Fischiare per farsi coraggio

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di Sillvano Belligni

 

1. I risultati delle elezioni del 4 marzo sono da attribuirsi in larga misura alla prevalenza fra gli elettori italiani di tre sentimenti fondamentali, insorti nel corso degli ultimi decenni ma radicalizzatisi durante la grande depressione dei nostri anni: paura, sofferenza e rabbia. La paura è quella di chi, specie (ma non solo) nelle zone più affluenti del paese, teme di veder diminuito il suo status economico-sociale a causa della globalizzazione, della crisi economico-finanziaria e/o della presenza dell’immigrazione. La sofferenza è quella di chi (specie al Sud, e tra i giovani, ma non solo) vive in condizioni di indigenza, di precarietà occupazionale, di assenza di prospettive di miglioramento, di chi ha perso un reddito sicuro o non ne ha mai ottenuto uno all’altezza delle sue aspettative e necessità. La rabbia è ciò che accomuna e cementa tutte queste categorie di persone scaricandosi sull’establishment, sui governi, sui partiti, sulle istituzioni nazionali e europee che ne sono espressione, insomma sulla “politica”, nella ricerca di alternative di rappresentanza, di nuove speranze e di illusioni, dopo le delusioni del passato. Non è necessario ritornare sulle cause, in gran parte note, che hanno portato a questa deriva della legittimità e della fiducia; se non per ribadire che si tratta di cause il larga misura generali (che riguardano cioè non solo l’Italia, ma tutte o quasi le economie politiche sviluppate), di lungo periodo (sono operanti da decenni) e hanno una portata strutturale (investono direttamente i rapporti tra politica democratica, economia e società), anche se interagiscono con fattori locali e contingenti di carattere istituzionale e idiosincratico. Perché siano efficaci, i futuri rimedi dovranno tenerne conto.

La prevalenza e la distribuzione di questi sentimenti negativi nel comportamento di voto degli italiani (e non certo il sistema elettorale che, al più, non ne ha impedito la manifestazione) ha prodotto una tipica situazione di stallo fra tre forze principali, nessuna delle quali è in grado di ottenere la maggioranza necessaria per governare se le altre due si coalizzano per impedirlo: una coalizione di destra (Lega, FI, FDI) prevalentemente nordista, unificata dalla paura del declassamento e dello straniero e internamente conflittuale; una formazione di centro radicale (M5S), prevalentemente “sudista”, gonfiata dal bisogno e dal risentimento e catalizzata dalla demagogia antipolitica; due formazioni, PD e LEU, contingentemente divise e ostili, ma intrinsecamente omologhe, fortemente identificate con l’establishment governativo e con le classi medio-alte, ormai totalmente estranee alle tradizionali classe gardée della sinistra, prive di una dimensione comunitaria e di un insediamento territoriale significativo se si esclude una ridotta elettorale nel centro del paese (PD e LEU).

I rapporti di forza tra queste “tre minoranze” sono i seguenti:

 

Partiti/coalizioni %

camera

%

senato

Seggi camera Seggi senato*
Destra:

Lega

FI

FDI

37,0 %

17,4 %

14,0 %

4,3 %

  263 (260+3)

 

137(135+2)
Centro:

M5S:

 

32,7 %

 

   

222 (221+1)

 

112

Sinistra

PD

LEU

21%

18,7%

3,4 %

  130

116 (110+6)

14

 

 

61

57 (52+5)

4

* Esclusi i 6 senatori a vita. 36 parlamentari si sono iscritti al gruppo misto

 

Per uscire da questa situazione bloccata si profilano due vie. Una è quella – tuttora saldamente in campo – del ritorno alle urne. E’ una soluzione che presenta dei rischi per tutti e che scontenterebbe buona parte dei parlamentari (specie di quelli nuovi: il 60% del totale); una soluzione, a quanto pare, non gradita ai poteri “esterni” nazionali e internazionali.

L’alternativa è un compromesso politico-parlamentare. In astratto sono in campo tre metodi di azione per arrivare alla soluzione del puzzle del governo.

Il primo è una sorta di via “deliberativa” che fa appello al fair play e alla responsabilità istituzionale dei partiti e dei singoli rappresentanti in opposizione ai loro interessi organizzativi e personali. Richiede di prendere sul serio la funzione (la nuova “centralità”) del parlamento come arena in cui, attraverso la discussione improntata al bene comune e alla razionalità argomentativa, si possono modificare le preferenze e i comportamenti degli attori e pervenire a decisioni “intrinsecamente” condivise su una formula e un programma di governo. Sul realismo di questa ipotesi, qua e là adombrata più o meno retoricamente, tornerò più avanti.

Una seconda possibilità, che circola sottotraccia, è che i rapporti di forza tra gli schieramenti assembleari possano essere modificati favorendo lo spostamento opportunistico di individui e gruppi da un campo all’altro in cambio di vantaggi politici o economici: trasformismo e corruzione (compravendita dei voti) sono i meccanismi politici tipicamente usati a questo scopo. Anche questa, in fondo, è “centralità del parlamento”. Si tratta di una possibilità rimasta per ora sullo sfondo (dopo l’improvvida uscita preelettorale berlusconiana), ma che potrebbe in un futuro prossimo ripresentarsi con nuove chances, magari a supporto di soluzioni numericamente anemiche.

Il terzo approccio è quello negoziale. Lo stallo elettorale può venir superato attraverso una negoziazione integrativa fra tutte o fra una parte delle forze in campo, che instauri un gioco con esito a somma positiva in primo luogo per i giocatori, eventualmente – come sottoprodotto – per il paese.

Questo approccio si declina in una serie di possibilità alternative (o complementari) che sono l’oggetto delle manovre e del dibattito di questi giorni, verosimilmente destinate a non esaurirsi tanto presto.

Una prima possibilità, ripetutamente fatta balenare, è quella di un cosiddetto “governo di scopo”, vale a dire di un esecutivo a termine finalizzato a preparare la legge finanziaria, ad approntare una legge elettorale “antistallo”, in vista delle prossime elezioni europee. Un’ipotesi che molti reputano non stravagante. Meno probabile appare invece il varo di un governo di minoranza (sul modello spagnolo), con maggioranze contingenti a seconda delle politiche in agenda.

Un’altra possibilità è quella di un governo “cesaristico” di unità nazionale o di grande coalizione, politico o tecnico Questa ipotesi non sembra per il momento all’ordine del giorno, per quanto si tratti di una soluzione che in Europa ha visto numerosi precedenti (a partire dalla Germania e dalla stessa Italia) e che è più o meno surrettiziamente caldeggiata a livello internazionale. Non si dimentichi che prima o poi – forse presto se l’annuncio di recessione economica legata alla guerra commerciale degli Usa si concretizzerà ulteriormente – entreranno in gioco potenti “persuasori” esogeni (i sedicenti mercati, le agenzie di rating, lo spread, la UE, le agenzie internazionali, i principali media e via prevaricando) che ci faranno delle proposte che non potremo rifiutare.

Pur tenendo in conto queste eventualità, un’ipotesi oggi accreditata è che si pervenga ad un accordo bilaterale basato su una negoziazione dei programmi e degli organigrammi fra due delle tre forze in campo per dar vita a un governo organico (o in subordine a un governo di scopo) che duri oltre il breve periodo. L’alternativa sarebbe in questo caso fra un esecutivo basato su una coalizione tra M5S e “sinistra”, o su una “coalizione populista” tra M5S e destra (con o senza la presenza di FI); fuori dai giochi sembra invece un’alleanza trasversale destra-sinistra che tagli fuori il M5S.

In questa prospettiva – con tutta la prudenza del caso, date le differenze e le tensioni interne a ciascun gruppo, e al netto delle posizioni tattiche, dei giri di walzer e dei giochi di palazzo – possiamo attribuire prima facie ai tre attori in campo il seguente ordine di preferenze:

 

  1° scelta 2° scelta 3° scelta
Destra Destra M5S Sinistra

 

Centro M5S Sinistra

 

Destra
Sinistra Sinistra

 

M5S Destra

Se la si prende sul serio, l’accordo bilaterale che la tabella suggerisce come più probabile – in termini di alleanza organica di governo o anche di appoggio esterno – è quello tra M5S e centro-sinistra. Una coalizione populistica allargata a FI sembra con queste premesse meno probabile (anche dopo l’accordo sulla presidenza delle camere), dati i costi interni che ne deriverebbero a un partito come i cinque stelle in cui prevalgono, per quel che se ne sa, posizioni e provenienze “di sinistra”; anche se l’ambiguità e la volatilità ideale del M5S, e sia pur generici elementi di convergenza, lasciano ampi margini di incertezza al riguardo. Ostacoli simmetrici valgono per la destra.

L’incertezza aumenta se dalle pulsioni e dalle posizioni originarie si passa ai programmi e alle politiche. Nella tabella che segue c’è un tentativo (piuttosto spericolato data la generale ambiguità programmatica) di ordinare preferenze e priorità di policy in uno schema semplificato, distinguendo tra preferenze “brand” (il marchio di fabbrica che sintetizza l’identità del partito) e preferenze programmatiche (opzioni e priorità di policy)

  Preferenze brand
M5S Lotta ai costi e ai privilegi della politica Reddito di cittadinanza Riduzione del vincolo esterno Politiche di riduzione e di riequilibrio fiscale Abrogazione della legge Fornero
Destra Contrasto all’immigrazione Politiche di riduzione e di riequilibrio fiscale (flat tax)

 

 

Abrogazione della legge Fornero Privatizzazioni Riduzione del vincolo esterno

e lotta all’austerità

PD Politiche di riduzione e di riequilibrio fiscale Pensione di garanzia minima Riduzione del vincolo esterno e lotta all’austerità Interventi su scuola e università Ius soli
LEU Lotta alle disuguaglianze Interventi su scuola e università Lotta contro l’evasione e tassazione delle transazioni finanziarie Abrogazione del Jobs Act Ius soli

.

E’ difficile trarre da questo quadro – certamente approssimativo e forzato nelle specifiche attribuzioni – una tendenza dominante che possa sostenere una ipotesi di governo piuttosto che un’altra: tanto più che etichette in apparenza simili – come le politiche fiscali o quelle di rinegoziazione dei vincoli di bilancio – nascondono in realtà alternative e policy framing divaricati, se non addirittura opposti.

D’altra parte, come sappiamo, ambiguità e frammentazione a parte, raramente le promesse elettorali trovano una corrispondenza effettiva nelle agende di governo e, ancor meno, nelle politiche effettivamente implementate. Con buona pace della teoria mainstream, ciò che determina la scelta delle politiche pubbliche ha ben poco a che fare con le mitiche preferenze dell’elettore mediano (a meno di non pensare che, in questi anni difficili, l’elettore mediano abbia pervicacemente optato per una diminuzione del proprio reddito e un aumento della povertà). Ciò che in realtà determina le scelte di policy è una combinazione contingente tra incrementalismo, impegni pregressi, provvedimenti ad hoc e emergenziali, meccanismi idiosincratici, pressioni esterne di poteri sovranazionali e gruppi organizzati; tutto ciò in linea con l’esigenza dei politici e dei partiti di assicurarsi le cariche e la rielezione. Qualcosa del genere, all’insegna dell’opportunismo e dell’indeterminazione, avverrà verosimilmente anche questa volta, quale che sia la coalizione vincente: qualche concessione programmatica edulcorata che salvi l’onore di ciascun partner tutelandone il brand ideologico (la xenofobia, l’antipolitica, una qualche forma minimale e parsimoniosa di reddito di cittadinanza ecc.) e poi negoziazioni à la carte e logrolling implicito, nel quadro delle compatibilità e dei vincoli internazionali predefiniti. Nulla che esorbiti dai limiti dello status quo, malgrado le dichiarazioni roboanti e i timori catastrofici manifestati. Altrimenti si torna a votare.

2. Nei giorni scorsi, una proposta anomala rispetto alle ipotesi in campo per superare lo stallo elettorale è stata avanzata su Micromega da autorevoli esponenti della sinistra intellettuale esterna al PD.

La loro proposta – la cosiddetto “mossa del cavallo” – si presenta come radicale e al tempo stesso capace di instaurare un gioco con un esito a somma positiva per i giocatori e per il paese. Si impernia sul varo di un governo “ibrido”, con premier e ministri scelti fuori dai partiti che compongono la maggioranza (M5S + PD e LEU,) e con un programma che ricalchi in larga parte l’agenda elettorale dei cinque stelle. L’uscita di Micromega, se non ha ottenuto lo scopo di sparigliare il gioco del governo (visto il sostanziale disinteresse che ha suscitato tra gli addetti ai lavori), ha però il merito di porre sul tappeto – implicitamente e senza volerlo – due problemi a mio avviso ineludibili: il problema del programma e quello del partito.

Vediamo meglio i due pilastri della proposta, riportando due passi chiave del suo promotore, Paolo Flores D’Arcais: “Un governo con gli elementi portanti del programma dei cinque stelle, che per trovare in parlamento i voti per il 51%, sia affidato ad una personalità fuori dai partiti, che scelga ministri tutti della società civile… Quali aspetti del programma? Quelli, radicalissimi, che picconino l’hybris di disuguaglianze, taglino artigli alle prepotenze finanzarie e marchionnesche, straccino i ponti sugli stretti, concentrino le risorse in ricerca scientifica e cultura, sistema idrogeologico e paesaggio (contro la speculazione edilizia, ovviamente), e non più dichiari ma realizzi guerra permanente ai grandi evasori recuperando pacchi di miliardi e senza quartiere la facciano a mafie e corruzione”. Perbacco. Più sobriamente, nella riformulazione creativa fattane da Montanari e Pallante la proposta suona come segue: “un governo composto e guidato da personalità esterne ai partiti, capace di attuare un programma di svolta nella direzione di una graduale attuazione del progetto della Costituzione” (sottolineature nostre). Anche così, non è poco.

Se ho ben capito, i cinque stelle, a cui è indirizzata la proposta, dovrebbero rinunciare al controllo del potere e ai benefici della premiership e delle cariche, per realizzare un’agenda di riduzione delle diseguaglianze e di implementazione di politiche “radicalissime”: un profilo di governo e un set di obiettivi che corrispondono se non proprio al programma massimo di una forza socialista intransigente, quantomeno a un progetto di “radicalismo costituzionale” che, almeno a prima vista, non risulta essere nelle loro corde Tutto ciò adottando un metodo decisionale inclusivo, basato sulla discussione e sull’accordo e non sulla logica maggioritaria, dura a morire, del “chi vince prende tutto”.

Ci deve essere sfuggito qualcosa. Dove sia possibile trovare, nei programmi e nelle dichiarazioni di intenti dei destinatari della proposta di Micromega & Co. le tracce della volontà di implementare un programma di questa portata “rivoluzionaria” non è chiaro. Come si è visto, se mettiamo a confronto le (presunte) priorità programmatiche dei tre partiti fin qui dichiarate, riscontriamo scarse zone di sovrapposizione. E certamente dal quadro non emerge quell’indirizzo generale di lotta alle disuguaglianze e di intransigenza costituzionale che è nei voti degli estensori della proposta. Il (sacrosanto) principio della lotta alle disuguaglianze non è, di per sé, un programma politico: richiede, per essere concretizzato, la specificazione di un organico cluster di politiche pubbliche dedicate, senza di che finisce per essere un puro flatus vocis, su cui non a caso sono d’accordo tutti, da Potere al popolo al FMI. Messe insieme, le diverse proposte non fanno una politica coerente e incisiva (la “svolta” auspicata), ma un’accozzaglia informe di provvedimenti accattivanti (per la sinistra) ma privi di un asse strategico intelligibile.

3. E’ vero però, come si diceva, che i programmi elettorali lasciano quasi sempre il tempo che trovano. Proviamo quindi ad ammettere, per puro amore di discussione, che si pervenga alla formulazione di una agenda di governo condivisa che contenga almeno una parte degli impegni radicali che sono stati evocati. In assenza di altre indicazioni, dobbiamo pensare che sarà l’élite di governo a garantire, per il metodo con cui verrà scelta e per la statura intellettuale e morale dei suoi componenti (reclutati dalla mitica “società civile”), un esito virtuoso della vicenda.

Simili auspici equivalgono, a mio avviso, a fischiettare per farsi coraggio. La formulazione e la realizzazione di un programma avanzato richiedono in realtà ben altri presupposti, visioni, strategie e risorse che non sono nella disposizione di nessuno. Richiedono, in primo luogo una squadra di governo politicamente esperta (in grado di superare il percorso a ostacoli che ciascun progetto di cambiamento politico radicale inevitabilmente troverà sulla sua strada, irto di trabocchetti e di deviazioni); una squadra che sia autonoma (capace di resistere a pressioni interne e esterne che si annunciano formidabili) e sufficientemente integrata e coesa, con una propria visione di società e un progetto di governo; un gruppo ben diverso da un assemblaggio di anime belle (if any) e di accademici di seconda fila. Ma soprattutto esigono una squadra organicamente collegata con il paese, con un radicamento comunitario e una capacità di mobilitazione e di sostegno che sono anni luce lontani dalle attuali possibilità dei destinatari della proposta. Perché una cosa è chiara: qualsiasi serio tentativo di governare un cambiamento progressivo, sia pure con la necessaria prudenza e gradualità e facendosi carico dei vincoli esistenti, esigerà un impegno titanico che non potrà essere sostenuto da un’élite di neonotabili o di guru. Ci vorrebbe un partito vero, ma un partito vero non c’è e non è alle viste.