La sconfitta “tridimensionale” della sinistra

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di Francesco Scacciati

Non è la prima volta che la sinistra subisce rovesci, elettorali e non, nel mondo intero come in Italia, e diverse sono state le cause che li hanno determinati. In molti casi la causa è individuabile nella forza del nemico (mi si passi il termine un po’ rétro), cioè la potenza economica e militare del capitalismo. In parecchi altri casi però la causa del rovescio va individuata negli errori – gravi o anche gravissimi – commessi dalla sinistra stessa, ovvero dalle persone di sinistra. La diffusione a livello mondiale della globalizzazione e del neo-liberismo appartengono alla prima categoria, la dissoluzione dell’Unione Sovietica (che, piaccia o no, era un punto di riferimento delle sinistra nel mondo, anche se forse non più in Europa) sia alla prima sia alla seconda, ma molte altre sconfitte appartengono solo alla seconda. Naturalmente anche i tipi di errori sono molteplici, ma uno è ricorrente, soprattutto dopo che l’egemonia della classe operaia è venuta meno e dunque la dirigenza intellettuale che ne rappresentava l’avanguardia ha perduto il punto di riferimento e con esso la saggezza che la caratterizzava. Perduta quella, è stata l’autoreferenzialità a determinarne la strategia, e dall’autoreferenzialità al narcisismo il passo è breve.

La globalizzazione ha scombinato i tradizionali punti di riferimento della sinistra: la classe operaia (in occidente almeno) ha perduto buona parte del suo potenziale ruolo egemone in proporzione alla perdita della sua quota nella produzione del valore aggiunto nazionale, ma la globalizzazione del mercato del lavoro ha posto i lavoratori dei paesi ricchi in una posizione di vantaggio, se pur ridotto, in parte ingiustificato rispetto ai lavoratori del resto del mondo (la parte giustificata è la più elevata produttività dovuta al capitale umano, ma non a quello materiale). Questo ha fatto sì che molti di loro siano da tempo molto più interessati a conservare i loro vantaggi che a porre termine (seppur gradualmente) al proprio sfruttamento: la cosa si spiega con la maggior attrattiva degli obiettivi di breve rispetto a quelli di lungo periodo. Ciò significa ostilità nei confronti degli immigrati – che “rubano il lavoro” e fanno abbassare i salari – e di quelle trasformazioni del mercato del lavoro e dei rapporti con i datori di lavoro, imposte dalla concorrenza globalizzata; mentre invece sono viste con favore (con relativo consenso elettorale) le proposte di riduzione delle imposte nonostante favoriscano molto più i ricchi che non i lavoratori e implichino inevitabilmente una progressiva riduzione dei servizi pubblici essenziali.

E’ possibile datare l’inizio di questo fenomeno? Quando e perché comincia la crisi della sinistra? Quando (ri)cambia in vento? L’attacco frontale condotto da Reagan e Thatcher sono la causa della sconfitta della sinistra nel mondo (anche di quella moderata) oppure esso è stato reso possibile da una pre-esistente crisi strisciante della sinistra? Sono domande alle quali non è facile rispondere. Forse welfare state e diritti dei lavoratori negli anni ’70 in occidente hanno raggiunto livelli tali da implicare che o la classe operaia realizzasse l’ultimo balzo verso il socialismo oppure diventasse oggettivamente conservatrice, gettando le basi della crisi della sinistra che per sua natura è necessariamente progressista e innovatrice. La virata verso i diritti civili e l’ambientalismo ha a lungo mimetizzato il mutamento della base di classe dei consensi alla sinistra – anche per via di una parziale comunanza di obiettivi – ma da non poco tempo questa si è andata gradualmente manifestando, fino all’adesione massiccia dei lavoratori statunitensi al trumpismo e di quelli italiani al movimento 5 stelle.

Naturalmente, la forza lavoro è molto più settorializzata di quanto non fosse in passato: ci sono i lavoratori a tempo indeterminato (la middle class), i lavoratori non protetti, gli immigrati, i disoccupati, tutti di casa nostra, ma anche i lavoratori del terzo e quarto mondo che ormai è quasi come se fossero di casa nostra e anche i disoccupati del terzo e quarto mondo e le enormi masse di disperati che aumentano costantemente di numero, contravvenendo alle tradizionali teorie economiche e demografiche. Dall’altra parte ci sono i miliardari in dollari della finanza e i grandi capitani di industria: ossi molto duri, e la sinistra non è forte abbastanza opporvisi in modo efficace. Ma ci sono anche i medi e piccoli imprenditori, i commercianti, gli impiegati pubblici etc., etc. Di sicuro non si può prescindere né dagli uni né dagli altri.

C’è dunque da ripensare a ciò che deve fare la sinistra; dirò di più, c’è da ripensare a ciò che deve pensare la sinistra. Ma di una cosa credo di essere certo: il mondo così com’è oggi impone alla sinistra compromessi e trattative. Compromessi e trattative che negli anni ’70 e ’80 sarebbero apparsi inaccettabili. Sì, perché loro hanno vinto e la sinistra ha perso, e la sconfitta è stata totale, epocale – provo a utilizzare un termine inusuale in questo contesto: “tridimensionale”. In quanto economica, politica e culturale. E forse quello che dà più la sensazione di impotenza è proprio questa terza dimensione. Certe soluzioni proposte (e in passato perfino realizzate) dalle socialdemocrazie europee sembrano, perfino nell’ambito del mondo del lavoro, come appartenenti a un’altra epoca se non, ai più giovani, a un altro pianeta. Così come i pochi che ancora vi fanno riferimento e che, quando ci si conta, raccolgono le briciole.  Gli esempi più eclatanti riguardano l’intervento dello stato in economia (salvo quelli che sono personalmente destinatari di sussidi o sovvenzioni), la politica (fonte di corruzione), il pubblico impiego (i dipendenti pubblici sono sempre troppi e nullafacenti, anche quando, come ora in Italia, sono molti meno che in Francia e Inghilterra) e le tasse (che sono sempre troppe e vanno sempre ridotte, secondo il principio per cui i soldi delle tasse se li rubano i politici, mentre i servizi pubblici, sanità e istruzione innanzitutto, li porta le befana). In Italia la sconfitta culturale ha trasformato le speranze del popolo per i propri figli da ragioniere e segretaria dell’Italietta del dopoguerra e da ingegnere e dottoressa dell’Italia degli anni ’70 a calciatore e ballerina seminuda in televisione nell’epoca del berlusconismo, che, della nuova egemonia culturale neo-liberista, è la versione cialtrona e imbroglioncella che si è festosamente imposta in Italia.

In questo quadro di sconfitta tridimensionale, la strategia per ottenere risultati concreti richiede innanzitutto pazienza e gradualità fino quasi a farli apparire inizialmente impercettibili: anche un centimetro riguadagnato o non perduto sarebbe un successo; in certi casi è perfino necessario accettare un arretramento, cercando di limitare i danni, come per esempio nel caso dell’abolizione dell’articolo 18. Il principio secondo il quale nessuno può essere licenziato senza una giusta causa è sacrosanto, eppure, era inevitabile eliminarlo ed è impossibile reintrodurlo. Perché? Perché l’Italia sarebbe l’unico paese al mondo ad avere una simile clausola, e ciò farebbe sì che, in termini di occupazione, il saldo sarebbe con ogni probabilità negativo (sarebbero più i mancati nuovi posti di lavoro dovuti a minori investimenti – nazionali ed esteri – ed assunzioni, dei licenziamenti senza giusta causa). Le penalità a carico del datore di lavoro che licenzia senza giusta causa sono il limitare i danni di cui sopra.

In Germania la sinistra lo ha capito, e lo hanno capito i lavoratori, in Italia ancora no: forse non a caso la Germania è un paese in crescita e leader mentre noi siamo in costante calo (se non assoluto quantomeno relativo). In Italia non a caso al sud stravince il partito che promette assistenza (pur senza voler ignorare la componente di elettori che ha votato sperando in un cambiamento di sistema) e al nord vincono i partiti che promettono di abolire, o quasi, le tasse per i ricchi (pur senza ignorare la componente xenofoba, che credo però sia largamente minoritaria). Il combinato disposto sarebbe un cocktail mortifero per il paese, in grado anche di mettere in pericolo la democrazia: drastico calo delle entrate dovuto alla flat tax, forte aumento della spesa pubblica dovuto a sussidi e pensioni, esplosione del rapporto debito/PIL, uscita dall’euro, inflazione galoppante con pensioni e stipendi pagati in lire.

Anche il keynesismo, una specie di linea del Piave della sinistra in occidente, non è credibilmente proponibile se non opportunamente modificato per renderlo compatibile con il quadro dell’economia mondializzata: infatti, perfino il sostegno alla domanda interna non avrà effetti positivi su crescita e occupazione del paese che lo attua, se essa si rivolgerà a beni importati piuttosto che a beni nazionali.

Quello di aumentare competitività e produttività – in assenza delle quali non c’è spazio per crescita, maggiore occupazione, più alti salari, recupero dei diritti – senza appiattirsi sulle ricette della destra liberista, avrebbe dovuto essere uno dei grandi compiti della sinistra europea e italiana nell’economia globalizzata, così com’è.

Comunque, meglio tardi che mai.