La città sostenibile. Oltre gli slogan

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di Elisabetta Forni[1]

1. Introduzione

A partire dai concetti di crescita, sviluppo, sostenibilità, sviluppo sostenibile, decrescita, ci proponiamo di mettere in luce da un lato quanto è ormai riconosciuto caratterizzare i limiti di questo modello di sviluppo a livello globale, incentrato sull’uso dei combustibili fossili non rinnovabili e devastanti per l’ambiente e misurato in termini di PIL; e dall’altro la necessità di assumersi la responsabilità individuale e collettiva di praticare una inversione radicale di stili di vita, nella consapevolezza che gli aspetti ambientale, economico e sociale sono interconnessi e che non si può privilegiarne uno a scapito degli altri. Il capitale sociale e culturale e il principio dell’equità sono infatti aspetti altrettanto cruciali del paradigma della sostenibilità.

Sulla base di tali premesse tenteremo poi di analizzare e di mettere a confronto alcune delle linee politiche e delle prassi messe in atto a livello governativo nazionale o locale, oppure da movimenti quali quello del Transition network.

La nostra analisi si è in particolare focalizzata su: 1. la strategia per lo sviluppo sostenibile della Confederazione Svizzera, 2. le smart cities, 3. le slow cities, 4. i Comuni Virtuosi, 5. le transition towns.

Come vedremo, mentre le prime due si ispirano al paradigma dello sviluppo sostenibile, le altre tre esperienze sono più orientate all’idea della decrescita.

 

2. Sviluppo sostenibile e impronta ecologica

Consapevoli del fatto che collegare il concetto di sostenibilità alla realtà urbana rappresenti: da un lato una complicazione ulteriore rispetto alla già complessa analisi degli effetti ambientali di un certo modello di sviluppo, ma dall’altro lato sia una necessità legata alla crescente urbanizzazione del pianeta e al dato della responsabilità preminente delle città nel produrre insostenibilità, riteniamo utile riprendere in sintesi ciò che gli studi finora condotti hanno messo in luce.

E lo faremo ripartendo dai concetti di crescita, sviluppo e decrescita.

Crescita e sviluppo non sono la stessa cosa. La prima è comunemente intesa esserci quando, grazie alla disponibilità di risorse energetiche e alla pianificazione economica, si aumenta la produzione interna lorda (il PIL). Con il secondo, ad aumentare sono in primo luogo la coesione sociale e territoriale prodotta dall’avanzamento dei saperi tecnico-scientifici e dalle risorse organizzative che essi generano. In questo senso, dunque, si può dare uno sviluppo senza crescita e viceversa. Tuttavia, si continua a commettere l’errore di considerare i due termini come intercambiabili o a misurare lo sviluppo nei termini di crescita del PIL, nonostante siano stati elaborati altri Indici più complessi e completi, quali lo HDI (Human Development Index), il BES (indice di Benessere equo e sostenibile) elaborato in Italia da ISTAT e CNEL, e lo HPI (Happy Planet Index) che si ottiene dalla formula: attesa di vita moltiplicato per benessere percepito diviso per impronta ecologica.

Con il termine Impronta ecologica Wackernagel, già nel 1996, aveva indicato il prodotto della misurazione della superficie (reale o equivalente) necessaria per produrre le risorse consumate da una popolazione e assorbire i rifiuti prodotti al netto di import/export. Con l’utilizzo del metodo dell’impronta ecologica è possibile stimare quanti ‘pianeta Terra’ servirebbero per sostenere l’umanità. In base a questo calcolo risulta che, data la Superficie procapite espressa in ettari globali (gha), i seguenti Paesi si trovano su posizioni molto diverse: USA 7,19 gha (biocapacità 3.86 gha), Italia 4,52 (1,15), Brasile 2,93 (9,63), India 0,87 (0,48). La media mondiale è di 2,70 (1,78), il che significa che il 22 agosto abbiamo già finito le risorse mondiali dell’anno (www.footprintnetwork.org).

Ma significa anche che mano a mano che i Paesi più arretrati si avvicineranno ai nostri stili di vita, il pianeta collasserà.

Il dato sull’impronta ecologica incrociato con quello del citato HDI produce un interessante quadro, dove a Paesi con una impronta ecologica buona corrisponde un basso indice di Sviluppo umano e viceversa, con la sola Cuba a rientrare nel quadratino virtuoso in alto a sinistra:

 

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Figura 1 (Fonte: www.commons.wikimedia.org )

 

 

Il calcolo dell’impronta ecologica e le strategie per riportarla al livello di carrying capacity della Terra non fanno parte, come vedremo, di tutte le politiche che prenderemo in considerazione, e men che meno di quella delle Smart cities, almeno nella versione adottata dalla città di Torino. Al contrario, esso è il punto di riferimento della strategia adottata dalla Confederazione Elvetica dal 2002.

Sono passati quarant’anni dal primo rapporto Meadows su “I limiti dello sviluppo” che aveva messo in luce l’insostenibilità del modello di sviluppo produttivo e consumistico occidentale, causata dall’impiego di risorse energetiche non rinnovabili (e in via di rapido esaurimento), dal degrado ambientale che l’uso di tali energie comporta e dall’aumento demografico incontrollato a livello planetario. Successivi aggiornamenti del Rapporto non hanno fatto altro che confermare quella prima analisi, semmai enfatizzando il baratro verso il quale stiamo andando a causa della crescente urbanizzazione del mondo e dell’entrata in scena di Paesi come Sudest Asiatico, Cina, India e America Latina che premono per raggiungere il modello di consumo occidentale. E sono passati venticinque anni da quando l’allora presidente del WCED, la norvegese Gro Brundtland, ha sollevato la questione della necessità di lavorare a uno sviluppo (crescita, per essere esatti) che fosse invece sostenibile.

Tale meta potrebbe essere raggiunta, secondo Brundtland, se si concordasse sul principio che la sostenibilità è prodotta da“uno sviluppo che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”(Rapporto Brundtland, WCED -Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo, 1987).

Avere recuperato dalla cultura filosofica nord europea il principio di responsabilità verso le generazioni future (ossia quelle che noi non riusciremo a vedere neppure alla fine della nostra vita, perché verranno parecchio dopo) è stato senz’altro un grande merito delle nuove politiche ambientaliste. E si tratta di una prospettiva diacronica cruciale per provare a calcolare gli effetti delle nostre scelte attuali.

Più articolata e chiarificatrice appare però la definizione di Herman Daly, che si basa sui seguenti principi della sostenibilità: 1) l’uso di risorse rinnovabili non deve essere superiore alla loro capacità di rigenerazione; 2) l’uso di risorse non rinnovabili non deve ridurre il loro stock; 3) l’immissione di inquinanti nell’ambiente non deve oltrepassare la capacità di carico dell’ambiente stesso.

Un contributo di riconosciuta qualità e rigore che riteniamo utile segnalare nel campo delle energie rinnovabili applicate alla città è quello di Peter Droege, autore del volume “La città rinnovabile”, tradotto in italiano nel 2008 dalle Edizioni Ambiente.

Le tre sfere, ambientale economica e sociale, necessarie a fare dell’analisi sulla sostenibilità un sistema completo ed equilibrato sono ben evidenziate nella Figura 2.

 

 

SOSTENIBILITA’

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Figura 2 – Spazio della sostenibilità (Crediti: Johann Dréo)

 

 

Avere trascurato gli aspetti sociali e ambientali a solo vantaggio di quelli economici si è rivelato miope e fallimentare. Direi di più: catastrofico.

La sostenibilità, che a questo punto non può che mettere in discussione radicalmente il modello capitalistico di crescita economica finora praticato in occidente e ora allargato a quasi tutto il pianeta, è l’esito della interazione delle tre macro-variabili e delle tre specifiche dimensioni che da esse sono prodotte: la vivibilità, la realizzabilità e l’equità.

Una città sostenibile sarebbe in questa prospettiva quella capace di contribuire alla sostenibilità regionale, nazionale, globale (e a trarre a sua volta giovamento dalle politiche up-down) praticando scelte che ne fermino l’attuale crescita. Tale crescita, peraltro, ha quasi ovunque subito un arresto per via della crisi strutturale, determinando il paradosso di una società della crescita senza che la sua caratteristica saliente sia perseguibile se non aumentando a dismisura le disuguaglianze. Le scelte necessarie e non rinviabili riguardano il risanamento dei danni e l’attuazione di pratiche virtuose, intelligenti, responsabili verso le generazioni future, pena il collasso del pianeta e la scomparsa dalla Terra delle condizioni necessarie alla vita umana. Come vedremo nel prossimo paragrafo, c’è chi a tali pratiche ha dato il nome di decrescita (Latouche).

 

3. Decrescita: le 8R e le 3C

L’economista e antropologo francese Serge Latouche è in effetti considerato l’ispiratore del concetto di Decrescita, intesa come corrente di pensiero politico, ecologico e sociale favorevole alla riduzione controllata, selettiva e volontaria della produzione economica e dei consumi, con l’obiettivo di stabilire relazioni di equilibrio fra l’uomo e la natura, nonché di equità fra gli esseri umani stessi.

Da tale ispirazione ha preso vita un movimento che sta raccogliendo consensi e adesioni ovunque. Secondo Latouche, i cui numerosi saggi sono reperibili anche in italiano, la società della crescita, basata su un modello consumistico teso a creare continui e insoddisfatti desideri anziché a soddisfare bisogni reali, ha finito di crescere. Ha cioè perso il suo senso, la sua ragion d’essere.

Il suo mito ha raggiunto l’apice con tre ingredienti: la pubblicità, l’indebitamento e l’obsolescenza programmata. Da questa crisi non si uscirà più e si andrà verso il baratro se si continua a perseverare sul modello nato con i pozzi di petrolio e occorre un insieme rapido e coerente di azioni di segno opposto.

La sintesi delle azioni individuate dal movimento è rappresentata dalle seguenti ‘8R’:

  • Rivalutare
  • Riconcettualizzare
  • Ristrutturare
  • Ridistribuire
  • Rilocalizzare
  • Ridurre
  • Riutilizzare
  • Riciclare

Per realizzare queste 8 azioni occorrono però le “3C”:

  • Convinzione
  • Coraggio

Esempi positivi in questa direzione ci vengono, secondo lo studioso francese, da alcuni Paesi dell’America Latina. Non tanto dal Brasile quanto da Ecuador, Bolivia e in qualche misura Uruguay.

Merita aggiungere un esempio. All’ultima Biennale Architettura di Venezia (2012) il padiglione tedesco brillava per chiarezza concettuale ed espositiva rispetto agli obiettivi del futuro modello di città, basati sull’applicazione di 3 delle 8 R della Decrescita.

Ne riportiamo pertanto di seguito in sintesi il contenuto, ricavabile per intero dal sito www.reduce-reuse-recycle.de:

 

L’architettura come risorsa

La popolazione in Germania sta diminuendo e invecchiando dando vita ad un processo di ridistribuzione e rivalutazione.

Gli interventi sul patrimonio edilizio esistente fanno parte ormai da molto tempo dei compiti più importanti in campo architettonico, sia in termini di riduzione e rimpicciolimento ma anche di rivitalizzazione, cambiamento di destinazione d’uso, integrazione nel costruito o riempimento di vuoti nel tessuto urbano.

Il patrimonio edilizio – compresi gli stabili e gli insediamenti poco apprezzati della modernità postbellica – deve essere riconosciuto come importante risorsa energetica, culturale, sociale e architettonica per la realizzazione del nostro futuro ed è essenziale sviluppare nei confronti dei manufatti esistenti un atteggiamento positivo e propositivo.

Reduce / Reuse / Recycle è lo slogan di successo che sintetizza la trasformazione dei rifiuti in materiale riciclabile: le tre R formano la “gerarchia che permette di evitare gli scarti”.

Al primo posto troviamo il termine Reduce ovvero la riduzione del volume di rifiuti, la promozione della cultura della riduzione. Segue il concetto di Reuse, il riutilizzo possibilmente diretto.

Soltanto al terzo posto incontriamo il Recycling, cioè la ri-formazione materiale. Quanto minore è la trasformazione del prodotto iniziale tanto migliore è il processo di riciclaggio.

Applicando questa logica all’architettura si ottiene un sistema di valori applicabili alla gestione del costruito: quanto minori sono le modifiche apportate e l’energia impiegata tanto più efficace risulta la strategia ricostruttiva.

L’apprezzamento del patrimonio edilizio è la premessa migliore per un rapporto più disinvolto con questo.

Il prendere sul serio l’esistente, il povero, l’insolito e l’usuale in quanto risorsa architettonica schiude nuove possibilità in termini di agire architettonico.

La qualità dei progetti non va ricercata in interventi formali spettacolari ma piuttosto in strategie intelligenti”.

 

4. Alcune strategie a confronto

A partire dal nuovo millennio, accanto a questo approccio che Latouche è andato progressivamente ridefinendo di recente come della frugalità felice, o dell’abbondanza frugale o della società conviviale (ispirandosi al ‘maestro’ Ivan Illich) altre correnti di pensiero o di azione politico-sociale hanno tentato di applicare alla città i dettami della sostenibilità o della decrescita.

Quelle che qui abbiamo preso in esame sono: la Strategia per uno sviluppo sostenibile della Confederazione Svizzera, le smart cities, le slow cities, i comuni virtuosi, le transition towns. In modo necessariamente succinto tenteremo di presentarne qui di seguito i tratti distintivi e ne proporremo infine una comparazione secondo alcuni parametri.

Scopo di queste pagine sarà dunque una prima analisi dei vari approcci, come premessa per verificarne coerenza ed efficacia rispetto all’obiettivo asserito della sostenibilità.

 

4.1 Strategia per uno sviluppo sostenibile 2002, Confederazione Svizzera

 

 

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Figura 3 – Programma ‘2000 watt’ della Confederazione Elvetica

 

 

La riproduzione dell’Indice del Documento, che è reperibile per intero sul web in italiano, tedesco, francese e inglese agli indirizzi www.are.admin.ch e www.johannesburg2002.ch., ci consente una visione d’insieme del progetto, del quale ci limitiamo in questa sede a sottolineare alcuni aspetti.

In primo luogo, il richiamo alla situazione di partenza, intesa sia nelle sue componenti politiche – il richiamo al dovere della sostenibilità contenuto nella nuova Costituzione Confederale del 1999, intesa sia come responsabilità verso le generazioni future, sia come impegno interno e internazionale – sia nella messa a punto della strategia e dei criteri per la scelta delle misure. Non si tratta di una questione banale e scontata: come si potrebbero altrimenti valutare i risultati delle azioni intraprese sul breve, medio o lungo termine? La scelta degli indicatori è dunque un aspetto cruciale.

In secondo luogo, l’enfasi sulla necessità di considerare in modo equivalente i tre aspetti ambientali, economici e sociali (cfr. la Figura 2), con attenzione a tutte le politiche settoriali e alla coerenza degli interventi.

In terzo luogo fare della partecipazione il mezzo per realizzare lo sviluppo sostenibile.

In quarto luogo, l’individuazione di specifici campi di attività, coerenti con i principi etico-civili e con la scelta dei tre aspetti ambientali, economici e sociali.

Infine, l’accurata definizione di metodi e strumenti, nonché i criteri per l’attuazione della strategia e le misure di accompagnamento.

Insomma, è evidente che si tratta di un piano strategico caratterizzato da completezza e coerenza esemplari, dei cui esiti in progress (comprese le difficoltà) è possibile avere riscontro attraverso i documenti che vengono mano a mano prodotti e che sono reperibili sul web.

 

4.2 Smart cities

William J. Mitchell, architetto dell’MIT, nel 2000 coniò il termine “e-topia”, che noi oggi chiameremmo Smart City, per trattare il tema della riformulazione della città, e dell’urbanistica in generale, sulla base della creazione di ambienti virtuali di interazione e di connessioni elettroniche tra edifici e spazi urbani.

La rete e le Information and Communication Technology (ITC), sono viste come elemento fondamentale per la trasformazione urbana, e questo aspetto è rimasto costante per tutte le definizioni successive.

In Europa sono stati i ricercatori del Politecnico di Vienna (TU Wien), in collaborazione con l’Università di Lubiana e il Politecnico di Delft (Paesi Bassi) a dare nel 2007 i primi significativi contributi alla definizione di Smart svolgendo una ricerca sulle European Smart Cities e sviluppando un nuovo strumento di ranking specifico per le città di media grandezza, con una popolazione inferiore ai 500.000 abitanti.

La graduatoria prodotta dai ricercatori è interessante: le città italiane sono poche e certamente non ai primi posti. Ma ciò che risulta chiaro è che non sono entrate in classifica in virtù di politiche consapevolmente mirate a una logica smart, quanto piuttosto per radicate, storiche ragioni culturali.

 

 

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Figura 4 (fonte: http://www.smart-cities.eu/benchmarking.html)

 

 

Ruota della Smart city

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Figura 5 – (Boyd Cohen, CoEXIST: http://www.fastcoexist.com/1680538/what-exactly-is-a-smart-city)

 

 

Essa risulta dunque composta da 6 caratteristiche (→ Smart Economy Smart MobilitySmart Environment → Smart People → Smart Living → Smart Governance →) che a loro volta contengono 31 fattori misurabili attraverso 74 indicatori. Si tratta di un insieme complesso e completo di fattori anche di carattere socio-culturale che difficilmente sono rintracciabili nei progetti Smart Cities finanziati dall’UE e tantomeno da quelli nazionali.

Una breve sintesi delle tappe dell’impegno Europeo nel programma Smart cities ci aiuterà a capirne i caratteri e i limiti.

Nel gennaio 2008 la Commissione Europea ha lanciato, nell’ambito del proseguimento degli obbiettivi della Strategia 20-20-20, il “Patto dei sindaci” (Covenant of Mayors) con l’intento di ridurre del 20% le emissioni di anidride carbonica entro il 2020 attraverso l’efficienza energetica e azioni di promozione dell’energia rinnovabile.

I Comuni firmatari (8 e Torino è fra questi) devono così impegnarsi, entro l’anno successivo alla firma, a presentare un Piano d’Azione per l’Energia Sostenibile (PAES) che raccoglie le politiche e le misure da attuare per il raggiungimento degli obiettivi prefissati nell’ambito di:

  • infrastrutture urbane;
  • pianificazione urbana e territoriale;
  • mobilità urbana;
  • coinvolgimento della cittadinanza a una governance partecipata;

Accanto al Patto dei Sindaci un altro atto dell’Unione Europea che ha dato avvio alla politica delle Smart Cities è lo Strategic Energy Technology Plan (SET Plan, 2008), che rappresenta l’impegno da parte dell’Europa a superare le sfide del clima e dell’energia, proseguendo una politica di sviluppo delle tecnologie energetiche nell’ottica di un mondo carbon free, in linea con gli obiettivi prefissati dalla strategia di sviluppo Europa 2020, che consiste nel raggiungere 3 obbiettivi contemporaneamente: portare al 20% la quota di energia prodotta con fonti rinnovabili, ridurre del 20% le emissioni di CO2 (rispetto ai livelli 1990) e ridurre i consumi energetici del 20% grazie al miglioramento dell’efficienza energetica all’orizzonte 2020 (http://ec.europa.eu/clima/policies/package/index_en.htm).

 

Per stimolare la crescita e l’occupazione l’Europa ha individuato 7 iniziative prioritarie. Nell’ambito di ciascuna iniziativa, le amministrazioni europee e nazionali sono state chiamate a coordinare gli sforzi affinché risultino più efficaci. La maggior parte delle iniziative sono state presentate dalla Commissione nel corso del 2010, e identificano le Smart Cities come una tra le misure prioritarie da affrontare.

Il programma europeo può essere riassunto in 5 obiettivi che i Paesi membri sono chiamati a raggiungere:

  1. Occupazione: innalzamento al 75% del tasso di occupazione (per la fascia di età compresa tra i 20 e i 64 anni)
  2. R&S: aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo al 3% del PIL dell’UE

3.Cambiamenti climatici e sostenibilità energetica:

– riduzione delle emissioni di gas serra del 20% (o persino del 30%, se le condizioni lo permettono) rispetto al 1990;

– 20% del fabbisogno di energia ricavato da fonti rinnovabili;

– aumento del 20% dell’efficienza energetica;

  1. Istruzione: riduzione dei tassi di abbandono scolastico precoce al di sotto del 10%, aumento al 40% dei 30-34enni con un’istruzione universitaria
  2. Lotta alla povertà e all’emarginazione: almeno 20 milioni di persone a rischio o in situazione di povertà ed emarginazione in meno.

Nel 2011 la Commissione europea ha lanciato il bando Smart Cities and Communities European Innovation Partnership. La partnership si propone di riunire le risorse per sostenere la divulgazione di energia, dei trasporti e delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nelle aree urbane. Le industrie dell’energia, dei trasporti e delle ICT sono invitate a collaborare con le città per unire le loro tecnologie per rispondere ai bisogni delle città. Ciò dovrebbe consentire alle tecnologie innovative, integrate ed efficienti di accedere al mercato più facilmente, pur ponendo le città al centro dell’innovazione.

Genova è stata la prima città italiana a ottenere finanziamenti da parte dell’UE in merito al bando Smart Cities and Communities con tre progetti:

  • TRANSFORM: prevede, di individuare una metodologia di trasformazione delle città in Smart City per arrivare alla redazione di un manuale con indicazioni su strategie e riferimenti a casi specifici da assumere come modello di confronto;
  • CELSIUS: prevede la progettazione e la realizzazione da parte del Comune di una rete energetica locale, con un impianto di turboespansione e una centrale di cogenerazione dalla quale si otterrà la rete di teleriscaldamento che servirà le utenze nell’area;
  • R2CITIES: il cui obiettivo è di sviluppare una serie di strategie e soluzioni innovative per l’edilizia residenziale nell’ottica di arrivare alla progettazione di edifici a energia zero. A tale fine le soluzioni e le strategie adottate per l’edilizia residenziale dovranno essere facilmente replicabili da un contesto all’altro.

Torino, che ha partecipato al bando europeo, non ha ottenuto finanziamenti, ma le cose sono andate ben diversamente con il Ministero italiano dell’Università e Ricerca Scientifica. Nel luglio 2012 il MIUR (all’epoca diretto da Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino) pubblica il secondo bando di idee progettuali per le Smart Cities and Communities and Social Innovation esteso alle aree del Centro-Nord. Il bando prevedeva lo stanziamento di 655,5 milioni di euro, di cui 170 MLN di contributo diretto ai progetti vincitori e 485,5 MLN destinati al credito agevolato. Inoltre una quota del contributo finanziario, pari a 25 milioni di euro, è stata stanziata per i Progetti di Innovazione Sociale presentati da giovani di età non superiore ai 30 anni. Al Comune di Torino, a seguito del bando MIUR, sono stati riservati 170 MLN per la realizzazione dei seguenti 11 progetti smart:

  1. EDIFICI PUBBLICI (12 MLN): gestire con un clic sicurezza e manutenzione;
  2. MOBILITA’ (13,2 MLN): incrociare i dati per snellire il traffico;
  3. ACQUEDOTTI (14,8 MLN): trovare le perdite e ridurre gli sprechi sulla rete idrica;
  4. TRASPORTI (15,5 MLN): viaggiare con un solo biglietto da una città all’altra;
  5. INFRASTRUTTURE (12,2 MLN): misurare la stabilità degli edifici con i sensori;
  6. CITTA’ (19,9 MLN): tutelare la sicurezza e valorizzare il patrimonio storico;
  7. TERRITORIO (19,8 MLN): gestire i rischi in caso di calamità naturali;
  8. QUALITA’ DELLA VITA (12,2 MLN): sviluppare l’architettura sostenibile;
  9. INVECCHIAMENTO (16 MLN): assistenza domiciliare agli anziani con monitoraggio del paziente attraverso appositi sensori e dati trasmessi telematicamente;
  10. PIANIFICAZIONE (14 MLN): simulare gli scenari più complessi prima di decidere;
  11. NUVOLA VIRTUALE (20,2 MLN): sviluppare l’e-government per gli enti pubblici.

Una partnership significativa nei progetti, accanto a Università e Politecnico, e dunque beneficiaria dei fondi pubblici stanziati dal MIUR, è rappresentata da grosse e potenti Compagnie, quali Siemens, Telecom, Grande Selex, Sas, Reply, Trenitalia, General Motors, SMAT, Vitrociset e anche l’Università privata Bocconi (A. Rossi, La città intelligente in dodici progetti, in La Stampa, 2 marzo 2013, pp. 44 – 45)

 

5. Slow cities

L’associazione Città Slow è nata per promuovere e diffondere la “cultura del buon vivere” attraverso la ricerca, la sperimentazione e la proposta di soluzioni per organizzare la città. Cittaslow è impegnata a:

  • promuovere e valorizzare la cultura locale;
  • applicare i principi di risparmio, riciclo, riuso;
  • promuovere il paesaggio rurale come espressione avanzata di modernità;
  • realizzare forme di abitare sostenibile (bioarchitettura) per vivere il territorio e non distruggerlo e/o alienarlo per le future generazioni;
  • promuovere la salute per tutti, attraverso i contenuti valoriali del cibo prodotto localmente;
  • supportare nuove forme di microeconomia locale basate sullo sviluppo delle espressioni esistenti in loco (resilienza).

Grazie a questo progetto culturale l’Associazione si prefigge di contribuire e generare più giustizia e responsabilità culturale. (www.cittaslow.org)

 

6. Comuni Virtuosi

L’Associazione nazionale dei Comuni Virtuosi (www.comunivirtuosi.org) è una rete di enti locali, che opera a favore di una armoniosa e sostenibile gestione dei propri territori, diffondendo verso i cittadini nuove consapevolezze e stili di vita all’insegna della sostenibilità, sperimentando buone pratiche attraverso l’attuazione di progetti concreti, ed economicamente vantaggiosi.

L’Associazione ritiene che sia necessario diminuire l’impronta ecologica di un Ente locale, attraverso una proposta culturale, un modello di de-crescita attento alla conservazione delle risorse, alla compatibilità ambientale e alla valorizzazione delle differenze locali. Al fine di permettere all’Associazione di valutare e verificare le effettive condizioni di continuità e coerenza nell’azione amministrativa e nelle politiche messe in atto nel campo delle “buone pratiche”, ispirate ai Valori del Manifesto, ogni Comune socio si impegna a relazionare in Consiglio Comunale, almeno tre volte nell’arco di un mandato (entro 2,5 anni dall’insediamento entro i 5 anni) le attività intraprese a favore dell’ambiente, rientranti nelle cinque linee guida individuate dall’Associazione e coerenti con i principi ispiratori del Manifesto e dello Statuto dell’Associazione. Le deliberazioni consiliari dovranno essere fatte pervenire tempestivamente all’Associazione, corredate da tutta la documentazione necessaria per poter mettere l’Associazione stessa nelle condizioni di poter effettuare le proprie valutazioni in merito al complesso delle attività intraprese.

Nell’ambito delle iniziative promosse dall’Associazione segnaliamo il Premio Comuni virtuosi a 5 stelle, che nasce con lo scopo di riconoscere, premiare e diffondere le buone pratiche sperimentate in campo ambientale dagli enti locali italiani. Dai rifiuti alla mobilità, dall’energia ai beni comuni, dalle politiche partecipative alla gestione del territorio, passando attraverso la concretezza e il buon senso.

Al Premio possono concorrere tutti gli Enti locali che abbiano avviato politiche (azioni, iniziative, progetti caratterizzati da concretezza ed una verificabile diminuzione dell’impronta ecologica) di sensibilizzazione e di sostegno alle “buone pratiche locali” con particolare riferimento alle seguenti categorie:

  1. Gestione del territorio;
  2. Impronta ecologica della macchina comunale;
  3. Rifiuti;
  4. Mobilità sostenibile;
  5. Nuovi stili di vita.

 

7. Transition towns

Con Transition network (www.transitionnetwork.org) o “rete di Transizione” si fa riferimento alla vasta comunità internazionale di individui e di gruppi che basano il loro lavoro sul modello di Transizione (talvolta anche detto “il movimento di Transizione”).

Un concetto cruciale sul quale si fonda la transition è quello di “resilienza”, definita come “la capacità di un sistema di assorbire i disturbi e di riorganizzarsi durante un cambiamento, in maniera tale da mantenere essenzialmente la stessa funzione, struttura, identità e lo stesso sistema di comunicazione interna”. Nella Transizione il concetto viene applicato agli insediamenti e alla loro necessità di essere in grado di superare momenti traumatici.

Il “Piano di Decrescita Energetica” si riferisce a uno dei progetti principali che un’iniziativa di Transizione si prefigge di realizzare, ovvero la creazione per la propria comunità di un “Piano B”, di durata ventennale, comprendente le modalità per realizzare la transizione dall’attuale dipendenza dal petrolio verso uno stile di vita resiliente e a bassa emissione di CO2.

La transizione si basa sui seguenti 7 PRINCIPI:

  • avere una visione positiva;
  • aiutare le persone ad accedere a buone fonti di informazione, e supportarle affinché possano prendere buone decisioni;
  • coinvolgimento e apertura;
  • permettere la condivisione e il networking;
  • creare Resilienza;
  • la Transizione è dentro e fuori di noi;
  • decentralizzazione: auto-organizzarsi su diversi livelli.

 

8. Conclusioni

Abbiamo provato a far emergere da questa succinta analisi che la differenza tra ‘sviluppo sostenibile’ e ‘decrescita’ non è una mera questione terminologica, poiché sta piuttosto su un piano logico, scientifico e storico che si misura oggi l’incoerenza del termine ‘sviluppo sostenibile’.

Ma, al di là della opposizione terminologica tra ‘sviluppo sostenibile’ contro ‘decrescita’, ciò che va sottolineato con forza è che nella prassi ciò che conta e che rende più efficaci le strategie è l’insieme di coerenza, completezza e metodo di attuazione.

Ad esempio, l’approccio Smart city a nostro avviso soffre spesso, e soprattutto in Italia (Torino compresa) di una visione parziale ed estremamente riduttiva del concetto di smartness, identificato sostanzialmente con quello di ‘città digitale’, come se il problema del continuare a crescere si risolvesse semplicemente attraverso una razionalizzazione informatica delle funzioni urbane.

Viceversa, la strategia dello Sviluppo sostenibile della Confederazione Svizzera brilla per coerenza e completezza e ha il grande pregio di porre la questione della sostenibilità sulla scala nazionale (Federale) pur nella consapevolezza del ruolo importante giocato dalle città, dai cittadini e dalle amministrazioni locali. Avere introdotto il criterio della misurazione dell’impronta ecologica e l’intenzione di ridurla comporterebbe necessariamente una politica di decrescita, al di là dello slogan dello viluppo sostenibile.

Il limite delle esperienze di ‘slow cities’ o dei ‘comuni virtuosi’ sta invece nei limiti geografici di progetti attuati in cittadine ‘assediate’ da un ambiente circostante non sostenibile.

La necessaria, sostanziale e urgente modifica del metabolismo urbano necessita di una vera e propria ‘rivoluzione’ nella quale anche capitale sociale e capitale culturale devono giocare un ruolo cruciale.

L’obiettivo, sostenuto anche dal network della Transition, è la ‘città rinnovabile’, ossia basata sul distacco dalle energie fossili e dall’impiego di energie rinnovabili coniugata con la città del ‘buen vivir’.

 

[1] Con il contributo per la raccolta dati di Alessandro Gamba e Veronica Pitton, studenti del Politecnico di Torino.