Paradisi fiscali e sovranità offshore

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di Giulia Picano

 

1. Le lingue neolatine usano le espressioni paradisi fiscali, paradis fiscaux e paraisos fiscales in ragione di un’erronea e ormai consolidata traduzione dall’inglese tax havens. Ma queste giurisdizioni sono, letteralmente, dei rifugi fiscali per individui e imprese che, in assenza di un legame economico sostanziale con i territori in questione, se ne avvantaggiano in termini di bassa o nulla imposizione e di godimento di particolari condizioni di opacità e di segretezza. L’attrattiva esercitata da questi Stati sugli operatori economici non si limita però alla sola dimensione fiscale: le lacune normative in materia di regolamentazione e sorveglianza finanziaria, tipiche dei moderni centri offshore, offrono ai capitali mobili anche delle possibilità di investimento e di speculazione libere dai vincoli normalmente imposti dalle autorità pubbliche.

Sebbene la problematica sia presente da anni nell’agenda dei decisori politici, la crisi le ha attribuito nuove caratteristiche di urgenza. Le difficoltà economiche e finanziarie fronteggiate dagli Stati impongono di arginare la fuga dei capitali offshore e di trovare una soluzione all’instabilità del contesto internazionale, che la resistenza alla cooperazione dei paradisi fiscali contribuisce ad alimentare. Negli ultimi anni, la rinnovata attualità della tematica ha favorito l’emergere di nuovi punti di vista e prospettive di analisi, come quella proposta da Alain Deneault nel suo saggio Offshore. Paradisi fiscali e sovranità criminali, pubblicato in traduzione italiana lo scorso anno dalla casa editrice Ombre Corte.

L’originalità del contributo di Alain Deneault risiede nel suo tentativo di ridefinire concettualmente l’immagine dei paradisi fiscali, insistendo sulla loro natura di «organismi politici positivi e sovrani»1, giurisdizioni collocate «fuori dai cardini di qualsiasi istituzione pubblica»2, ma parte integrante dei circuiti economici mondiali. Offshore i capitali, una volta trovato riparo dal fisco e dall’autorità giudiziaria, non restano inattivi. Come spiegato da Deneault, «questo denaro lavora: senza più nessun ostacolo […] senza regolamentazioni […] senza controllo»3. Soprattutto, i paradisi fiscali non costituiscono un’isolata anomalia, un altrove marginale della finanza, non direttamente e immediatamente connesso con gli Stati di diritto. Al contrario, «queste economie parallele non sono nient’altro che le nostre economie»4: le piazze offshore sono centri finanziari di primo piano, dai quali si dirama una fitta trama di investimenti in tutto il mondo.

Secondo le stime del Tax Justice Network, la ricchezza privata complessivamente detenuta offshore oscilla tra i 21.000 e i 32.000 miliardi di dollari, pur essendo posseduta da meno di 10 milioni di individui. Il lato oscuro dell’economia globale è dell’ordine di grandezza del PIL di Giappone e Stati Uniti, ma corrisponde allo 0,1% della popolazione mondiale. Calcolando su questa cifra un rendimento annuo del 3% e un tasso di imposizione del 30%, le entrate mancate appaiono comprese tra i 190 e i 280 miliardi di dollari: ben più di quanto i Paesi dell’OCSE siano attualmente in grado di investire nelle politiche di sviluppo. Al flusso di evasione fiscale delle persone giuridiche occorre aggiungere le fughe offshore dei profitti di società multinazionali e istituti bancari e finanziari perfettamente integrati nei circuiti economici ufficiali, realizzate attraverso raffinate strategie di ottimizzazione fiscale. Le tre banche private che detengono la quota maggioritaria di assets nei paradisi fiscali sono UBS , Credit Suisse e Goldman Sachs . Il confine tra lecito e illecito e tra onshore e offshore è meno definito di quanto si potrebbe immaginare.

Ricercatore di sociologia economica, ma filosofo di formazione, Alain Deneault apre sui centri offshore un nuovo scenario di riflessione, di ampio respiro, che si basa su un ripensamento profondo delle interazioni tra politica ed economia e della loro articolazione attorno al concetto di sovranità. I paradisi fiscali sono prima di tutto degli Stati, dotati di una struttura politica stabile e definita, e di un potere esclusivo sul loro territorio. Si tratta però di Stati che fanno un uso strategico di questo potere sovrano, commercializzandolo per attrarre i capitali mobili. Non tassati e non controllati, gli operatori economici conquistano margine di manovra e potere decisionale, proponendosi come nuovi attori sovrani, in grado di incidere profondamente sulla realtà sociale.

2. Nel solco delle riflessioni di Deneault, una definizione dello status sovrano dei centri offshore appare dunque come un’operazione particolarmente complessa. È fondamentale partire da una ricostruzione del processo di formazione ed evoluzione dei paradisi fiscali. Secondo l’interpretazione di Ronen Palan e della scuola di economia politica internazionale britannica, essi sono il frutto dello scontro tra la frammentazione del sistema politico in rigide entità statali e il dispiegamento delle forze economiche in un unico mercato integrato. A partire dalla fine del XIX secolo si è infatti creata una tensione tra l’evoluzione politica, caratterizzata dall’isolamento giuridico dello Stato di diritto, e l’evoluzione economica, dominata da attori mobili e difficilmente inquadrabili nel solo ordinamento nazionale. Dalle forzature degli interstizi tra i sistemi giuridici nazionali attuate dagli operatori di mercato, da un lato, e dalle decisioni politiche e dalle strategie economiche degli Stati di diritto, dall’altro, sono emersi degli spazi nei quali la pressione statale sugli operatori economici appare in qualche misura ridimensionata.

Dalla registrazione di comodo per motivi fiscali al segreto bancario, i diversi dispositivi a vantaggio di precise categorie economiche e finanziarie sono stati adottati da un numero sempre più ampio di giurisdizioni. Dai prototipi della fine del XIX secolo fino ai moderni centri finanziari offshore, i meccanismi di rivalità ed emulazione competitiva tra gli Stati hanno contribuito alla diffusione dei paradisi fiscali in tutto il mondo. Queste dinamiche concorrenziali di vendita e acquisto di spazi sovrani sono avvenute a ritmo accelerato a partire dagli anni ’80, in un contesto di deregolamentazione finanziaria, accresciuta mobilità dei capitali, forte innovazione tecnologica. Le scelte politiche compiute a livello nazionale e internazionale e l’affermazione del paradigma neoliberista hanno contribuito alla creazione di un clima favorevole all’auto-disciplina delle forze del mercato e a una riduzione del controllo pubblico su di esse: il definitivo successo dello spazio offshore.

La dimensione politica è fondamentale. Mediante uno sforzo di astrazione concettuale, gli spazi offshore possono essere utilmente concepiti come delle arene giuridiche sotto-regolamentate, ma essi coincidono pur sempre con degli Stati sovrani. Individuare concretamente queste giurisdizioni non è però un’operazione immediata: essa sottende un metodo, un approccio, uno sguardo sulla realtà offshore. Non ne esiste infatti una definizione univoca: in termini generali, l’OCSE e le organizzazioni internazionali restano ancora fedeli ai classici parametri fiscali, mentre la letteratura accademica e le organizzazioni non governative utilizzano dei criteri differenti, sia qualitativi, relativi all’ambiente normativo offerto dallo Stato in questione, sia quantitativi, come la sproporzione tra l’esportazione dei servizi finanziari e le dimensioni e le necessità dell’economia nazionale.

Ad ogni approccio metodologico corrisponde una differente mappa del mondo offshore: per esempio, le liste nere istituzionali hanno a più riprese qualificato come paradisi fiscali le isole britanniche del Canale della Manica e le dipendenze caraibiche di Regno Unito e Stati Uniti, ma non hanno mai stigmatizzato direttamente le due grandi potenze. Al contrario, gli approcci alternativi le riconoscono come veri e propri poli organizzativi della realtà offshore, sfumando ulteriormente il confine con il mondo onshore. Più in generale, molti dei dispositivi offerti dai paradisi fiscali, tra i quali gli schermi societari che permettono di modificare la propria residenza, dissimulare la natura delle proprie transazioni economiche o nascondere l’origine dei propri redditi, si collocano al limite tra lecito e illecito. Essi rientrano nelle strategie aziendali di alcuni degli attori principali del capitalismo contemporaneo.

Le conseguenze provocate dall’esistenza dei paradisi fiscali sono molto rilevanti, perché offshore gli operatori economici trovano gli strumenti per sottrarsi agli oneri e ai vincoli imposti dai loro Stati di appartenenza, primo fra tutti il pagamento delle imposte. In quanto strumento di elusione ed evasione fiscale, essi privano gli Stati delle entrate necessarie al finanziamento delle politiche pubbliche, aumentano arbitrariamente le diseguaglianze e incrinano la solidità dei principi democratici. Strategicamente posizionati nei punti nevralgici dell’architettura finanziaria internazionale, essi rappresentano anche un elemento di instabilità e di crisi a livello sistemico, perché incoraggiano la formazione e la circolazione di enormi e incontrollate masse finanziarie e contribuiscono alla propagazione degli shock.

Se offshore è sinonimo di spazio sotto-tassato e sotto-regolamentato, a tale definizione possono essere ricondotte anche le zone franche di produzione ed esportazione e le giurisdizioni che offrono bandiere di comodo. Sia le EPZ (Export Processing Zones) sia i porti franchi permettono di abbattere i costi di registrazione delle società, di minimizzare il pagamento delle imposte, di ridurre gli obblighi in materia di diritto del lavoro e diritto ambientale. Ancora una volta, si tratta di innovazioni giuridiche create e gestite da Stati sovrani, ma di fatto offerte alle esigenze degli operatori privati. Alle conseguenze fiscali e finanziarie del fenomeno offshore si aggiungono allora ulteriori costi sociali e ambientali, dovuti a una gestione poco equa e responsabile delle attività economiche.

Un ulteriore ampliamento dell’angolo di analisi consiste inoltre nel prendere in considerazione i centri offshore come fattori che concorrono all’impoverimento dei Paesi del Sud del mondo. Essi non solo rappresentano un rifugio fiscale per le élite locali ma, a livello sistemico, coinvolgono i Paesi del Sud nei meccanismi del dumping offshore, ovvero della revisione al ribasso del livello di imposizione e degli standard prudenziali. Infine, dal momento che la maggior parte dei paradisi fiscali non coincide con giurisdizioni deboli, isolate e marginali, ma con Paesi protetti e coordinati da grandi potenze, l’offshore appare come canale di un vero e proprio flusso regressivo di capitali dal Sud al Nord del mondo. Secondo uno studio dell’economista Alex Cobham, i Paesi in via di sviluppo perdono ogni anno per motivi fiscali almeno 385 miliardi di dollari: una stima comunque più prudente di quelle di Oxfam e del Tax Justice Network , che azzardano cifre comprese tra i 500 e i 1.000 miliardi.

3. In ragione degli effetti che il fenomeno offshore produce, le istituzioni europee e gli organismi internazionali hanno avviato delle politiche di contrasto ai paradisi fiscali, a partire dalle black list dei Paesi non cooperativi pubblicate nel 2000. Le misure sono state inasprite dopo la crisi del 2008 e la messa in agenda del problema dell’evasione fiscale offshore e dell’instabilità del sistema finanziario da parte del G20 di Londra del 2009. In tale occasione è stato stilato un nuovo catalogo dei Paesi non conformi agli standard internazionali, con l’obbligo di firmare almeno dodici trattati di scambio bilaterale delle informazioni fiscali per esserne ritirati, pena sanzioni economiche, e sotto la supervisione di un meccanismo di peer review . Tale politica, di certo più incisiva, ha portato a dei risultati ancora limitati, innescando principalmente una riallocazione dei fondi presso le giurisdizioni che hanno saputo conservare il più alto grado di opacità.

Il fattore decisivo sembra risiedere nell’accumulazione del capitale politico necessario e nella volontà di spenderlo, come dimostrato dai risultati ottenuti dall’aggressiva azione americana contro il segreto bancario svizzero. Minacciata di essere tagliata fuori dal mercato statunitense, la Svizzera è stata costretta, a partire dal 2009, a ridimensionare le proprie pratiche di riservatezza. Grazie al Foreign Account Compliance Act, votato nel 2010, gli enti finanziari stranieri desiderosi di operare sul suolo americano dovranno rivelare al fisco l’identità dei loro clienti statunitensi. D’altro canto, i paradisi fiscali possono a loro volta far valere le loro relazioni politiche: la Confederazione elvetica, pur di conservare l’anonimato dei propri conti, ha infatti negoziato una sanatoria con importanti partner europei, come Germania, Regno Unito, Austria e forse, in un prossimo futuro, l’Italia.

4. I profili politici rappresentano un aspetto fondamentale del fenomeno offshore. I vantaggi concessi dai paradisi fiscali ad una vasta gamma di operatori economici hanno determinato un significativo trasferimento di potere a vantaggio di questi ultimi. La politica sembra faticare a seguire e contenere un sistema finanziario che è cresciuto in modo incontrollato, giovandosi anche dei privilegi offerti dalle piazze offshore. Ma ciò non significa che la partita sia stata giocata al di fuori dello spazio delle relazioni interstatali: come la volontà politica ha segnato le modulazioni del potere sovrano alla base della formazione dei paradisi fiscali, così la scarsa incisività delle azioni collettive finora intraprese evidenzia anche la riluttanza dei grandi Stati ad affrontare il problema.

L’anomalo sotto-dimensionamento del sistema fiscale e normativo dei Paesi offshore sembra farli apparire come degli Stati, per usare un’espressione presa in prestito dal vocabolario della guerra fredda, a sovranità limitata, strumentali alla superpotenza oggi rappresentata dall’economia e dalla finanza globalizzata: una minaccia profonda alla cosa pubblica. Occorre tuttavia precisare questa affermazione. Come sostenuto da Deneault, il fenomeno offshore sta producendo una degenerazione degli Stati di diritto, manifestazione della sovranità popolare, in «Stati del diritto»5, che agiscono come gestori di disposizioni legali al servizio di interessi privati. Il confinamento del soggetto Stato in uno spazio limitato, dove è relegato al ruolo di burocrate e amministratore, è testimoniato dal sempre più largo utilizzo del termine governance: «la gestione si sostituisce alla politica»6.

Nell’interpretazione di Alain Deneault, questo indebolimento del pubblico prende la forma di una sorta di abdicazione degli Stati a vantaggio di nuove sovranità private. Tale movimento riproduce il trasferimento di potere che, nella teoria contrattualistica, avviene tra individui ed entità statale al momento del passaggio dallo stato di natura alla società civile. Ma nel trasferimento delle prerogative di potere agli attori finanziari, viene compiuto un ulteriore passaggio: non esiste più alcun obbligo nei confronti del popolo, che viene rigettato, negato, escluso dal contratto. È dunque la sovranità popolare, e non la sovranità giuridica formale dello Stato, a essere compressa e minacciata dal fenomeno offshore.

5. Gli strumenti per rimediare a questa situazione, riportando il benessere della cittadinanza al centro dell’azione politica, esistono e coincidono con le misure invocate dalle organizzazioni non governative e da sempre più ampi settori della società civile. Occorre innanzitutto promuovere la trasparenza. Banche e imprese devono essere obbligate alla pubblicazione di bilanci dettagliati, nei quali le informazioni finanziarie appaiano disaggregate, con rendiconti separati Paese per Paese, in modo da portare allo scoperto le pratiche fiscali dubbie. Analogamente, bisogna promuovere i sistemi multilaterali di scambio automatico delle informazioni tra gli Stati, imponendo a ogni giurisdizione di condividere con le altre i dati sui redditi e i patrimoni dei rispettivi contribuenti, senza la necessità di un’esplicita richiesta. Inoltre, a livello globale, è fondamentale ridefinire il tema dell’evasione fiscale internazionale e inserirlo nel dibattito sulla riforma del sistema finanziario, dedicando adeguato spazio anche alle necessità dei Paesi in via di sviluppo. Infine, a livello culturale, bisogna promuovere la costruzione di una nuova cornice concettuale, nella quale l’aspetto fiscale appaia come un’imprescindibile condizione di giustizia.

Il problema è che toccare i paradisi fiscali significa minacciare consolidati interessi economici e finanziari e colpire giurisdizioni dipendenti o protette da grandi potenze. La difficoltà da affrontare è una realtà nella quale non esiste una cesura netta tra paradisi fiscali al servizio degli operatori privati e Stati di diritto dalla piena sovranità. La situazione è ben più complessa: «ogni paradiso fiscale è il doppio negativo […] di uno Stato di diritto»7 e il fenomeno offshore appare caratterizzato da un’insopprimibile contraddizione. Da un lato, il soggetto Stato sembra aver esaurito il proprio ruolo di detentore esclusivo della capacità di agire sulla realtà sociale e appare soffocato dalle conseguenze provocate dalla rete offshore. Dall’altro, a questo stesso soggetto basterebbe «un tratto di penna»8 per eliminare i paradisi fiscali. Come affermato dal giurista francese Jean de Maillard: «i paradisi fiscali non sono altro che delle illusioni nel sistema finanziario internazionale ed esistono solo perché i grandi Paesi industrializzati ne hanno bisogno. Siamo in piena ipocrisia: fingiamo che questi Paesi siano indipendenti e che non sia possibile un’ingerenza nei loro affari, quando invece essi sono per tre quarti dipendenti dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Essi non esisterebbero se solo decidessimo che non devono esistere»9.

 

Note

1. A. Deneault, Offshore – Paradisi fiscali e sovranità criminal i, Ombre Corte, Verona 2011, p. 8.

2. Ivi, p. 81.

3. Ivi, p. 8.

4. Ibidem.

5. Ivi, p.111.

6. Ivi, p.110.

7. A. Deneault, Le concept réfracté de la souveraineté et les Etats offshore, Eurostudia, vol. 2, n.2, 2006, p. 4.

8.  Ivi, p. 10.

9.  J. de Maillard, Jeune Afrique / L’Intelligent, n. 2172, agosto 2000