.2
Germania   81.100   4.262   52.5
Regno Un.   65.100   5.076   78.0
Svezia     9.800   1.383 141.1
USA 321.200 22.771   70.9
Spagna   46.400   2.805   60.5

 

Il valore della Germania è reso poco confrontabile dal fatto che il personale sanitario in Germania ha un contratto di tipo privato. Questi dati potrebbero essere influenzati dal fatto che in certi paesi i lavori pubblici sono affidati a imprese private o a cooperative più che in altri. La tabella che segue ci dice che non è così (e ci allontana dalla Germania).

 

Addetti totali, migliaia (dipendenti pubblici, privati o membri di cooperative) impiegati in settori tipicamente pubblici (forniture di acqua, elettricità e gas, pubblica amministrazione e personale civile della difesa, istruzione, salute e assistenza sociale), 2015; il dato USA non è esattamente comparabile.

  Francia

 

Germ.

 

Grecia

 

Italia

 

Spagna Svezia UK USA
addetti   8664 11070     870   4950   4172  1652  9674 58507
 per 1000 abit.  133.3  134.0    78.2    81.0    88.4  170.3  151.5 179.9

 

La  tabelle precedente consente di elaborare quella che segue, piuttosto impressionante, dove il tasso virtuale di disoccupazione è quello che si avrebbe se gli addetti per 1000 abitanti dei settori della tabella precedente fossero gli stessi dell’Italia; e che ci spiega

 

Perché è difficile ridurre abbastanza il tasso di disoccupazione operando solo sul settore privato.

Paese Tasso ufficiale di

disoccupazione

Tasso virtuale di

disoccupazione

 

Italia 11.7% 11.7%
Francia 10.1% 21.8%
Germania   4.1% 14.6%
Regno Unito   4.8% 18.5%

 

5. Quarta peculiarità italiana: la povertà. La povertà in Italia è molto alta, ed è aumentata molto velocemente, al punto che probabilmente non è ancora percepita in modo adeguato nell’opinione pubblica di chi povero non è.

 

Persone a rischio di povertà, 2016

   Percentuale

sulla popolazione

totale

Variazione %

2008-2016

Italia 30.0 19.15
Francia 18.2   2.81
Regno Un. 22.2   2.06
Germania 19.7 -1.90
Spagna 27.9 13.92

 

Una persona viene classificata “a rischio di povertà” sulla base di una serie di indicatori che riguardano l’attività lavorativa, il reddito e la disponibilità di alcuni beni fondamentali.

 

 

 

Parte seconda – La questione del debito.

 

6. un po’ di dati. Cominciamo con la proprietà del debito. Il 32.17% è in mano a privati (poco), istituzioni finanziarie e banche esteri, il 27.25 a banche e istituzioni finanziarie italiane, il 19.88 a fondi di investimento e assicurazioni italiani, il 15.45 alla Banca d’Italia e il 5.25 a privati italiani. In 30 anni sono stati pagati, secondo stime non ufficiali, circa 3000 miliardi di interessi (ai prezzi attuali; circa 750 negli ultimi 10); e questo è il motivo fondamentale della continua crescita del debito (bisogna contrarre nuovo debito per pagare gli interessi sul vecchio). La spesa per interessi equivale oggi a circa il 4% del pil (l’1.9% in Francia, l’1.4% in Germania, il 2.8% in Spagna), quindi 65-70 miliardi all’anno.

 

7. L’attivo primario. Un concetto fondamentale è quello di saldo primario, cioè la differenza fra entrate del bilancio dello Stato e uscite se non si tiene conto degli interessi. E’ chiaro che non occorre indebitarsi ulteriormente per pagare gli interessi solo se questo saldo è attivo e superiore alla spesa per interessi. Ora, il saldo primario è la differenza fra quanto lo Stato si prende di tasse e quanto restituisce come spesa pubblica, quindi non può essere troppo elevato, per motivi politici. A partire dal 2000 il saldo primario è stato in media del 2% circa del pil, quindi inferiore alla spesa per interessi, donde il circolo vizioso dell’indebitamento.

Le regole della zona euro impongono di ridurre progressivamente il rapporto debito/pil. Questo inizialmente peggiora la situazione, perché bisogna pagare non solo gli interessi ma anche una quota del debito; alla lunga la migliora, perché c’è meno debito.

 

8. Attivo primario e crescita economica. Esiste un’ovvia relazione inversa fra valore dell’attivo primario e crescita economica: l’attivo primario sono risorse sottratte alla domanda interna, con ovvi effetti recessivi, come evidenziato dalla tabella del paragrafo 2. E’ evidente che se invece di mandare 65 miliardi all’anno sul mercato finanziario mondiale lo stato li spendesse in stipendi, opere pubbliche ecc. l’economia crescerebbe di più.

Questa è -molto semplificata- la spiegazione del perché l’Italia, ma non altri paesi, ha avuto durante la crisi una crescita media negativa: gli altri avevano più spazio per espandere il debito (era più basso) e pagavano interessi più bassi (per lo stesso motivo).

Inoltre, il valore della spesa per interessi e per riduzione del debito dipende moltissimo da fattori indipendenti dalla politica economica del governo: in primissimo luogo i tassi di interesse e la crescita dell’economia. Può crearsi un circolo vizioso. Se i tassi di interesse aumentano, bisogna pagare di più per interessi e quindi sottrarre risorse all’economia. Questo fa rallentare l’economia, e per evitare catastrofi dovute al crollo della domanda interna sarà necessario contrarre un maggior nuovo debito per pagare gli interessi. Ma l’espansione del debito fa ulteriormente aumentare sia il volume degli interessi, sia tassi di interesse (se l’Italia vuole collocare più debito deve pagare interessi più alti, perché i potenziali compratori vogliono essere compensati per il maggior rischio di non essere rimborsati: più è alto il debito, maggiore è il rischio che il debitore dichiari fallimento). Al tempo stesso la necessità di un attivo primario più alto fa rallentare ulteriormente l’economia, e così via.   Questo spiega il diffuso timore, apparentemente patologicamente eccessivo, di “spaventare i mercati”.

 

9. Europa e rischio. In base agli accordi sull’Euro, dobbiamo ridurre progressivamente il rapporto debito/pil, fino a portarlo al 60% del pil. La cosa ha senso: dal momento che il debito è in euro ed è garantito dalla banca centrale europea, quindi ha poco rischio, il debito potrebbe espandersi a dismisura facendo concorrenza alle emissioni di altri paesi. Donde la doppia immagine della situazione: in Germania si ritiene che l’Italia e la Grecia vivano a sbafo grazie al debito facile, in Italia e Grecia si ritiene che l’economia nazionale stia venendo strozzata per pagare il debito.

Su questo si innesta la politica interna. In Germania una maggioranza sostiene che bisogna far vedere che si è duri verso gli spreconi, per motivi di opinione pubblica ma anche per far capire ai creditori che i crediti verranno garantiti a tutti costi; in Italia una maggioranza sostiene che bisogna essere duri verso la Germania, per motivi di opinione pubblica ma anche per evitare che l’economia collassi.

 

10. I vincoli europei. Quindi la situazione è questa: se si rispettano i dettami dei regolamenti della BCE dopo alcuni anni molto duri si tornerà a un livello accettabile del debito e ci sarà più spazio per una politica comune europea fra stati analoghi. PERO’ nel percorso è possibile che l’economia italiana si riduca ai minimi termini e che il sistema politico non regga. Se si rompono i vincoli europei si possono attuare politiche espansive, PERO’ il tasso di interesse sale moltissimo e per evitare che si ricaschi nel caso precedente bisogna ridenominare il debito in lire e quindi uscire dall’euro, con tutti i traumi che ciò può comportare. In altri termini: se rispettiamo l’Europa restiamo parte di essa, con le positive prospettive di lungo periodo che ciò implica, ma rischiamo, nel tentativo, di distruggere l’economia. Se vogliamo essere sicuri di salvare l’economia dobbiamo rompere in qualche (comunque elevata) misura con l’Europa, e c’è il rischio che la cosa comunque non funzioni (per es. se si produce un’inflazione talmente alta da bloccare le nostre esportazioni, o se si scatena una guerra commerciale). Ma in pratica, cosa significa allentare i vincoli europei? Ci sono molte possibilità, fra cui -in ordine di “rottura” con l’Europa-

a) una serie di provvedimenti limitati, come alleggerire la disciplina sui crediti deteriorati delle banche;

b) l’autorizzazione all’emissione di nuovo debito, con gli interessi calmierati dalla BCE;

c) il prolungamento delle scadenze del debito;

d) l’emissione di titoli europei per finanziare gli investimenti;

e) la cancellazione della parte di debito in possesso della Banca d’Italia;fino alla

f) l’introduzione della piena occupazione come obbiettivo statutario della BCE.

 

11. Chi dice cosa. In sostanza, il dissidio (fra chi è in buona fede) è fra chi teme maggiormente i pericoli insiti nel distacco dall’Euro e chi teme maggiormente i pericoli per l’economia, la società e la politica insiti nel rispetto oltranzistico dei vincoli europei. Come dice Varoufakis (“Il Fatto Quotidiano”, 2 giugno), “Un’Italexit sarebbe dolorosa e avrebbe conseguenze terribili. Ci sarebbe uno choc fortissimo. Ma, al tempo stesso, stando nell’euro come è ora con il rifiuto di Berlino di riformarlo, gli italiani vanno incontro a una lenta morte e una stagnazione permanente per effetto di tanti piccoli tagli”. Anche perché -aggiungo io- i dati della prima parte indicano che lo spazio economico per l’austerità è molto scarso (e i risultati del 4 marzo indicano che quello politico è quasi finito).

Possiamo a questo punto elencare le diverse proposte su cosa fare. Ce ne sono sostanzialmente sette. E’ bene premettere che tutte, meno l’ultima, hanno alle spalle elaborazioni e analisi solide. In altri termini, nessuna di esse -tranne l’ultima, che è probabilmente la più diffusa e la più importante- è  campata in aria. Eccole qua. Fra parentesi almeno un nome di economisti che la pensano così. Non sono tutte alternative fra loro: io per esempio approvo l’opzione 6 ma anche l’opzione 2.

 

  1. Continuando così l’economia va a spianto, bisogna uscire dall’euro prima possibile (Bagnai).
  2. Bisogna ridiscutere i trattati, o nel senso di cancellare una parte del debito o nel senso di potere espandere il deficit in modo da favorire il rilancio dell’economia. (Fassina, Savona, Tria).
  3. Bisogna continuare a rimborsare il debito rispettando tutti gli impegni, evitando di provocare i mercati e cercando di tamponare il malcontento sociale (Padoan, Alesina).
  4. Bisogna fare come sopra, ma assicurando presso la BCE il debito pubblico contro i rischi da fluttuazione del tasso di interesse o da recessione (Minenna).
  5. Bisogna creare “L’Europa dei popoli”, che si dia come obbiettivo di far stare bene la gente in tutto il continente e di mettere sotto controllo il mercato finanziario (Varoufakis).
  6. Bisogna cercare di rilanciare la domanda interna rispettando i vincoli. Ci sono molte proposte: assunzioni straordinarie nella Pubblica Amministrazione da pagarsi con un’imposta sulla ricchezza finanziaria (Contini, Ortona, Scacciati); assegnazione di buoni sconto sulle tasse future utilizzabili come moneta (Grazzini, Zezza, Cattaneo); monetizzazione dei debiti commerciali dello Stato (Borghi); trasformazione del debito pubblico in debito presso una banca pubblica (Werner). Forse anche altre che ignoro o ho dimenticato.
  7. Non bisogna fare niente e lasciare che le cose vadano per il loro verso. Perché nessuna delle proposte del punto precedente (tranne forse quella di Borghi) viene presa in considerazione in sede politica? Credo che il motivo principale sia che il politico medio ha paura delle responsabilità. Se le cose vanno male è meglio stare nascosti: se si viene fuori con delle proposte innovative e poi vanno male si viene ritenuti responsabili. Quindi il politico medio pensa che affrontare i problemi di fondo non siano affari suoi.

 

  1. 12. Conclusione. Quanto sopra è tutto un discorso da economisti. Alcuni pensano che lo si debba rovesciare: bisogna darsi come obbiettivo a livello nazionale di fare stare bene la gente, e vedere come farlo evitando il più possibile delle crisi nel funzionamento economico. Per esempio, bisogna abbandonare comunque le politiche di austerità, e regolare i mercati di conseguenza. Secondo me chi la pensa così ha ragione. Anche perché chi rispetta scrupolosamente i vincoli economici poi non deve stupirsi troppo se la gente si ribella – purtroppo spesso nella direzione sbagliata. Una novantina di anni fa l’austerità promossa dal governo socialdemocratico in Germania ha fatto sì che Hitler vincesse le elezioni.