Cosa capita quando le leggi dell’economia confliggono con quelle della politica?

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di Guido Ortona

 

1. Premessa e riassunto

Per molti anni l’economia ha goduto di molto prestigio, e la politica di pochissimo. Ciò ha aiutato gli economisti a trascurare la politica. L’atteggiamento più diffuso fra gli economisti è stato di dire «bisogna fare così. Se ci sono ostacoli politici è perché chi si oppone non capisce l’economia, bisogna ignorare questi ostacoli». Qui suggeriremo che questa impostazione è non solo sbagliata dal punto di vista della implementabilità delle politiche suggerite, ma anche logicamente inconsistente; il che per un economista costituisce un errore imperdonabile

2. Le leggi delle scienze umane

Le leggi di natura non possono essere in contrasto fra di loro. Le leggi della biologia devono rispettare quelle della chimica, ed entrambe quelle della fisica. È però possibile che gli scienziati che fanno previsioni usando le leggi di una qualche scienza sbaglino perché trascurano quelle di un’altra scienza, magari perché ne sono meno esperti. Per fare un esempio, la teoria illuminista dell’ homme machine trascurava le componenti non meccaniche della “natura umana”.

Lo stesso vale per le scienze umane. Lo studioso o il praticante che si affidino solo alle leggi dell’economia trascurando quelle della politica commetteranno inevitabilmente degli errori. A questo argomento è dedicato questo scritto. Per procedere dobbiamo però prima metterci d’accordo su cosa sono le leggi dell’economia e quelle della politica.

Così come per le altre scienze, una legge economica consente di prevedere un risultato date delle premesse. Questa previsione è meno certa di quelle delle scienze fisiche, quindi diciamo che una legge economica consente di prevedere “con ragionevole certezza” un risultato data una premessa. Per esempio, sotto determinate condizioni se cala il tasso di interesse aumenteranno gli investimenti; se si raddoppia l’emissione di moneta si avrà un’elevata inflazione; se in un dato paese cresce il costo del lavoro più che in altri le sue esportazioni di beni diminuiranno; e così via. Il vero problema per un utilizzo corretto delle leggi dell’economia sta nelle “determinate condizioni”: dato che spesso queste sono difficili da accertare, è facile non accorgersi di casi in cui esse non sono rispettate; e naturalmente è anche facile pretendere in mala fede che esse lo siano (su questo secondo caso torneremo in un prossimo paragrafo). È facile accertare l’assenza delle condizioni sotto le quali la famosa mela di Newton cadrebbe verso l’alto (per esempio, un forte vento che soffi dal suolo); assai più difficile accertare quelle sotto le quali un aumento delle retribuzioni non riduce la competitività (per esempio, una massiccia sostituzione di capitale a lavoro). Il caso delle leggi della politica è ancora più intrigante. La politica riguarda per definizione la composizione di scelte individuali in scelte collettive, e sappiamo che questa composizione dipende crucialmente dalla procedura; quindi le leggi della politica devono essere procedura-specifiche. Inoltre la decisione politica individuale può essere viziata da gusti, pregiudizi, errori di valutazione, ecc. molto più di una decisione più strettamente economica. L’irritazione per il comportamento dei candidati del proprio schieramento indurrà facilmente a non votarli, anche se ciò propizia la vittoria dello schieramento opposto; l’indignazione per il comportamento delle banche difficilmente indurrà a tenere i risparmi sotto il cuscino. Quindi occorre specificare anche il tipo di soggetti che compongono le comunità cui ci riferiamo: sono passionali? Sono propensi al rischio? Sono conformisti? Sopratutto, è assai più difficile valutare la presenza delle “determinate condizioni”. Per fare un esempio, in molti paesi democratici la libertà di opinione è fortemente limitata dalla necessità di autocensura, e in modo molto variabile: un insegnante di scuola superiore può forse dire di avere simpatie comuniste a Berkeley, ma certo assai meno a Smallville. L’assenza di una sezione comunista a Smallville è dovuta alla libera scelta di non essere comunisti o alla costrizione a non esserlo?

Ciononostante, possiamo enunciare almeno una legge della scienza della politica, che mi permetto anzi di chiamare «legge fondamentale della scienza politica», e che è la seguente (la dimostrazione e la discussione sono in appendice):

«In una comunità in cui (a) i soggetti possono votare liberamente e (b) senza costi, in cui (c) le regole del voto fanno sì che non vi sia interesse a votare in modo insincero, e in cui (d) non sia possibile un trasferimento dei guadagni di utilità conseguenti al voto, dei soggetti razionali perfettamente informati che devono votare fra diverse alternative voteranno per quella che dà loro maggiore utilità».

È chiaro che le “determinate condizioni” di questa legge sono quelle di una società ideale, in pratica inesistente. Ciò che si vuole argomentare in questo scritto è però che persino in una società ideale siffatta è possibile che le leggi dell’economia confliggano con quelle della politica; e dal momento che dal punto di vista della possibilità di questo conflitto questa società ideale non ha alcuna specificità, potremo dire alla fine del nostro percorso che questo conflitto è possibile in generale. In altri termini, l’assenza di conflitto è un caso particolare; che può essere più o meno frequente, ma che non è garantito.

Supponiamo allora di essere nelle condizioni assunte dalla Legge Fondamentale, e in più che la politica adottata sia quella voluta dalla maggioranza. È appena il caso di sottolineare come ci troviamo nel contesto di quella che possiamo chiamare una società democratica tipica.

3. Leggi dell’economia in conflitto con leggi della politica

In questo paragrafo vedremo due casi in cui le leggi dell’economia entrano in conflitto con la Legge Fondamentale della politica nella nostra società democratica tipica. Il primo è questo. Supponiamo che la società si trovi in una situazione di crisi economica che ammette un’unica soluzione, chiamiamola soluzione A. A comporta un certo periodo di sacrifici, che implicano una riduzione di benessere per la maggioranza della popolazione, cui farà seguito un periodo di ripresa. Se non viene adottata la strategia che porta a questo risultato, l’unica alternativa è non fare nulla, e ciò porterà ad un lento declino dell’economia e dei redditi individuali. Chiamiamo questa alternativa B. Naturalmente, la maggior parte degli economisti dirà che bisogna adottare A; dirà anzi che date le leggi dell’economia bisogna adottare A. Ma se i sacrifici sono abbastanza ampi, e se il periodo in cui si protraggono è abbastanza lungo, è perfettamente possibile che la maggioranza dei soggetti preferisca B, e quindi che le leggi della politica impongano invece questa soluzione. Chi non fosse convinto troverà in appendice un semplice esempio numerico. L’esempio è molto stilizzato, ma tutt’altro che assurdo: per esempio, il PNL pro capite degli USA (a prezzi costanti) è cresciuto di circa il 16% fra il 1999 e il 2007, ma nello stesso periodo i redditi della maggioranza dei cittadini sono calati; non è quindi assurdo pensare che, se avesse potuto scegliere, probabilmente il popolo americano avrebbe votato contro la strategia di crescita che ha prodotto quell’espansione.

Il secondo caso è il seguente. Siamo di nuovo in una crisi economica. Il ragionamento si svolge in due periodi. La strategia B è di nuovo non fare nulla, e ciò comporta una perdita per tutti, oggi come in futuro. Le leggi dell’economia consentono solo o di non fare nulla oppure di adottare la strategia A; che comporta gli stessi sacrifici oggi per la maggioranza dei soggetti, ma anche dei vantaggi per un gruppo di essi. Questi nel secondo periodo possono scegliere fra una strategia che avvantaggia tutti e un’altra che avvantaggia solo loro, e di più. Anche in questo caso la maggioranza potrà ragionevolmente scegliere B (si veda l’esempio numerico in appendice). Anche questo esempio è realistico: corrisponde al tradimento di numerosi accordi sul costo del lavoro siglati in Italia, a partire da quello del 1993.

In entrambi gli esempi il risultato del conflitto fra politica ed economia è la vittoria delle leggi della politica e, auspicabilmente, una perdita di prestigio degli economisti che hanno suggerito la soluzione A, ignorando colpevolmente il ruolo delle leggi della politica. Il risultato ha però un valore generale, che è questo. Molto spesso gli economisti consiglieri dei principi (o castigatores morum) millantano a sproposito la presenza di leggi economiche. Ma anche quando il richiamo alle leggi economiche è fondato, delle strategie economiche che tengono correttamente conto delle leggi dell’economia possono essere respinte nel pieno rispetto della democrazia da una comunità formata da individui perfettamente razionali, persino nel caso estremo in cui non vi sono altre soluzioni (e quindi a fortiori quando queste vi sono). Questa possibilità è dovuta alle leggi della politica, che in quanto leggi non possono essere disattese. Un modo forse più suggestivo di vedere questo risultato è il seguente: nessun modello normativo di politica economica è completo se non considera le condizioni sotto le quali esso sarà accettabile politicamente, dato che gli stessi soggetti razionali assunti dal modello economico possono rifiutarlo1.

4. Un po’ più di realismo

Un lettore attento si sarà accorto di una difficoltà. Se le leggi dell’economia e quelle della politica sono appunto leggi, non possono essere disattese, e quindi in realtà non ha senso parlare di conflitto fra di loro. Nel linguaggio comune, e anche in questo scritto, quando si parla di questo tipo di conflitto ci si riferisce quindi a qualcosa di diverso, e cioè al tentativo di imporre strategie economiche fondate sulle leggi dell’economia trascurando le conseguenze politiche di questa scelta. Non mi riferisco ai casi, frequentissimi e che andrebbero criticati e combattuti dagli economisti assai più di quanto avvenga, in cui viene millantata a torto la presenza di una legge economica2; mi riferisco ai casi in cui nello scegliere le strategie economiche vengono trascurati gli aspetti politici. Abbiamo visto che anche la politica ha le sue leggi, e che ciò implica che nessuna strategia economica, ancorché solidamente basata sulle leggi dell’economia, può essere ritenuta valida se è in contrasto con esse; e ciò avrebbe dovuto obbligare gli economisti, in presenza di ostacoli politici alle loro proposte, a introdurre questi ostacoli nei loro modelli. Una famosa barzelletta racconta che un economista naufragato su un’isola deserta con molto cibo in scatola ma senza strumenti per tirarlo fuori risolve il problema supponendo di avere un apriscatole. Molti economisti si sono comportati, e ancora si comportano, così: supponendo che non esistano i sindacati, che i partiti siano disposti a perdere voti per avere attuato politiche impopolari, e così via. Gli economisti consiglieri del principe amano spesso ammantarsi di realismo: «c’è poco da fare, bisogna abbassare i salari, e/o tagliare i servizi e/o aumentare l’età pensionabile, chi non lo capisce non è realista». Queste proposte suscitano spesso malcontento, e abbiamo visto che questo malcontento può essere del tutto razionale; e quindi dire che è frutto di incomprensione non è realistico .

Fin qui abbiamo supposto che gli economisti con cui stiamo polemizzando siano in buona fede. Spesso non lo sono; e ancora più spesso non sanno di non esserlo, nel senso che la loro formazione li ha portati a trascurare fattori rilevanti ma poco studiati dalla teoria ortodossa3. Ora, il caso in cui esista una sola alternativa allo status quo è palesemente irrealistico; è invece realistico che esista una alternativa “naturale” ed altre che richiedono maggiori sforzi concettuali e politici, dati da una parte i vincoli culturali dei tecnici e dall’altra i vincoli politici dei decisori. Per esempio, la accresciuta competitività internazionale fa sì che oggi in Italia l’alternativa “naturale” sia ridurre il costo del lavoro, nonostante che l’evidenza fornita dall’industria (per esempio) tedesca, dove i salari sono molto più alti e gli orari più bassi, dimostri come la causa ultima della scarsa competitività italiana non sia il costo del lavoro. I propugnatori della soluzione “naturale” faranno di tutto per convincere i cittadini che non ne esistono altre, quindi per disinformare i cittadini. La televisione italiana è un ottimo esempio. Come recitava un magnifico slogan nelle dimostrazioni studentesche anti-Gelmini, «L’ignoranza è la vostra forza».

Se però ciò non funziona, una ulteriore possibilità è modificare il sistema di scelta collettiva, in sostanza riducendo la possibilità di trasformare un’opposizione individuale in un rifiuto collettivo. La limitazione in atto dei diritti sindacali serve a questo. In altri termini, dato che le leggi della politica, come abbiamo visto, sono istituzioni-specifiche, un modo per risolvere un eventuale conflitto con le leggi economiche è mutare le istituzioni. Personalmente, sono convinto che se una manovra economica che impone dei sacrifici è davvero l’unica praticabile, allora dei cittadini bene informati e liberi di decidere avranno la maturità per accettarla. E quindi se si cerca di disinformarli e di impedire loro di decidere liberamente, probabilmente è perché si cerca di nascondere che quella non è l’unica strada percorribile. E questo ci porta a una seconda (e ultima) conclusione: È bene che i cittadini si oppongano a una manovra economica che li danneggia, in quanto questo ostacola la tendenza dei poteri forti a barare sulle strategie economiche, disinformando i cittadini e/o mutando senza necessità le regole della democrazia in nome delle “leggi dell’economia” .

Appendice

1. Discussione e dimostrazione della legge fondamentale. Sia l’alternativa i quella favorita da un dato individuo, e j un’altra. L’utilità di votare i è data da

dE(i)/dV – C(v) + P(i) dove E(i)

è l’utilità attesa per il nostro soggetto se vince l’alternativa i, V è il numero di voti, C è il costo di votare e P(i) sono altri guadagni connessi al votare i (per esempio un pagamento nel caso di corruzione dell’elettore).

Analogamente, l’utilità di votare j è data da

dE(j)/dV – C(v) + P(j)

In entrambe le espressioni tutti i termini, tranne il primo, sono resi nulli dalle ipotesi. E poiché non esiste la possibilità di voto insincero (per esempio, votare per la seconda alternativa preferita se si ritiene che la prima non abbia speranze) l’unico argomento della funzione di utilità attesa è l’esito del voto. Il soggetto allora voterà i in quanto j dà un’utilità attesa minore.

2. Esempio numerico del primo caso di conflitto fra le leggi. Supponiamo un saggio di sconto del 3% (più o meno, «sono indifferente fra ricevere 100€ fra un anno o 97€ oggi») e un orizzonte di 10 anni (non ha senso supporre che i cittadini effettuino le loro scelte politiche su un orizzonte più lungo; la letteratura empirica indica che, semmai, l’orizzonte è molto più corto). Supponiamo che inizialmente il reddito mediano (cioè di quel cittadino che ha un reddito tale per cui la metà dei cittadini ha un reddito inferiore) sia 100, e che la politica A implichi questo andamento nei dieci anni considerati:

95, 90, 80, 85, 90, 95, 100, 105, 110, 115

mentre il non far nulla implichi questo andamento:

99, 98, 97, 96, 95, 94, 93, 92, 91, 90.

Il valore attuale netto (cioè, grosso modo, il valore che viene assegnato oggi al flusso di redditi dei dieci anni) è 807 nel primo caso, e 817 nel secondo. Quindi l’elettore mediano è danneggiato dalla politica, e con lui a fortiori tutti quelli che guadagnano meno (a meno di cambiamenti nella distribuzione del reddito, che qui non consideriamo). Essi sono la maggioranza, e voteranno ragionevolmente e razionalmente contro la manovra.

3. Esempio numerico del secondo caso di conflitto fra le leggi. Supponiamo la solita crisi economica, ma questa volta in una società con due classi, i padroni e i lavoratori. Ci basta considerare due periodi, e supponiamo per semplicità un saggio di sconto nullo. Inizialmente il reddito del lavoratore tipico è 10, quello del padrone tipico 100. La strategia A consiste nel portare il reddito del lavoratore a 8 e lasciare quello del padrone inalterato. Ciò consentirà sgravi fiscali alle imprese, le quali quindi nel secondo periodo potranno investire di più e fare sì che i redditi dei padroni passino a 105 e quelli dei lavoratori a 13. Tuttavia, i padroni potranno scegliere anche un’altra strategia (“portare i soldi in Svizzera”) che darà ai lavoratori 8 e ai padroni 110. Se il non fare nulla (strategia B) comporta per i lavoratori il passaggio a un reddito di 9 in entrambi i periodi, essi preferiranno B4; a meno che non ci sia una probabilità sufficientemente alta che i padroni scelgano di non “portare i soldi in Svizzera”. Ma portarli è per loro la strategia migliore; perché non lo facciano occorre un intervento politico, e quindi la strategia A ha senso solo se incorpora tale intervento.

 

Note

1 Questo risultato è in realtà noto da tempo agli economisti non schiavi del “pensiero unico”. Un grande economista progressista, M. Morishima, scriveva nel lontano 1964: «Un modello anche corretto di equilibrio generale non è niente altro che un’utopia senza alcun legame con l’economia reale se è privo della base istituzionale che gli consente di realizzarsi» (citato da A. Kirman, The Crisis in Economic Theory, in «Rivista Italiana degli Economisti», aprile 2011).

2 Un esempio molto chiaro è un articolo di A. Alesina comparso su La Stampa nel 2004. L’autore formula alcune proposte per «uscire dal vicolo cieco in cui si trova l’economia italiana», una delle quali è «la riduzione del peso del settore pubblico dall’attuale 47% del Pil a non più del 35-38%, restituendo potere d’acquisto ai contribuenti. È chiaro che questo implica riduzioni di spesa notevoli, visto anche il peso del debito. Che cosa va tagliato? Impiego pubblico, spesa per pensioni, trasferimenti alle imprese e al Sud». Questo secondo l’autore è «l’unico modo» per poter uscire dal vicolo cieco.

3.« Alla fine degli anni 90 è stata effettuata un’ampia indagine sulle proposte di politica economica avanzate dagli specialisti americani di economia del lavoro e di economia pubblica. Risultò che «Their positions on policy are more closely related to their values than to their estimates of relevant economic parameters».(Fuchs, Krueger e Poterba, Economists’ view about parameters, values and policies, in «Journal of Economic Literature», 1998).

4. Che i mercati finanziari mondiali non siano abbastanza efficienti per far sì che i soldi in Svizzera diventino fattore di sviluppo anche per il paese in questione è dimostrato dalla crisi attuale. È interessante notare che questo esempio altro non è che l’obiezione che i bambini delle scuole primarie rivolgono di solito all’apologo di Menemio Agrippa la prima volta che lo sentono raccontare (ammesso che lo si racconti ancora).